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La IX Berlin Biennale, inaugurata lo scorso 2 Giugno, ha come temi principali alcuni dei paradossi a cui la realtà contemporanea ci ha abituato, tra cui il virtuale inteso come reale, le nazioni come brand, le persone come dati, la cultura come capitale, il benessere come politica, la felicità come Prodotto Interno Lordo.
“We feel consumed by individualism staged in the face of the utter powerlessness of the individual in the age of the Anthropocene and Big Data”, ha dichiarato Lauren Boyle, che ha curato il progetto assieme a Solomon Chase, Marco Roso e David Toro, gli altri tre membri del collettivo DIS. “Our proposition is simple. Instead of pulling talks on anxiety, let’s make people anxious. Rather than symposia on privacy, let’s jeopardize it. Instead of talking about capitalism, let’s distort it. Instead of unmasking the present, this is the present in drag”.
Ad accogliere il visitatore, all’ingresso della Akademie Der Kunst, un mucchietto dello stesso make up utilizzato da Angela Merkel. Studiato per coprire, rendere la pelle uniforme, armonizzarne il colore e allo stesso tempo interagire al meglio coi flash e i dispositivi video, è l’informe maschera di una nazione. Un’introduzione molto diretta a una Biennale dal titolo The Present in Drag, ossia “Il presente travestito”.
Il lavoro fa parte di The Happy Museum, progetto di Simon Fujiwara che presenta una selezione di oggetti idealmente narranti la storia del viaggio della Germania verso la felicità. Realizzato con la consulenza del fratello dell’artista, un economista esperto di “happiness economy”, il progetto rende concreti una serie di dati econometrici raccolti nell’ambito di un’indagine sul benessere del popolo tedesco.
The Present in Drag è una Biennale di cui si parlerà sicuramente molto in futuro, perché non solo fa il punto su una serie di nuove estetiche finora identificate generalmente con il nome “post-internet”, ma presenta progetti di giovani artisti che si interrogano su nuovi modelli di fruizione e sui limiti della compenetrazione tra arte, mercato e finanza. Esemplare in questo senso il progetto New Eelam di Christopher Kulendran Thomas: partendo da una riflessione sui conflitti etnici avvenuti in Sri Lanka tra i primi anni ’80 e il 2009, l’artista ha creato una start-up che promuove la cosiddetta “liquid citizenship” attraverso un particolare modello di house-sharing. Pagando una quota mensile, pari alla somma media di un affitto, chiunque potrà vivere e possedere, per un periodo di tempo, una casa in qualsiasi parte del mondo. Il progetto viene presentato in un video che gli spettatori possono guardare seduti nel salotto-prototipo di questo sistema abitativo, che ricorda molto i set dei negozi di arredamento. Leggiamo nella brochure: “Streaming homes: New Eelam’s flexible housing subscription will give global citizens continual access to a collection of beautifully designed homes around the world. So you can move around between cities as you wish. And we’re making it as simple as a flat-rate monthly subscription. So you can be wherever you want to be.” L’artista, interrogato a riguardo, ha assicurato che si tratta di una vera e propria start-up, con tanto di business plan da proporre ai futuri investitori e una strategia sul lungo termine ispirata dal percorso di Jeff Bezos e Elon Musk. A parte le evidenti lacune del progetto, che non tiene conto della professione e della residenza fiscale dell’individuo, risulta interessante che l’opera abbia una sua funzione e si trasformi in un meccanismo di promozione di business. Che New Eelam abbia o meno successo non è così importante, perchè quello che si propone l’artista è di fare un passo oltre l’idea di promozione al centro dell’arte concettuale di Siegelaub e diventare essa stessa business.
Altra caratterista di questa Biennale, sulla quale è necessario interrogarsi, è la messa in discussione in maniera critica del concetto di curatela. Nel momento in cui un artista concepisce un’ opera come display, gestisce la comunicazione e il rapporto con il pubblico promuovendo la sua immagine e il suo “brand” sui social network, scrive testi sul suo lavoro e gestisce direttamente le collaborazioni con altri artisti, al curatore rimane davvero poco da fare. Ricordiamo che The Present in Drag è curata da DIS, un collettivo di artisti che incarna tutte queste caratteristiche, e la cui missione è “facilitare progetti per il più democratico e pubblico di tutti i forum – Internet”.
Prendiamo ad esempio “Body Holes”, il progetto online di Paul Barsch e Tilman Hornig che continua la loro serie New Scenario. La tag-line è illuminante: “Se il corpo umano fosse un museo, ci sarebbero sette gallerie”. Barsch e Hornig hanno commissionato a una serie di giovani artisti delle opere appositamente pensate per essere inserite in bocca, nelle orecchie, nel naso, nell’ano, nella vagina e nel pene. Concepito esclusivamente come progetto grafico digitale, Body Holes è l’evoluzione ideale delle mostre allestite in ex spazi industriali in disuso, e apre a riflessioni sullo stato del nostro corpo in un’era guidata dal digitale. Viene subito alla mente una frase sulla quarta di copertina del catalogo: “you exist online, but your ass still hurts and grinds”.
The Present in Drag, presentando una raccolta così varia di estetiche e ricerche, ci fa riflettere in maniera più generale su un altro aspetto della nostra contemporaneità: in un’epoca in cui quasi tutta la nostra attenzione è rivolta verso una moltitudine di proiezioni del futuro, influenzate principalmente dal mercato e dai suoi modelli finanziari, il presente diventa sempre più indecifrabile. Quello che davvero contraddistingue il nostro periodo storico sono i resti dei materiali e degli apparati che utilizziamo per produrre queste proiezioni. Nel corso della Storia, non siamo mai stati così disinteressati al presente. Ha quindi ancora senso parlare di “arte contemporanea” per definire la produzione artistica della nostra epoca? E’ ancora una definizione sincera? La sensazione è che la maggior parte delle opere in mostra guardano al presente solo di riflesso, quasi controvoglia, come se alcune di queste nostre proiezioni sul futuro venissero ogni tanto deflesse e ci ritornassero frammentate e distorte, come un video riflesso su un fluido in movimento.
L’opera che più di tutte rappresenta questa condizione è l’esperienza in realtà virtuale con Oculus Rift di Jon Rafman, installata sulla terrazza all’ultimo piano dell’ADK che dà su Pariser Platz. Si tratta di una rappresentazione molto realistica, a 360°, della piazza. Appena indossati gli occhiali vediamo esattamente quello che vedremmo senza: turisti, qualche auto, tutto normale. Dopo poco tempo questo scenario si fonde con quello di una folla che riempie la piazza. Il cielo si oscura e sale come una nebbia che inghiotte lentamente la folla. La nebbia è seguita da un’inondazione, che in pochissimo tempo raggiunge e sommerge la terrazza da cui stiamo osservando gli avvenimenti in corso. Siamo sott’acqua, e vediamo oggetti, spazzatura e i corpi delle persone che prima erano nella piazza. Alcuni ci vengono addosso, altri rimbalzano lentamente sul tetto dell’ADK. Poi il pavimento crolla, e sprofondiamo come sul fondo di un oceano. In lontananza, vediamo avvicinarsi un esercito di corpi, silhouettes nere che perfettamente coordinate danzano con movimenti plastici. Noi rimaniamo immobili, e loro ci passano attraverso. Poi tutto scompare, ci togliamo gli occhiali e siamo di nuovo sulla terrazza. La gente in coda dietro di noi, i rumori dalla piazza, tutto continua come se non fosse successo nulla. E poi ci rendiamo conto che in effetti non è successo nulla. Per quasi cinque minuti abbiamo esperito in maniera completa una proiezione inquietante di un possibile futuro, un travestimento del presente.
Nella sezione del catalogo sulle “Exhibition venues”, i curatori scrivono: “Pariser Platz is the nexus, where floods [maree] of tourists and flows [flussi] of capital converge”. Nella proiezione di Rafman abbiamo assistito ad una interpretazione di questo incontro? E’ a questo che si riferiscono le varie estetiche ispirate all’acqua e alla fluidità così presenti nei lavori che fino ad oggi abbiamo chiamato “post-internet”?