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La scorsa settimana alla Fondazione Prada è stato presentato Troublemakers: The Story of Land Art, un film scritto e diretto da James Crump.
Troublemakers (72’, 2015) ricostruisce le origini della Land art tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta e documenta le ricerche di artisti come Walter De Maria, Michael Heizer e Robert Smithson che superarono i confini della pittura e della scultura tradizionali per intervenire su laghi e deserti, montagne e pianure, spazi sterminati del sud-ovest americano. I loro earthworks, installazioni monumentali e interventi su larga scala, modificano l’ambiente naturale in cui sono inseriti comportando lo spostamento di tonnellate di terra o di roccia, oppure immettendo elementi metallici in ampie porzioni di territorio.
Intervista a James Crump di Lorenza Pignatti
Lorenza Pignatti: Con il film documentario Troublemakers: The Story of Land Art hai raccontato il percorso utopico compiuto da diversi artisti della Land Art, attraverso la testimonianza diretta dei protagonisti di quegli anni. È un documentario significativo perchè mancava una mappatura di questo tipo che crea relazioni tra l’ambito estetico e quello etico, tra potere e potenzialità. Puoi raccontarci come è nato questo film?
James Crump: Ho iniziato a pensarci nel 1995, dopo la mia prima visita a The Lightning Field di Walter De Maria, senza cercare però di farne un film, il mio interesse a quel tempo era puramente teorico, stavo infatti vivendo a Santa Fe (New Mexico) e tra amici e colleghi dell’Università era normale parlare, riflettere e visitare gli earthworks dei land artist. Poi nel 2003, mentre stavo facendo le ricerche per il mio primo film, Black White + Gray, riguardante il legame tra il curatore e collezionista Sam Wagstaff e l’artista Robert Mapplethorpe, sono riuscito a ottenere una rara intervista con Michael Heizer e quell’incontro è stato determinante perchè mi ha fatto riflettere sulla necessità di realizzare un documentario su quell’esperienza artistica davvero unica e irripetibile. Solo nel 2013 una serie di circostanze positive hanno reso possibile il progetto che è stato poi realizzato in soli tredici mesi perchè avendoci pensato così a lungo sapevo già dove trovare i materiali.
LP: Mi interessa il modo in cui hai lavorato, la tua modalità processuale… Vorrei chiederti come hai raccolto e selezionato i tanti, diversi materiali presenti nel film, footage originali in 16 e 8-mm, le prime registrazione realizzate con la videocamera Portapak, fotografie d’archivio e interviste audio.
JC: Ho fatto ricerche e selezionato i materiali da archivi e biblioteche pubbliche, musei privati come il Getty Institute o l’Estate di Robert Smithson, che mi ha permesso di utilizzare il bellissimo footage della Spiral Jetty. Ho utilizzato frammenti di interviste audio perchè purtroppo molti degli artisti attivi in quegli anni ora non sono più tra noi. Ho cercato di farli dialogare, almeno a livello filmico, con le testimonianze e le riflessioni di chi è ancora presente e ha vissuto in quegli anni, così come ho dovuto/voluto fare nuove riprese di alcune opere, tra queste Double Negative di Michael Heizer. Le riprese con le più avanzate tecnologie.
LP: Il film è un viaggio nello spazio, che ci permette di visitare (almeno con lo sguardo) gli earthworks e gli interventi su larga scala realizzati in California, Nevada, New Mexico e Utah da Walter De Maria, Michael Heizer e Robert Smithson. Permette inoltre di conoscere coloro che hanno sostenuto e finanziato il loro lavoro come Virginia Dwan e Heiner Friedrich. Perchè hai voluto mostrare il backstage, il processo o la genesi del lavoro piuttosto che mostrare solo il risultato finale?
JC: Perchè penso sia importante riconoscere l’importanza di chi ha sostenuto questi artisti, senza i quali forse molti lavori non sarebbero stati fatti. Per lo stesso motivo vi sono le testimonianze di chi era vicino agli artisti come Vito Acconci, Carl Andre, Nancy Holt, Dennis Oppenheim, Charles Ross, Lawrence Weiner, Paula Cooper, Gianfranco Gorgoni, Pamela Sharp, Germano Celant e Harald Szeemann. Di quest’ultimo ho selezionato alcuni frammenti del documentario realizzato dalla televisione francese durante l’allestimento di When attitudes Become Form, per indicare il contesto e le modalità in cui nascevano e si sviluppavano le opere presenti in mostra.
LP: In Troublemakers ti occupi principalmente di artisti americani, immagino questa sia una scelta precisa, mi chiedo però se vi fossero relazioni con l’Europa che per ragione di spazio non hai potuto mostrare…
JC: Si, penso ci fossero delle relazioni significative, soprattutto attraverso il lavoro curatoriale di Celant e Szeemann che seguirono da vicino e sostennero diversi Land artists. Negli Stati Uniti When Attitudes Become Form è ancora materia di studio, per questo penso sia stato coraggioso e importante riproporre la mostra alla Fondazione Prada di Venezia alcuni anni fa. L’archivio e la biblioteca di Szeemann sono inoltre ospitati al Getty Research Institute di Los Angeles e questo è un altro esempio di connessione tra Europa e Stati Uniti. Il mio film però si occupa principalmente della Land Art americana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, per questo non si trovano artisti che hanno lavorato dopo, un esempio è il Roden Crater di James Turrell, un progetto che è iniziato dopo, cosi come Marfa in Texas, o fuori dagli Stati Uniti.
LP: Il film riflette e restituisce la complessità della scena artistica di quegli anni, la vita degli artisti e il contesto sociale in cui vivevano, la guerra in Vietnam piuttosto che il loro spirito ribelle e iconoclasta che metteva in discussione il sistema dell’arte. Oltre a mettere in rilievo questi aspetti pensi che il film possa aiutare a diffondere la conoscenza di alcune opere ancora presenti ma non abbastanza conosciute?
JC: É quello che spero. Vorrei che i giovani artisti pensassero a un diverso modo di avvicinarsi al fare arte, dove il mercato e il networking sono parte del lavoro ma non devono esserne la priorità. Oltre che regista sono curatore e storico dell’arte e per questo motivo ho cercato di fare un film documentario che si muove sul filo della memoria, del vissuto, del racconto non solo per gli addetti ai lavori ma anche il pubblico generico. Rispetto alla seconda parte della tua domanda penso che nel prossimo futuro ci sarà una riscoperta di alcune opere presenti nel film. Tra queste vi è sicuramente Double Negative di Michael Heizer, una delle sue prime opere, che si trova in Nevada. Nonostante appartenga al museo MoCA di Los Angeles da diversi anni, solo recentemente grazie all’interesse del direttore Phiippe Vergne l’opera ha acquisito un diverso valore e visibilità. Se vai sul sito del museo lo vedi in homepage, perchè il museo sta iniziando a identificarlo come un progetto satellite, come il Dia Art Center for the Art fa con Spiral Jetty di Robert Smithson e The Lightning Field di Walter De Maria. Si discute inoltre sulla possibile conservazione di queste opere, della Spiral Jetty di Robert Smithson si è parlato molto anche nella stampa non di settore come il New York Times, e questo indica l’interesse esistente per queste opere. Rispetto a Smithson è difficile pensare se lui sarebbe stato d’accordo visto il suo interesse per le rovine, la decadenza, l’entropia. Di restauro e interventi conservativi si discute anche per Double Negative ma anche in questo caso la questione è controversa. Le domande e le riflessioni su queste questioni potrebbero, in effetti, essere il soggetto di un altro film dedicato alla conservazione degli earthworks.