Dopo cinque anni dall’apertura, abbiamo incontrato l’artista e fondatore di Cler Antonio Rovaldi per farci raccontare il progetto espositivo che prende forma all’interno degli spazi del suo studio condiviso a Milano. Gli abbiamo chiesto come è cambiato nel tempo il progetto, le relazione con gli artisti, il quartiere e via Padova dove si trova lo studio. Dalle risposte di Antonio sono emerse questioni sia legate alla necessità di valutare e capire gli sbocchi espositivi per gli artisti, sia nell’affrontare questioni attinenti alla relazione tra spazi istituzionali e privati.
Elena Bordignon: Cinque anni sono un ottimo traguardo per uno spazio indipendente. Cler è nato nel 2017 e da allora ha ospitato e creato relazioni fra artisti. Vorrei che mi raccontassi, visti anche gli anni trascorsi dalla sua fondazione, come è nato questo progetto espositivo nel tuo studio.
Antonio Rovaldi: Cler – serranda, in milanese – è un progetto espositivo nato cinque anni fa quando sono tornato a Milano dopo uno dei numerosi periodi trascorsi a New York tra il 2005 e il 2017. Prima di occupare lo studio in via Padova e decidere di condividerne momenti con altri artisti/e, pensavo di dedicare una stanza della mia casa di Milano a residenza per artisti. L’idea all’origine somigliava a una scatola cinese, una stanza dentro una stanza. Al suo interno avrei disegnato arredi essenziali mentre sulle pareti esterne gli artisti/e avrebbero potuto esporre un momento della gestazione della loro ricerca a conclusione di un periodo vissuto lì. Una specie di felice e concentrata reclusione. Questa idea non è stata realizzata ma ancora oggi, a distanza di anni, ripenso a quell’architettura il cui perimetro, nella mia immaginazione, correva lungo la greca del pavimento e a metà percorso si interrompeva davanti a una finestra affacciata sulla città.
Quando ho preso confidenza con il nuovo studio in via Padova e fatto pace con Milano – un tema per me ricorrente – mi sono deciso a realizzare quel desiderio, che forse era più un bisogno: creare un luogo di incontro con altri artisti, soprattutto quelli con cui tenevo da tempo a confrontarmi – senza che i miei lunghi periodi oltreoceano, negli anni, me lo avessero mai permesso veramente. Ho ristrutturato lo spazio con amici architetti (lo studio DWA) e mentre i lavori procedevano pensavo agli artisti/e che avrei voluto invitare. Ho cominciato con Stefano Graziani, Allegra Martin, Alessandra Spranzi, cui sono seguiti Paola De Pietri, Farid Rahimi, Ettore Favini, Luigi Fiano, Zimmerfrei, Claudio Gobbi, Marina Ballo Charmet, Davide Savorani, Italo Zuffi, Linda Fregni Nagler, Alessandro Biggio, Gaia Carboni, Francesco Pedrini, Rä di Martino. Al momento ospitiamo una riflessione intorno alle più recenti opere di Gian Domenico Sozzi, le sue irrequiete e sfuggenti perlepie. Con alcuni di loro, come Italo Zuffi, Ettore Favini, Alessandra Spranzi e Linda Fregni Nagler, ero già amico, mentre con altri, come Farid Rahimi, è nato un rapporto in tempi recenti e pensiamo di fare altre mostre insieme. Mi piace l’idea di operare in uno spazio in cui la pratica del mio lavoro può confrontarsi con quella di artisti/e che seguo da tempo, oltre alle persone con cui condivido lo studio: il fotografo Andrea Camuffo, che ha scelto di vivere a Milano dopo tanti anni a Parigi, e la giovane architetta canadese Emilie Brin, arrivata a sua volta a Milano dopo un lungo soggiorno a Tokyo. Andrea ed Emilie occupano il soppalco, io gli spazi sotto, e insieme ad Andrea condivido i contenuti – e le piccole economie – delle mostre che ospitiamo. Abbiamo sguardi e percorsi differenti, ma spesso le nostre direzioni coincidono. Pensiamo allo studio come a un luogo di sosta (da lì l’ispirazione per la grafica e i colori del nostro logo, ideato da Alessandro Costariol, che ricorda un po’ una Gas Station americana nell’Ohio, o da qualche parte verso il West) dove ci si ferma per fare il pieno e rifocillarsi dopo un lungo viaggio in un deserto. Pare che lo stabile al civico 27 di via Padova in origine fosse una stazione di posta per il cambio dei cavalli lungo una delle traiettorie che portava fuori città. Questa più o meno è l’idea che ruota intorno al progetto Cler, che in fondo ricorda la scatola cinese che avevo immaginato in una stanza della mia casa, solo più ampia negli spazi e in un quartiere che confina con quello dove ho sempre vissuto e vivo tutt’ora a Milano, tra la Stazione Centrale e Piazzale Loreto.
EB: Immagino che le prospettive iniziali siano mutate in questi anni. Dopo tanti progetti e mostre, inviti e incontri, credo che la natura dello spazio sia maturata. Che ne pensi? Come hai vissuto tu, come artista, questo percorso?
AR: Dalle sue origini a oggi non abbiamo cambiato molto la griglia e i desideri dentro cui ci muoviamo, a parte gli accadimenti allucinogeni degli ultimi due anni che hanno rallentato le cose. Lo studio resta il nostro luogo di lavoro quotidiano e quando siamo tutti allineati lo apriamo a progetti espositivi – che spesso nascono da felici e veloci intuizioni. A volte chiediamo agli artisti/e di pensare un progetto dedicato agli ambienti dello studio, altre volte si tratta di opere già pensate e realizzate ma magari rimaste in penombra. Cler offre la possibilità di fermare un momento in un processo di ricerca per poterlo visualizzare in uno studio, caratterizzato dagli strumenti di lavoro di un artista, un fotografo e un’architetta. Non necessariamente le opere esposte appartengono a un processo concluso, ci interessa uno scambio che si costruisce nel tempo e che diventa, anche e soprattutto, il pretesto di un incontro. Sapere che abbiamo costruito questa possibilità di relazioni restituisce un senso profondo alla complessa professione che ho scelto di indagare negli anni e che, a tratti, può anche farti sentire solo. Non per ultimo, restituisce ai miei occhi un nuovo volto a Milano, città in cui spesso fatico a stare e dalla quale, a periodi, devo prendere le distanze. Ritengo importante sentirsi parte di un gruppo che condivide le stesse tensioni o più semplicemente la necessità di una conversazione più ampia. Questi progetti indipendenti sono stimoli che innescano processi di scambio e, seppur di durata limitata, restano terreni d’ispirazione a cui ripensare nel tempo. Io, per esempio, ho sempre frequentato Brown Space, che era un progetto espositivo e curatoriale all’interno dello studio milanese degli artisti Luigi Presicce e Luca Francesconi. Per tre anni Brown ha curato mostre, incontri e persino una rivista. Poi sia Luigi che Luca hanno lasciato Milano, ma il ricordo delle riflessioni condivise in quel periodo resta per me prezioso. Ora, mentre scrivo, penso a Eroina, un progetto di mappatura degli spazi indipendenti sul territorio italiano realizzato nel 2009 dagli artisti Diego Perrone e Christian Frosi. Diego e Christian fecero un viaggio toccando trenta città italiane durante il quale conobbero persone e organizzazioni che gestivano spazi e contesti attivi nell’arte e nella cultura in generale. Gli esempi da fare sono tanti ma mi vengono in mente questi perché raccontano di artisti/e che ho conosciuto e frequentato direttamente, avendo noi tutti vissuto a Milano. Queste pratiche hanno importanza non tanto per la loro durata nel tempo, ma perché accendono riflessioni imprescindibili per la ricerca artistica, soprattutto in una città come Milano, caratterizzata più dal mondo delle gallerie private, della moda e del design, dove i presupposti di un dialogo aperto e meno soggetto a compromessi commerciali sono forse più difficili da trovare. Le ricerche artistiche, poi, è sempre bene sottolinearlo, hanno bisogno di spazio fisico, e gli artisti di sperimentare i loro percorsi, e se io, nel mio piccolo, posso contribuire alla creazione di un luogo di sosta e dare ossigeno a una ‘durata’ in un dialogo… allora sento che mi sto muovendo nella direzione giusta. Giusta per me, si intende.
EB: Uno dei punti cardine di Cler è la sua collocazione. Non a caso nelle varie pubblicazioni che si sono avvicendate assieme alle mostre, Cler è ‘presentato’ proprio a partire da Via Padova e dalla sua lunghezza: quattro chilometri. Mi racconti le relazioni tra lo spazio e questa zona non facile di Milano? Come è stato accolto ed è tuttora percepito Cler?
AR: Amo la quotidianità che si stempera lungo via Padova, via frastagliata, complessa ed eterogenea, e spero che la veloce gentrificazione degli ultimi anni non ne stravolga irrimediabilmente la natura e non ne appiattisca le differenze. Quando ho aperto lo studio, ogni giorno veniva a trovarmi una bambina bengalese di nome Mamuna che viveva con la sua famiglia di fronte a me, nel secondo cortile del palazzo. Apriva la porta dello studio leccando un lecca lecca dai colori improbabili, stretta in abiti tradizionali Bangla, e poi si sedeva al mio tavolo a disegnare. Poche parole in italiano e qualcuna in inglese. Aveva dei lucidi capelli neri che sapevano di tandori e samosa. Era una bambina con uno spiccato senso dell’ironia. Ogni tanto mi invitava a pranzare a casa, dai suoi genitori – con conseguenti faticosissime digestioni. La mamma non mi guardava mai negli occhi e al padre colpito da un ictus traducevo documenti per trovare un nuovo impiego in qualche ristorante del quartiere. Ora si sono trasferiti dai cugini, in una zona bengalese di Londra, Mamuna mi manda foto dal telefonino del padre e, nonostante sia un po’ ingrassata, ha mantenuto lo stesso sguardo vispo. Al loro posto è arrivata un’altra famiglia, sempre bengalese, che però si limita a osservare i nostri movimenti dalle finestre. Ho notato una discreta curiosità nei due fratelli, Shirin e Roman, che da dietro le tende guardano spesso verso di noi. Il vicinato del palazzo, quello autoctono, nonostante venga regolarmente invitato all’apertura delle mostre, non viene mai. Se a breve mi deciderò per un weekend londinese, andrò sicuramente a trovare Mamuna, unica vera nostra sostenitrice dalla prima alzata di Cler. Mi piacerebbe invitare a esporre nel nostro spazio artisti che vivono in paesi con meno possibilità. Chissà, magari in questi ultimi anni Mamuna è diventata una brava pittrice…
EB: L’esperienza di Cler nasce come sodalizio tra te e Andrea Camuffo. Mi racconti come vi siete incontrati e come vi è venuta l’idea di dar vita a Cler?
AR: Non so se chiamarlo sodalizio, perché io e Andrea non ci siamo scelti. L’ho conosciuto quando ho messo un annuncio per condividere gli spazi dello studio. Lui mi ha risposto che era ancora a Parigi ma stava cercando una scrivania a Milano, dove si sarebbe trasferito con la famiglia entro l’estate. Ci siamo incontrati il 15 di agosto davanti al portone dello studio in via Padova. Faceva un caldo boia, proprio come in questi giorni. Ci siamo trovati subito bene e Andrea ha deciso di accompagnarmi nell’attività espositiva. È una persona silenziosa, un bravo fotografo, e il suo sguardo è preciso e attento. Dopo poco si è aggiunto Alessandro Costariol, a cui abbiamo affidato la grafica delle presentazioni delle mostre, i Quaderni e le amate brochure numerate. Ora Alessandro non è più con noi, ma al suo posto è arrivata Emilie, direttamente da Tokyo, insieme alle sue maquette di case che sta progettando in Canada (inutile dire quanto invidio i futuri abitanti di quelle dimore immerse nella natura!). Ogni tanto penso che vorrei avere una Cler con le ruote – le stesse che stanno sotto la maggior parte degli arredi dello studio – e portare questa carovana verso geografie lontane, come un nomade.
EB: Trovo curatissime e fondamentali – come sedimentato delle mostre – le edizioni che, con tenacia, pubblicate a ogni mostra. Tutte iniziano con una semplice email di invito indirizzata all’artista. Da qui l’idea che gli artisti che inviti siano, in qualche modo, legati all’esperienza di Cler o perlomeno ne condividano le intenzioni. Mi racconti come dai avvio ai progetti che ospiti nello spazio?
AR: Mettiamo molta cura nel pensare i materiali che accompagnano le mostre, perché queste a un certo punto finiscono mentre la documentazione resta come biografia dello studio.
Per ogni mostra realizziamo una brochure, che è introdotta dalla breve lettera che scriviamo a ogni artista per invitarlo e dalla sua risposta che accenna brevemente i temi che svilupperà da Cler. Le brochure sono numerate, siamo arrivati alla numero undici e stiamo pensando di raccoglierle in una pubblicazione che potremmo intitolare… Lettere dalla Cler, o da una Cler…
É importante raccogliere e documentare le cose che si fanno perché è un modo per raccontare non solo l’attività espositiva, ma anche la vita di uno spazio in un contesto e in un momento specifico. Nel nostro caso ci troviamo in un quartiere che sta vivendo una fase di trasformazione. La città si sta allargando, i suoi confini avanzano e via Padova è una linea che racconta una distanza tra un dentro e un fuori, un centro e una prima periferia, un punto di congiunzione forse… Ci vuole tempo per capire le cose che ci stanno intorno. Nel Quaderno #01, per esempio, abbiamo chiesto agli artisti/e che hanno sostato da noi il primo anno di raccontare attraverso il loro sguardo l’ambiente che ruota intorno allo studio. Ettore Favini ha scoperto che i coriandoli furono inventati proprio in via Padova!
I quaderni li realizziamo alla fine della stagione espositiva e li presentiamo alla prima mostra della stagione successiva. É un modo per tornare sulle pratiche degli artisti e continuare con loro un dialogo che trova spazio anche su un supporto cartaceo che resta nel tempo.
EB: Nel Quaderno #02 c’è un passaggio che mi ha colpito. Nel testo Continuamente Presente si legge: “Questo è un quaderno riservato, non va né letto né sfilato, è un quaderno per il recupero di reminiscenze per inquadrare la strada di partenza”. É una sorta di dichiarazione d’intenti?
AR: “… recupero di reminiscenze per inquadrare la strada di partenza”… non ricordo più a chi l’ho preso in prestito, probabilmente viene da un libro che stavo leggendo mentre io e Andrea raccoglievamo il materiale per il nuovo Quaderno. Mi piace pensare a un quaderno come a un contenitore che può suggerire una direzione di partenza, una strada possibile tra le tante dentro una griglia composta da linee che si intersecano. A volte c’è davvero bisogno di fare ordine per vedere meglio le cose! Il nostro sostare nei luoghi, in fondo, non è altro che un tentativo di stabilire un contatto con le persone che vi gravitano intorno. Non è scontato, anzi, spesso l’integrazione sembra un traguardo lontano e faticoso. Eppure sono convinto che possa esserci sempre uno spiraglio e uno di questi è rappresentato dall’arte e dalle sue pratiche, a tratti complesse e non immediate, ma non per questo inaccessibili… Credo sia fondamentale aprirsi agli altri, soprattutto in un quartiere multietnico abitato da storie diverse tra loro che hanno bisogno di ascolto. Da qualche parte ho letto che in via Padova c’è la più alta concentrazione di lingue al mondo, tutte in una sola strada lunga quattro chilometri. Pazzesco, no?!
EB: L’ultima volta che ci siamo incontrati la nostra discussione – a dir poco accalorata – verteva sulla necessità di dare spazio agli artisti nelle istituzioni. In particolare accusavamo l’assenza di sostegni sia per gli artisti che per gli spazi no profit (e aggiungerei anche per l’editoria). Vuoi raccontarci il tuo punto di vista?
AR: La nostra ultima – e prima – discussione nel mio studio ha toccato diverse questioni che andrebbero sicuramente dialogate con una maggiore durata perché sono importanti, spesso delicate e non prive di contraddizioni che vanno sempre analizzate nella loro complessità. Di sicuro in Italia non è facile costruirsi la professione di artista, questo lo si ripete spesso e non a sproposito. Detto ciò, in nessun posto del mondo lo è – e in tre quarti di esso rimane decisamente più complesso che in Italia. Ora, poi, più che mai. Vediamo solo una piccolissima parte di un tutto, e abbiamo sempre troppo poco tempo per impararne i linguaggi, le provenienze… In via Padova, per esempio, ci sono un sacco di mondi diversi!
Abbiamo fatto cenno al sostegno e al ruolo recente dell’Italian Council nella produzione di progetti di artisti che cercano una direzione fuori dalla geografia italiana, ma non basta una borsa di studio per dare continuitàa una professione che, come tante altre, ha bisogno di economie – per quanto generoso un premio possa essere. Gli spazi istituzionali sono aumentati nelle città italiane, è vero, ma credo che tendano a dirigere il loro sguardo verso artisti sostenuti da gallerie prestigiose, in grado di agevolare economie spesso traballanti, e che più difficilmente si aprano ad autori con percorsi meno convenzionali o meno sostenuti. Posso dire con certezza, nel mio piccolo, che gli artisti sono affamati di occasioni per mostrare le loro ricerche, frutto di percorsi per niente facili, di certo non lineari e continui. Se queste cadenze espositive vengono meno, l’artista ne soffre e la sua pratica si indebolisce. La ricerca poi – e quella dell’arte lo è quanto quella della scienza e di ogni altra disciplina che si poggia su una rilettura costante del presente – necessita di finanziamenti per progredire, per poter passare attraverso i tentativi, gli errori e gli inciampi che fanno parte del percorso e le permettono di avanzare, e questa è una condizione che non può mancare.
Gli spazi no-profit sono fondamentali per sviluppare un dialogo che può prescindere da economie dirette e da esigenze di mercato, almeno nella sua fase iniziale. All’interno di questi luoghi gli artisti sono più liberi di muoversi perché non costretti a compromessi che spesso stravolgono l’origine di un percorso in nome di più facili e immediate risposte. Credo che Milano, sotto questo punto di vista, lasci spazio a molteplici direzioni, ed è una cosa positiva, ma non è facile estendere un dialogo a persone che non frequentano assiduamente il mondo dell’arte, per non parlare degli attori stessi che ne fanno parte – curatori, critici, artisti, galleristi, direttori vari – che raramente dialogano tra di loro e, se lo fanno, è spesso con poca autonomia di pensiero e all’interno di direzioni già esplorate. Questo è uno dei motivi per cui, a tratti, il mondo dell’arte può essere fastidioso, o forse a me disturbano certe modalità di questa città che resta ancora – e a mio parere inutilmente – in punta di piedi. A volte penso che mi piacerebbe alzare una Cler in un paese più decentrato, meno prevedibile, dove le cose si muovono perché mosse da un vero bisogno, o urgenza – anche se l’arte, si sa, per molti non è un bene di prima necessità.
Non so perché ma in questo periodo penso sempre più spesso all’opera di Francis Alÿs, uno dei pochi artisti alla Biennale di Venezia di cui ho avvertito una reale urgenza, ma qui andiamo in un’altra direzione e mi fermo.
EB: E la direzione che prenderà Cler nel futuro? A quali progetti state lavorando?
AR: La forma dello studio resterà la stessa, così come le sue attività parallele. Per ora mandiamo altre lettere e attendiamo le risposte da autori di cui ci incuriosisce la ricerca. È una cosa semplice ma che, se fatta con cura e passione, contribuisce all’arricchimento del quartiere e della città, oltre che di noi stessi, ovviamente. Il vero ‘successo’ di queste piccole iniziative indipendenti è quando percepisci che intorno a te si estende un’aura positiva in grado di alimentare altri sguardi oltre al tuo.
Per quanto riguarda i progetti futuri, a fine settembre vorremmo ospitare una mostra di Federico Maddalozzo e Daniela Comani, un dialogo tra di loro ma anche un viaggio da Berlino, dove entrambi vivono, a Milano. Sarà una riflessione sulle automobili, la loro storia nel nostro paese e il loro impatto nelle nostre vite (dimenticavo di dirti che il nostro studio, dopo essere stato una posta per cavalli, in anni recenti è stato anche un’officina meccanica). Poi vorremmo fare una nuova mostra con Italo Zuffi insieme a Massimo Grimaldi, una riflessione sulla relazione tra scultura, scrittura e spazio espositivo. A seguire forse ancora Stefano Graziani, con una mostra che metterà in relazione la sua pratica fotografica e alcuni libri amati da Gordon Matta Clark. Mi piace pensare che gli artisti che si sono fermati nello studio compongano una punteggiatura fatta di pause, partenze e ritorni. Un po’ come quando si cammina e, passo dopo passo, respiro dopo respiro, si entra in un ritmo.
Vorrei pensare anche a delle brevi rassegne di film ‘a tema’ e a cene invernali su un lungo tavolo dove ogni invitato dovrebbe portare con sé una persona che gli altri non conoscono, o conoscono poco e magari, per l’occasione, invitare a suonare Stefano Pilia insieme a Alessandra Novaga, che recentemente ho ascoltato da Standards una domenica mattina. L’ultimo album di Pilia, Spiralis Aurea, è strepitoso.
Poi vorrei alzare la Cler anche ad artisti stranieri, ma per quelli c’è bisogno di più economie che, al momento, di certo non abbiamo. Se hai suggerimenti…
Ecco, per ora questo, sempre che la Cler non si diriga verso altre geografie essendo la sua natura, come ti dicevo, nomade. Almeno nella mia testa.
Grazie per la conversazione Elena, passa ancora a trovarci e buona estate