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IRA GENERANS: la rabbia come forza generatrice | Intervista a collettivoSERRA

A Milano, nella stazione Lancetti, da sette anni pendolari e passanti si imbattono in spazioSERRA, uno spazio espositivo no-profit che accoglie progetti artistici site-specific che interagiscono con la stazione e l’ambiente tramite la trasparenza delle vetrine.

Intervista di Costanza Mazzucchelli

A Milano, nella stazione Lancetti, da sette anni pendolari e passanti si imbattono in spazioSERRA, uno spazio espositivo no-profit che accoglie progetti artistici site-specific che interagiscono con la stazione e l’ambiente tramite la trasparenza delle vetrine. La città entra grazie a incidentali incontri e scontri a spazioSERRA, che a sua volta si muove nella città. Il nutrito collettivo che porta avanti il presente progetto di arte pubblica identifica ogni anno una tematica su cui lavorare in relazione alla quale seleziona artistə italianə e internazionali con cui realizzare progetti e iniziative. 

Nell’intervista che segue, collettivoSERRA si presenta e presenta la stagione 2024-2025, dal titolo di IRA GENERANS. Il collettivo ha invitato artistə e collettivi a lavorare sul tema della rabbia, da indagare quale forza generatrice e positiva, portatrice di una potenzialità politica. La stagione si è aperta con un public program, durante il quale lo spazio ha accolto momenti di incontro, dialogo e contaminazione tra progetti artistici ed editoriali che lavorano sul tema della stagione espositiva. A seguire, l’opera Dispositivo di Memoria a Rumore Residuo di Giuseppe Bergamino, fruibile direttamente dal sito di spazioSERRA, invita ognuno a registrare la verbalizzazione della propria rabbia, che viene conservata con altre dando forma a una costellazione rabbiosa. Fino a inizio aprile, presso lo spazio sarà inoltre possibile vedere BARRIKEA di Alfredo da Venezia, lettura della barricata come strumento di resistenza che disvela come il capitalismo, nell’appropriarsi di una rabbia oppositiva, la depotenzi ed edulcori, mettendo anch’essa a profitto.

Di spazioSERRA si è già parlato su ATP DIARY in occasione di diverse mostre, ma il progetto non è ancora stato presentato in modo dettagliato. Partiamo dunque dall’inizio, come è nato spazioSERRA? 

spazioSERRA è parte della più grande famiglia di Artepassante, un programma che fa capo all’Associazione Le Belle Arti in collaborazione con RFI e col patrocinio del Comune di Milano e della Regione Lombardia. All’interno di questo progetto, sono stati affidati degli spazi liberi nei passanti ferroviari di Milano a diverse realtà, non solo artistiche; tra queste realtà noi siamo quelli che si occupano in modo più specifico di arte contemporanea. spazioSERRA, oltre ad avere una postura legata all’arte contemporanea, si definisce uno spazio interessato anche alla sfera dei diritti civili, che spaziano dalla comunità queer ai diritti delle marginalità in generale. Lo spazio che ci è stato dato, una pagoda a forma ottagonale che si trova nella stazione di Milano Lancetti, era molto probabilmente – ma non si sa in maniera ufficiale – un’edicola. Nel 2017, il progetto è nato con un duo (di cui Virginia Dal Magro è ancora parte di collettivoSERRA) che lo ha portato avanti con delle call for artists

Nel 2019, il duo decide di ampliare il bacino di coloro che si sarebbero occupati dello spazio espositivo e del progetto e inizia a formarsi il primo nucleo del collettivo, includendo all’interno di esso diverse figure che avrebbero gestito la burocrazia, le pubbliche relazioni, i social, la grafica e così via. Il collettivo inizia a strutturarsi in maniera precisa e formale, nonostante per noi il termine formale sia un concetto particolare: siamo sì formali, ma continuiamo a mantenere una forma più dialogica e orizzontale, meno verticale; infatti, la direzione artistica dello spazio ha iniziato a essere collettiva e non detenuta solo da una o più persone. Dal 2019 abbiamo iniziato a lavorare come collettivo su diverse stagioni espositive. Tra quelle più importanti c’è unpostoIMPOSSIBILE, con la mostra di Agnes Questionmark, che forse è quella che a livello di visibilità ha ampliato il bacino di utenza interessato a spazioSERRA; negli stessi anni siamo stati contattati da HangarBicocca e nel 2023 abbiamo curato il progetto Milano Re-Mapped Summer Festival. Nel momento in cui il collettivo si è costruito, ci siamo resi conto che c’è una differenza tra spazioSERRA in quanto progetto e collettivoSERRA, che lavora anche in altri contesti, come ad esempio Fabbrica Bini, dove abbiamo preso parte a un progetto educativo, o HangarBicocca: ci stiamo muovendo al di fuori dello spazio perché viviamo anche al di fuori dello spazio. 

spazioSERRA, stazione ferroviaria Milano Lancetti. Courtesy of spazioSERRA

Siete collocati in una stazione, uno spazio che viene spesso attraversato di corsa, con disattenzione. Questo vi porta a prediligere progetti di forte impatto, soprattutto visivo, per catturare l’attenzione dei passanti? 

Questo è un punto fondamentale. Una delle richieste che spesso facciamo ad artistə e collettivi che applicano alla call è di prendere in considerazione questa variabile. Prima di tutto perché la struttura e l’architettura dello spazio hanno la capacità di mangiarsi l’opera – e l’abbiamo notato anche in mostre passate –, quindi se questa non ha forza le persone che attraversano il corridoio della stazione frettolosamente non la notano. Consigliamo, quindi, allə artistə di lavorare molto su questo aspetto: l’opera non deve necessariamente essere pop oppure catalizzare subito l’attenzione, però è un aspetto importante notare e conoscere lo spazio che circonda spazioSERRA in maniera da superare questa probabile criticità.

Inoltre, essendo questo uno spazio di arte pubblica che parte dal basso e che ha come target di riferimento i passanti, il nostro obiettivo è quello di rendere l’arte contemporanea un dispositivo accessibile a tutti; spazioSERRA è forse uno dei pochi spazi espositivi sempre aperto e accessibile dalle sei del mattino a mezzanotte – aspetto che anche durante la pandemia abbiamo spesso rivendicato. Di solito incolliamo sulle vetrine un testo critico, che è una lettura aggiuntiva all’opera, a cui affianchiamo il comunicato stampa, che descrive in modo più didascalico l’opera, così che l’arte contemporanea, spesso concepita in modo aulico e nebuloso, possa essere compresa anche da chi normalmente non ha accesso a questo mondo. Per questo ci siamo spesso ritrovati a dialogare con famiglie e bambini che si fermavano a osservare le performance e l’ambiente espositivo. È un momento di scambio tra arte contemporanea e pubblico, reso possibile anche dalla conformazione e dalla posizione del luogo stesso. Abbiamo riflettuto anche sul fatto che le stazioni e i loro passanti rappresentino dei “non luoghi”: la presenza di spazioSERRA crea così un’occasione di scontro-incontro con l’arte, trasformando un luogo neutrale e privo di identità in un luogo vivo e significativo, innescando un processo di territorializzazione. Da questo punto di vista, abbiamo sempre costruito tale narrazione su spazioSERRA, come se qui, in uno spazio che è sempre visibile, avvenisse un incontro-scontro con l’arte.

Il vostro è un lavoro collettivo e di confronto e nella vostra serra coltivate relazioni, oltre che progetti. In particolare, negli anni quale rapporto avete istituito con il quartiere Lancetti? 

Questa è stata una costruzione abbastanza nuova. Da una parte, per quanto il covid ci sembri lontano, si sente ancora l’eco di quel periodo, quindi stiamo costruendo piano piano il contatto con il territorio. Nel lavorare con il territorio, è importante dedicarsi del tempo di qualità, evitando di muoversi troppo troppo in fretta. In questo processo, ci impegniamo anche a esplorare le realtà che condividono valori simili a nostri. Quest’anno, nella call for artists, abbiamo introdotto anche una residenza d’artista, con l’obiettivo di selezionare unə artista che lavorasse sul territorio per creare un’opera capace di rispondere a due esigenze: un’esposizione all’interno dello spazio e un dialogo attivo con il contesto circostante. Al momento, per diverse ragioni logistiche, realizzarla risulta complesso, ma per noi rappresenta ormai un elemento fondamentale.

Il lavoro con il territorio è in corso, stiamo costruendo passo dopo passo un discorso che è complesso e delicato. Se pensiamo a Milano come una città brandizzata, in cui l’arte spesso diventa strumento di gentrificazione, è necessario riflettere su quanto la nostra presenza possa influenzare un nuovo territorio che, di fatto, è marginale. Milano sta assorbendo ogni quartiere circostante e ci chiediamo quanto il nostro intervento rischi, in qualche modo, di innescare una nuova forma di gentrificazione, come sta già accadendo tra Lancetti e Bovisa. Per questo, è fondamentale lavorare con cautela: la linea tra fare qualcosa di positivo per il territorio e sfruttarlo è sottile. Vogliamo costruire relazioni autentiche, che possano avere un impatto positivo e duraturo per il territorio.

Possiamo dire che lavorare nell’arte contemporanea ci metta sempre in uno stato di rigidità: che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo per forza essere contro tutto o alcune cose possiamo accettarle? Essere plastici e porosi è una forma di resistenza all’interno del capitalismo, che fagocita e travolge. Imparare a galleggiare è forse l’unico modo per sopravvivere. 

Per la stagione espositiva 2024/2025, avete deciso di lavorare sul tema IRA GENERANS. Come è nata l’idea di esplorare la rabbia quale elemento generativo e costruttivo? Perché pensate che in questo momento storico sia necessario parlare di rabbia in questi termini? Come sono stati selezionati i progetti che verranno presentati nel corso dell’anno? 

Il lavoro sulla rabbia nasce da un confronto all’interno del collettivo e soprattutto all’interno di un clima socio-politico e geopolitico internazionale nel quale spesso le generazioni più giovani vengono silenziate e disciplinate, come emerge se si guarda agli attivisti per il clima e alla repressione della manifestazione in sé con gli ultimi decreti-legge del governo in ambito delle manifestazioni di Ultima Generazione. La situazione geopolitica internazionale non è di certo delle migliori e nel contesto italiano, soprattutto in termini politici, si riscontra un forte appiattimento della voce delle persone, ma anche una pigrizia che non è tanto individualista, quanto indotta dalla storia, dall’utilità, dalla funzionalità: a un certo punto ci si scontra con la realtà e ci si trova affranti, a scegliere il male minore e mai davvero qualcosa di positivo o in cui si crede realmente. Di fronte a tale stato di appiattimento politico e alla continua situazione di disciplinamento, anche nelle pratiche di resistenza e rivolta, abbiamo iniziato a riflettere sull’ira come strumento di riappropriazione: da un lato, per riconquistare i nostri corpi, dall’altro, come elemento generativo e costruttivo per ripensare il presente. Vogliamo trovare un nuovo modo di essere presenti, uscire dalla stagnazione politica che stiamo vivendo e creare una nuova visione del futuro.

Il discorso sulla rabbia nasce dalla nostra prospettiva in maniera molto intersezionale, non vogliamo essere né settoriali né troppo strutturati, abbiamo bisogno di vedere cosa suscita rabbia in maniera trasversale, plastica e porosa. Ci siamo resi conto che la dimensione transfemminista e queer è quella maggiormente messa in luce, mentre con l’ultimo lavoro di Alfredo da Venezia (BARRIKEA) abbiamo evidenziato come il capitalismo si appropri degli strumenti della resistenza e della rabbia per capitalizzarli. Stiamo cercando di fare un lavoro plurale, lasciando anche all’artista il diritto di utilizzare l’arte come uno strumento per parlare e per arrabbiarsi. Se la situazione palestinese, la rielezione di Trump e l’ascesa dell’estrema destra in Europa e nel resto del mondo vanno nella direzione di irrigidirci e bloccarci, noi ci ispiriamo ai lavori di Sara Ahmed, che parla di essere feminist killjoy, di essere rompipalle. Noi vogliamo essere proprio questo: rompipalle, affrontare temi scomodi, che suscitano fastidio e provocano reazioni. Se tale silenzio e appiattimento stanno portando a un immobilità, forse è necessario stuzzicare, anche in maniera indecorosa e violenta. Crediamo che l’arte possa essere uno strumento utile sotto questo punto di vista.

Per quanto riguarda il lavoro di selezione, si tratta di un percorso molto lungo. Annualmente riceviamo tra le cento e le centocinquanta proposte, facciamo una prima scrematura e ci confrontiamo con ogni artista sul progetto, relativamente al quale vengono apportate delle aggiunte in funzione del dialogo intercorso. Ci sono alcune questioni sistematiche che riteniamo fondamentali: nell’arte contemporanea, come in altri settori, le donne, le persone non binarie e le persone LGBT sono costantemente messe in seconda linea, e non crediamo che questo sia un fenomeno strutturale inevitabile. Per questo motivo, riflettiamo anche sulla dimensione strutturale dell’arte contemporanea, in un momento di introspezione collettiva, per chiederci se anche noi stiamo cadendo in certe logiche e come possiamo uscirne, evitando di perpetuare certe dinamiche. Quest’anno, la selezione si è orientata verso il tema della rabbia, esplorato in modo plurale: dal punto di vista transfemminista, politico, economico e capitalista, ma anche dal punto di vista del corpo individuale, della morte e del rapporto tra le generazioni. Abbiamo cercato di esplorare l’ira in tutte le sue forme e di spaziare tra diverse tematiche.

Sara Leghissa x Lay0ut Magazine, Pretend it’s a toilet, Public Program, stagione espositiva 2024/2025 IRA GENERANS, spazioSERRA, Milano. Courtesy of spazioSERRA

Nel preparare questa intervista, non ho potuto non pensare a film come L’odio di Mathieu Kassovitz e I miserabili di Ladj Ly, dove viene data voce alla rabbia di chi sta ai margini, in senso tanto sociale quanto geografico. Tutto questo ha ulteriormente risuonato con quanto accaduto a Milano dal novembre 2024 in poi, in seguito alla morte di Ramy Elgaml. Che impatto ha avuto l’accaduto sull’elaborazione e la realizzazione del programma espositivo?

Non c’è stata una diretta riflessione sull’accaduto, anche perché non hanno coinciso in maniera così peculiare i tempi di quando abbiamo concepito il lavoro e di quanto accaduto a Ramy. È chiaro però che la marginalità resta un punto centrale nella realizzazione della stagione espositiva di IRA GENERANS ed è una cosa su cui potremmo lavorare. Le nostre riunioni sono dei momenti di costante condivisione e confronto con quello che sta accadendo nel mondo ed è chiaro che queste tematiche si intrecciano con quelle di IRA GENERANS

Franco Palazzi in La politica della rabbia scrive: “Arrabbiarsi è avere cura di sé mentre ci si prende cura del mondo”. Vi trovate in linea con tali parole? Se doveste racchiudere in una definizione l’approccio alla rabbia che emerge dal vostro programma espositivo, quali parole utilizzereste? 

Queste parole sono molto in linea con il nostro punto di vista e sono interessanti perché esaminano l’emozione sia da una prospettiva individuale sia da una prospettiva sociale; molto spesso nella comprensione delle emozioni, a partire da Darwin, pensiamo a esse come dei fatti individuali psico-biologici, quando in realtà sono culturalmente e storicamente costruite. È molto importante riflettere sul fatto che le emozioni siano costruite nei contesti in cui si vive. La frase di Palazzi mette insieme sia la dimensione psico-biologica, quindi individuale, sia quella sociale, cioè come le emozioni plasmano una serie di discorsi. Sempre ricollegandoci a Sara Ahmed, nel suo The Cultural Politics of Emotions decostruisce alcune emozioni nel contesto delle migrazioni e di come vengono raccontate ed è interessante vedere come si parla di performatività del disgusto e della rabbia, da un lato, come dispositivo di costruzione del sé e, dall’altro, come dispositivo per legittimare atti di violenza. Noi proviamo a ribaltare il forte disciplinamento delle emozioni che percepiamo e che restituisce una visione dicotomica,  binaria e occidentale del mondo (buono-cattivo, amico-nemico, eccetera). Cosa significa vedere la rabbia da una prospettiva non necessariamente negativa, ma positiva? Se intendiamo la rabbia come un dispositivo positivo ci rendiamo conto come questa possa essere una forza comunicatrice e motrice per generare nuovi ideali e nuove rappresentazioni di sé stessi. Le parole per definire il nostro approccio alla rabbia sarebbero quelle di: motore, generatore, proattivo, parole positive che possono aiutarci a decostruire la fissità che percepiamo.

spazioSERRA è nato nel 2017 e ormai avete alle spalle otto anni di attività. Facendo un bilancio, quali sono state le difficoltà incontrate e le soddisfazioni raggiunte?

Mettere in dialogo undici persone non è sempre facile, ma grazie alla continua comunicazione il progetto sta ottenendo riconoscimento nel contesto dell’arte contemporanea, sia a livello milanese sia internazionale. Le difficoltà che abbiamo incontrato sono principalmente legate alla legittimazione, al fatto che siamo un’associazione no profit e dobbiamo far fronte alla sfida di operare in un contesto difficile come quello di Milano. Muovendoci in quanto collettivo al di fuori dello spazio stesso siamo riuscitə anche – ed è quello che volevamo – a dare un piccolo compenso allə artistə che partecipano alla call for artists, permettendo loro di sviluppare la propria ricerca. Questo è un risultato davvero significativo, un successo che abbiamo raggiunto. Speriamo in futuro di poter diventare un punto di transito per finanziamenti provenienti da istituzioni, enti o altre realtà con cui condividiamo valori e idee, affinché tali fondi possano essere destinati a supportare l’artista nell’esplorazione e nello sviluppo della sua espressione artistica. Forse è questo il maggiore successo raggiunto negli anni. 

Cover: XAARCHIVE STUDIO, Bridging Worlds, stagione espositiva 2023/2024 suMISURA, spazioSERRA, Milano. Courtesy of spazioSERRA