Testo di Alessandro Masetti —
Dal 2 ottobre 2021 Palazzo Strozzi ospita “Jeff Koons. Shine”, la tanto attesa mostra a cura di Arturo Galansino e Joachim Pissarro che porta a Firenze un’antologia delle più celebri opere del re Mida dell’arte contemporanea dagli anni Settanta a oggi.
Attenzione però, non si tratta di una delle retrospettive alle quali ci ha abituato la gestione Galansino con Ai Weiwei (2016), Bill Viola (2017) o Marina Abramovic (2018). Questa volta ci troviamo di fronte a una rilettura selettiva degli oltre 40 anni di carriera di Jeff Koons secondo il tema specifico dello “shine”, ovvero della luce, della riflettenza, di quel riflesso di superfici specchianti che accolgono e includono lo spettatore all’interno di un’arte fatta di riferimenti culturali che coprono millenni di storia.
Come riferito nei vari interventi istituzionali succedutisi in occasione della lunga conferenza stampa, in quel contenitore armonico rinascimentale perfetto quale è Palazzo Strozzi, Koons si misura attivamente con il passato glorioso del capoluogo toscano. Lo stesso sindaco Dario Nardella ha proposto un confronto tra la lucentezza dei capolavori di Benvenuto Cellini e lo shine di Koons, ricordando che per gli artisti contemporanei «Firenze non è una vetrina, ma una sfida».
In realtà il confronto con i maestri non spaventa Koons, anzi, è proprio su questa connessione che ha costruito la sua intera carriera. Cercando di raccontare il suo rapporto con il passato spiega: «Sono cresciuto a York in Pennsylvania, in una famiglia della middle class. Ho imparato a disegnare sin da bambino, ma non avevo alcun legame con la storia dell’arte fino al college. Quando per la prima volta ho visto l’Olympia di Manet e l’insegnante ci ha spiegato le sue diverse simbologie, di come il gatto nero nell’angolo potesse avere certi significati nella Francia dell’Ottocento o di come la posizione di Olympia potesse essere collegata a Goya, lì ho capito la connessione di tutta l’umanità e da quel momento ho voluto unirmi e partecipare a questo dialogo. Amo Filippo Lippi, Masaccio e tutti gli artisti del passato perché credo nella memoria biologica e credo nella ricerca di un qualcosa al di fuori dell’io. Così, quando guardo le opere, mi sento stimolato e sono in grado di trovare connessioni, e più connessioni si possono trovare, più la realtà diventa energia vitale.»
L’amore per gli old masters si palesa nelle ultime sale del percorso espositivo trasformando la visita in una ricerca di nessi con l’antichità, di cui le serie Gazing Ball Sculptures e Paintings (2013-2021) ne sono la piena manifestazione. La mitologia classica infatti rivive in riproduzioni fedeli di grandi tele di Tiziano, Rubens e Tintoretto o nei gessi monumentali di Diana e Apollo sui quali si innestano sfere blu riflettenti che come in un dispositivo per la realtà aumentata, specchiano e trasferiscono l’osservatore all’interno delle stesse opere, ampliando il numero di interlocutori di un eterno dialogo sulle origini della cultura occidentale.
Questi salti spazio-temporali densi di riferimenti culturali evolvono in Koons poco dopo essersi trasferito a New York nel 1977, quando inizia a lavorare con piccole mensole di specchi sulle quali appoggia oggetti di uso comune di duchampiana e warholiana memoria, in un processo che cattura e riflette lo spettatore quale partecipante consapevole della fruizione artistica, come nel caso delle spugne da cucina dell’opera Sponge Shelf (1978) o gli Inflatable Flowers (1978).
Nel suo insieme la mostra fiorentina vanta opere importanti che hanno contribuito a rendere noto Jeff Koons anche al grande pubblico. Troviamo infatti pezzi cult come il Baccarat Crystal Set (1986) che replica un lussuoso set da whiskey in un materiale industriale e proletario quale è l’acciaio; l’iconico Rabbit (1986), coniglietto da novantuno milioni di dollari – l’opera più cara mai venduta di un artista vivente – che materializza la perfetta sintesi tra pulsioni erotiche e cultura pop del secondo Novecento; e ancora Balloon Dog (Red) (1994-2000) che da simpatico palloncino modellato a forma di cane in occasione di una festa di compleanno, può diventare un mastodontico cavallo di Troia dall’ignoto contenuto minaccioso, mentre Lobster (2007-2012) e Hulk (Tubas) (2004-2018) sono perfette reinterpretazioni in acciaio di leggerissimi materassini gonfiabili elevati concettualmente a nuovi ready-made.
Al termine del percorso espositivo questo dialogo collettivo aumentato tra l’artista, i curatori, gli artisti del passato e i visitatori si conclude con un rimando alle origini dell’uomo. L’ultima sala è un momento di stop e riavvio in cui le due giganti Ballon Venus (2013-2019), tratte dalle piccole e sinuose veneri paleolitiche di Lespugne e Dolni Vestonice, sono da interpretarsi quale messaggio di speranza che auspica la conservazione dell’umanità.