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Je m’appelle Olympia al Museo MAN di Nuoro – Intervista con Alice Guareschi

Je m’appelle Olympia nasce da una “azione per luci di sala” eseguita da Alice Guareschi, una volta sola, per un pubblico scelto di invitati, il 12 aprile 2012 all’Olympia Music Hall, iconico e leggendario teatro parigino. Le 16 fotografie che compongono questa serie sono state scattate lo stesso giorno dell’azione, subito dopo l’attivazione dal vivo della […]

Alice Guareschi, Je m’ appelle Olympia – Allestimento – Photo Credit @ Alessandro Moni, MAN, Nuoro 2023

Je m’appelle Olympia nasce da una “azione per luci di sala” eseguita da Alice Guareschi, una volta sola, per un pubblico scelto di invitati, il 12 aprile 2012 all’Olympia Music Hall, iconico e leggendario teatro parigino. Le 16 fotografie che compongono questa serie sono state scattate lo stesso giorno dell’azione, subito dopo l’attivazione dal vivo della coreografia luminosa nello spazio vuoto del teatro, che ha coinvolto tutte le tredici piste di luci colorate, integrate in modo permanente nell’architettura.

Seguono alcune domande ad Alice Guareschi —

Elena Bordignon: Al MAN di Nuoro presenti un progetto molto particolare. Je m’appelle Olympia nasce da una sensazione molto personale, quasi intima con lo spazio di un teatro parigino, l’Olympia Music Hall. Mi racconti come è nata l’idea?

Alice Guareschi: Nel novembre del 2011 sono andata all’Olympia a sentire un concerto della musicista inglese Anna Calvi. Nonostante io abbia vissuto a Parigi per lunghi periodi, in momenti diversi della mia vita, non c’ero mai stata prima. Quella sera ero sola. A un certo punto, durante il live, ho percepito fisicamente l’emozione provocata dal movimento e dalle dissolvenze delle luci in contrasto con la monumentalità, in qualche modo romantica, segnata dal tempo e le sue storie, di questo splendido teatro. A fine concerto non riuscivo a lasciare la sala, e man mano che si svuotava dal pubblico Olympia diventava ai miei occhi sempre più imponente, magica, misteriosa. Sono uscita per ultima, con il desiderio di fare della sua stessa architettura la protagonista di un’opera, rendere lei stessa spettacolo, non più soltanto l’elegante cornice o l’iconico sfondo di qualcosa che avviene però su scena.
Qualche mese dopo si è presentata l’occasione: una mostra dal titolo This and There, curata dall’artista Claude Closky negli spazi della Fondation Pernod Ricard, per festeggiare i dieci anni di storia del Pavillon del Palais de Tokyo, residenza alla quale avevo partecipato nel 2005. L’idea era che ogni artista scegliesse un luogo o un tempo fuori dallo spazio espositivo (There) dove far succere qualcosa (This), la cui traccia o coordinata sarebbe poi stata presente in mostra. Io ho scelto Olympia. Ho proposto di attivare il teatro con una coreografia luminosa, un’azione scritta per le sole luci di sala — ovvero quelle presenti in modo permanente nell’edificio, ormai utilizzate di rado, soltanto all’ingresso e all’uscita degli spettatori — da realizzare un’unica volta, per un pubblico scelto di invitati. Une pièce unique. Avere l’intero teatro vuoto a mia disposizione è stata un’esperienza meravigliosa, oltre che un grande privilegio.

EB: In sintesi Je m’appelle Olympia è un’“azione per luci di sala”: un’orchestrazione luminosa che segue una sorta di ritmo musicale. Alle note hai sostituito l’impianto luminoso della sala, raccontato mediante degli scatti fotografici. Come tradurre la poesia della sequenza luminosa, la sua mobilità, con la fissità fotografica? 

AG: L’opera è composta da due momenti distinti, allo stesso tempo autonomi e complementari: l’azione per luci, che ha a che fare con il tempo, la durata, l’esperienza dal vivo, e che sapevo non sarebbe stata ripetibile; e le fotografie, che invece investono lo spazio, e scompongono quella stessa durata in fotogrammi, visibili sia singolarmente sia nel loro insieme.
L’immagine fotografica è quindi un secondo passaggio, come un’ulteriore forma di articolazione del pensiero, un modo di restare, di far esistere l’idea non attraverso una semplice documentazione dell’azione, ma in una diversa, nuova, sintesi. Nonostante si tratti di immagini, anche in questo caso il tempo resta l’elemento centrale: Je m’appelle Olympia è un’opera fotografica time-based.
Le immagini che compongono la serie sono state scattate il giorno stesso dell’azione performativa. Ho dato istruzioni perché gli scatti restituissero alcuni specifici quadri luminosi, isolati all’interno della partitura che ho scritto per le tredici piste luminose in dotazione al teatro. Il punto di vista, che dal palco è rivolto verso la sala, è l’esatto controcampo di quello a cui siamo normalmente abituati come spettatori. L’inquadratura è sempre la stessa ma, intenzionalmente, non ossessivamente identica. Ho lasciato che ogni immagine respirasse e che, pur facendo parte una serie, potesse esprimere la propria personalità. 

Alice Guareschi, Je m’ appelle Olympia – Allestimento – Photo Credit @ Alessandro Moni, MAN, Nuoro 2023

EB: Grazie alla trama di luci e ombre, questa sequenza fotografica racconta la vita segreta del teatro: un vissuto che prescinde dal passato e dal suo futuro. Come è scaturita questa profonda indagine  su un luogo così particolare come un teatro, dove solitamente sono ‘altre’ le storie che lo attraversano? Nel senso, come rivelare la storia di un ‘contenitore’ di storie? 

AG: L’immagine che ha preso forma nella mia mente è quella di una coreografia luminosa che si attiva all’improvviso nello spazio vuoto della sala, in un momento della giornata in cui non è previsto nessuno spettacolo e il teatro riposa disabitato e silenzioso. Come un’esplosione di energia accumulata nel corso degli anni, come la rivelazione inaspettata di una vita segreta che riguarda soltanto l’edificio. Che cosa ha vissuto Olympia? Quante cose ha visto? Quante storie si sono intrecciate negli anni sotto la sua volta blu elettrico? Spettatrice privilegiata, testimone silenziosa, intima confidente, memoria storica, spazio del possibile. La prima persona singolare del titolo le restituisce un ruolo da protagonista. Trasformato in una gigantesca lanterna magica, in una splendida macchina celibe, è il teatro stesso che parla. Più in generale, nel mio lavoro, penso al vuoto e alla sottrazione come alla condizione perché possa manifestarsi qualcos’altro, all’espressione silenziosa di una potenzialità che va immaginata e pensata, prima ancora di poter essere vista. I ‘contenitori’, come le coordinate, le virgolette, le cornici, le finestre o i piedistalli hanno tutti questa caratteristica: segnano un confine, e allo stesso tempo aprono a una possibilità.

EB: Al di là dell’esperienza in un luogo così particolare come un teatro, come percepire la “vita segreta di un edificio in assenza di spettacolo”? Ci sono altri luoghi che ti hanno stimolato altrettanto desiderio di conoscenza e scoperta? 

AG: Il mio rapporto con i luoghi non è mai analitico né storicistico. Parto sempre da un’impressione, da un’immagine, che poi cerco di veicolare o di restituire in modo asistematico, obliquo, attraverso la presenza di alcuni elementi per me essenziali e di molti spazi vuoti, intenzionalmente mancanti. Un esempio, l’intervento site-specific realizzato, nel 2008, nel cortile della Fondazione Merz a Torino, dove sono presenti due enormi ex cisterne d’acqua in cemento. Ho immaginato di incastonare in quello spazio un frammento di labirinto in scala 1:1 rispetto all’architettura, come una sorta di reperto archeologico — una rovina appartenuta a un altro luogo, un elemento classico fuori dal tempo e insieme dentro a ogni tempo. L’intero spazio esterno della Fondazione è stato così trasformato in un imponente scavo a cielo aperto. Il rimando all’archeologia era esplicito, e insieme trasfigurato in un’immagine che è chiaramente altro dalla materia pesante di una vera rovina: si trattava piuttosto di una suggestione, di una fotografia trovata per caso su un libro, di un miraggio estivo per provare a tracciare le linee di un passato che riaffiora, di stratificazioni invisibili, o di altre possibili storie del luogo.
Nel corso della serata inaugurale ho scelto di affidare un’ideale, quanto irrealistica, narrazione delle ricerche e delle relative scoperte intorno al “sito di X” a un concerto per chitarra acustica e voce, a cui il titolo del lavoro fa riferimento: A narrative of researches and discoveries made on the site of X. Oppure penso all’opera, anche quella site-specific ma permanente, realizzata nel 2009 a Pantelleria su invito dell’amico collezionista Attilio Rappa per il suo parco-scultura a cielo aperto. Anche in quel caso il titolo è parte dell’opera, anzi, il testo è l’opera stessa: Distance becomes the secret language with which the conversation takes place allude a una relazione con l’isola che è insieme geografica e sentimentale, a qualcuno, qualcosa o un altrove che non sono né presenti né visibili, eppure esistono e sono la condizione per il dialogo. O ancora mi viene in mente Corrado Levi Marrakech Theorie (2006-2019),il film-conversazione girato a Marrakech con Corrado Levi nella sua casa-scultura…

EB: Per il MAN hai studiato uno specifico allestimento per la serie fotografica. Mi racconti di cosa si tratta? 

AG: Ho pensato allo spazio espositivo al piano terra del museo come a un piccolo teatro, a cui si accede attraverso un sipario di velluto rosso. Anche il pavimento è rosso acceso, come le poltrone di Olympia. Ho cercato di creare uno spazio “altro”, sospeso, sottratto all’interferenza di suoni o segni. Le 16 fotografie, in cornice nera e fondo bianco, di formato identico e tutte installate alla stessa altezza, scorrono sulle pareti abbracciando l’intero spazio, costituito da tre vani passanti. Linearità fotogrammatica che ritorna in modo analogo nel libro in formato leporello edito da NERO, anch’esso, come la mostra, realizzato grazie al sostegno del bando PAC2021. Unica pausa, in una delle rientranze, una teca sospesa che presenta la partitura dell’azione per luci, simile a un lungo pentagramma dispiegato, e una piccola cornice con l’invito dell’aprile 2012. Arrivato sul fondo della sala, lo spettatore, girandosi, trova davanti à sé un sipario chiuso, come quello di Parigi durante l’azione per luci dal vivo. Campo e controcampo. Il cerchio si chiude.

Je m’appelle Olympia è un progetto vincitore del bando PAC2021 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.

La mostra è visibile al Museo MAN di Nuoro fino al 17 settembre 2023.
Il libro d’artista in formato leporello è pubblicato da NERO Editions.

Alice Guareschi, Je m’ appelle Olympia – Allestimento – Photo Credit @ Alessandro Moni, MAN, Nuoro 2023