Testo di Luca Bertolo —
Una volta mostrarono a Cesare Lombroso una foto di detenuti e gli chiesero chi fosse quello che mostrava più nettamente i caratteri del criminale. Lombroso mise il dito su una testa che stava al centro della foto. Era il cappellano. Lombroso si giustificò affermando che non tutti realizzano le proprie inclinazioni: astra inclinant, non necessitant. Inclinazione è una bella parola. Il momento di fulgore creativo che Jacopo Benassi sta attraversando da qualche anno sembrerebbe causa ed effetto della piena realizzazione delle sue inclinazioni. Qualunque cosa faccia – indossare una maglietta dei Motörhead, scattare una foto notturna a un’agave, disegnare su un muro e poi segarlo in pezzi – in ogni suo gesto Benassi è sempre inclinato verso quello che fa; così inclinato che spesso risulta difficile distinguere tra vita e opere. Ma se quasi tutto nella sua pratica artistica appare come riverbero autobiografico, niente si esaurisce in esso. È bene chiarirlo: sono opere potenti le sue, non pittoresche raccolte di affezioni e idiosincrasie. Muovendosi su un crinale simile, la mostra recentemente inaugurata alla GAM di Torino s’intitola Autoritratto criminale, anche se di autoritratti in senso stretto ne troviamo uno solo, che compare nella comunicazione e su una fanzine, ma non tra le opere esposte. Quei due occhi in bianco e nero, tuttavia, una volta visti sembrano volersi aggiungere ai nostri, per vedere loro stessi.
Piccolo inciso: Jacopo – che qui continuerò a chiamare Benassi – è un amico, oltre che uno tra gli artisti che ammiro. Va da sé che non potrò essere oggettivo o distaccato nei miei commenti. Fortunatamente esiste già un vero testo critico, molto bello, scritto da Elena Volpato (che ha curato la mostra) e pubblicato sulla fanzine in distribuzione al museo. Quella che segue è piuttosto una grezza sequenza di riferimenti che mi legano, anche se da lontano, al lavoro di Jacopo.
Condivido con Benassi l’ammirazione per Ando Gilardi, fotografo, geniale ricercatore e intellettuale tuttora molto sottovalutato. Ho sentito nominare Gilardi (Ando, non Piero) per la prima volta nel 1994 da Wald Fulgenzi e Sergio Pasqual, fondatori del mitico Circolo fotografico INDEX, alla periferia di Milano. In quelle spoglie stanze organizzai insieme al mio amico Luca Giorcelli una mostra (la mia prima) piuttosto eccentrica e a nostro sentire molto gilardiana: tele emulsionate con ingrandimenti di foto mediche trovate durante le nostre visite notturne all’ex Istituto Sieroteraico. Tra i meriti di Gilardi c’è anche quello di aver preso seriamente in considerazione la fotografia di genere. Wanted! Storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria esce nel 1978. Quello stesso anno, macabra coincidenza, la foto “segnaletica” del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro scattata dai suoi rapitori (Brigate Rosse) rimbalza su tutti i giornali italiani; diventerà un’icona.
Poco dopo la morte di Gilardi, Marco Belpoliti ha scritto un bell’articolo in suo ricordo, in cui tocca la questione del rapporto tra fotografia e identità, rapporto meno univoco di quanto si pensi: «L’identità, premessa per l’identificazione, è un oggetto che dipende da molte variabili, tra cui anche la realtà esterna; l’identità con una retroazione produce realtà, e questo è un paradosso con cui la fotografia ha iniziato a partire dai ritratti criminali a fare drammaticamente i conti.»
Ritratti criminali: eccoci di nuovo al titolo della mostra e a Cesare Lombroso, presente in essa a vario titolo: 1) in forma di scultura (gesso di Leonardo Bistolfi, 1910) che però, rozzamente ingabbiata da assi di legno e illuminata a giorno da un faro, funziona da object trouvé (e, ancor prima, montré, oggetto mostrato all’artista dalla lungimirante curatrice); 2) con il video che assembla centinaia di foto scattate da Benassi ai manufatti conservati nel Museo di antropologia criminale di Torino, parte di quella eteroclita e inquietante collezione che Lombroso mise assieme raccogliendo ogni genere di reperto utile a dar conto, secondo lui, della dimensione culturale e psicologica del crimine; 3) con altri sottili riferimenti.
Lombroso, che da lungo tempo non gode di buona fama, fu sostanzialmente una brava persona. Uomo di pacate simpatie socialiste e autenticamente desideroso di comprendere le radici del male, sconta il fatto che i suoi svarioni parascientifici – la frenologia tra tutti – servirono successivamente come copertura a gentaglia sprovvista dei suoi scrupoli. Se in ambito scientifico molte delle sue teorie sono state giustamente gettate alle ortiche, i suoi libri rimangono ricchi di acute osservazioni oltre che di frasi o parole comunque affascinanti; a partire dai titoli: L’uomo delinquente (1876), Genio e follia (1864). C’è sempre da imparare qualcosa. I mattoidi vengono paragonati al genio, caratterizzato dall’istantaneità creativa dell’ispirazione, dall’irresistibilità all’estro, dall’amnesia. “Nulla somiglia più ad un matto, sotto l’accesso, quanto un uomo di genio, che mediti e plasmi i suoi concetti”. Per dare conto dei delitti politici degli anarchici, delitti che non sembrano portare alcun guadagno a chi li commette, Lombroso crea la categoria dei pazzi etici. E via di questo passo.
Credo che Benassi abbia a che fare (il suo approccio e il personaggio che si è creato) col cliché tardo romantico di genio & follia. Se questo è vero, la cosa notevole è che ne esce vincente, evitando derive kitsch o patetiche. Non solo Benassi ci convince di essere proprio così, ma anche che solo così le sue opere potrebbero sprigionare la loro potenza. E c’è qualcosa di irresistibile nell’autenticità della sua postura alla Doganiere Rousseau punk; un mix che mi ricorda una foto in cui l’angelico viso di Woody Guthrie entra in cortocircuito con la frase scritta malamente sulla sua chitarra folk (trent’anni prima dei Dead Kennedys o dei Clash): “This machine kills fascists”.
Jacopo Benassi Serie di ritratti appesi, 2024 Courtesy Francesca Minini, Milano Photo Giorgio Perottino Jacopo Benassi Autoritratto criminale, 2024 (frame da video) Video, 3 minuti Musica di Lori Goldston Prodotto da Basement HQ Courtesy Francesca Minini, Milano Collaborazione con il Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” di Torino
Leggendo “autenticità” qualcuno avrà comprensibilmente fatto una smorfia. Concetto scivoloso, l’autenticità sembra destinata ad essere sempre in odore di truffa, di ingenuità o di entrambe le cose assieme. Eppure, ogni volta che incontro i lavori di Benassi, di riffa o di raffa l’autenticità fa capolino tra i miei pensieri. Già, e da quando ho cominciato a scrivere questo testo continuo a ripensare a una celebre frase di Adorno: “Non c’è vita vera/autentica in quella falsa/inautentica”. È una di quelle frasi che ti si attaccano addosso. Mi chiedo: quanto c’è di falso in quel “paesaggio tedesco”, annunciato da una piccola scritta su quel pezzo di muro graffito (titolo dell’installazione: Paesaggio di La Spezia)? Una freccia indica un piccolo foro: davvero basta guardarci attraverso per “vedere”? Laggiù, oltre il muro – a un paio di metri e a centinaia di chilometri, lontano nel tempo ma fin troppo vicino al nostro presente – sta una scultura, chiamiamola così, intitolata Adolf Hitler – Museo delle cere di Londra, 2000. Decine di vecchie lastre di vetro, sottili, strette da una cinghia una sull’altra, poggiano su un improbabile carrello. Il vetro, come l’acqua, perde nello spessore la sua trasparenza, tingendosi di verde. Fino a completa opacità, paradossale (e in questo autenticamente artistica), ma non meno utile a nascondere alla vista il male assoluto. “In Benassi,” come scrive Volpato a conclusione del testo introduttivo, “tutto ciò che affiora affonda, e tutto ciò che affonda riaffiora.”
Mi muovo, cerco ristoro. Osservo le due pantofole appoggiate su una scaletta di legno. Vere pantofole, in perfetto equilibrio tra negligee e trascuratezza, tra maroquinisme upperclas e sciabattare proletario. Mi strappano un sorriso. Quando al di sopra delle pantofole noto il foro di prima, che da questo lato del muro galleggia nel bianco senza scritte né frecce, si produce un cortocircuito: rivedo mentalmente la sequenza drammatica e sensuale di un Chant d’Amour di Jean Genet, in cui giovani carcerati, consumati da desiderio sessuale inappagato, si soffiano l’un l’altro fumo di sigaretta con una cannula che attraversa il muro tra le due celle. Poco più in là nella mostra sta appesa Agave morente, uno di quei benassiani acrochage di foto incorniciate e strette da cinghie. Penso all’agave, pianta nobile centroamericana deportata in Europa dai primi conquistadores per diventare infine una testimone casuale di sudati e squallidi traffici notturni nelle aiuole cittadine. A volte esplicita e cruda, la sensualità di Benassi può, come in questa mostra, irradiarsi potentemente sublimata. Gli estremi si alternano, o si riconfigurano l’un l’altro: «fotografare un fiore non è molto diverso che fotografare un cazzo» spiegava Robert Mappelthorpe.
L’ho tirata un po’ in lungo, ma il succo è questo: andate a visitare questa mostra; più piccola di quella, stupenda, di due anni fa a La Spezia (Matrice, a cura di Antonio Grulli), ma non meno intensa. E dal momento che ho giocato la carta dell’amicizia, mi permetterò in conclusione una licenza che spero mi verrà perdonata: Benassi ama mandare cuoricini nei suoi messaggi sui social. Oltre che i crani e i manufatti, dei criminali Lombroso analizzò anche i canti, le poesie, lo slang, i tatuaggi. «Nei moti anarchici di Londra del 1888 un testimonio oculare notava fra i dimostranti il gran numero di tatuati, il che vuol dire di criminali. Hanno, scriveva, dei cuori, delle teste di morto, delle ossa incrociate sul dorso della mano, delle àncore e dei ricami. Ho veduto una corona d’alloro disegnata sulla fronte di un giovanotto, e su quella d’un altro: I love you».
Luca Bertolo, Seravezza, 7 marzo 2024