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Into the Wild | Intervista con Christiane Rekade | Merano Arte

Il focus della collettiva “Into the Wild” – in corso fino all’8 aprile al Merano Arte – è l’idea e la rappresentazione della natura. A cura di Christiane Rekade, i cinque artisti invitati – Gina Folly, Linda Jasmin Mayer, Alek O., Stefano...

Stefano Pedrini, Views from my Real Estate, 2017, courtesy the artist. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corrà.
Stefano Pedrini, Views from my Real Estate, 2017, courtesy the artist. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corrà.

Il focus della collettiva “Into the Wild” – in corso fino all’8 aprile al Merano Arte – è l’idea e la rappresentazione della natura. A cura di Christiane Rekade, i cinque artisti invitati – Gina Folly, Linda Jasmin Mayer, Alek O., Stefano Pedrini e Luca Trevisani – presentano opere che affrontano il tema della natura da diversi punti di vista, confrontandosi con una figura nota a Merano, il medico e botanico Franz Tappeiner (1816-1902).

Di questa personalità, in mostra, c’è una selezione di materiali provenienti dalla sua vasta raccolta – oltre 6.000 piante di provenienza locale – in stretto dialogo con le opere contemporanee. Come racconta la curatrice nell’intervista che segue, con le loro ricerche gli artisti “riflettono sull’idea che abbiamo oggi di natura, sulla nostalgia per essa, sulla sempre maggiore problematicità di una separazione tra domini considerati tradizionalmente opposti come quelli appunto di natura e cultura.”

Segue l’intervista con Christiane Rekade —

ATP: Per molte ragioni, la mostra “Into the Wild”, può essere considerata il terzo appuntamento che Merano Arte dedica al tema del paesaggio e, più in generale, alla natura. Dopo le personali di Helen Mirra e Gianni Pettena, ora questa collettiva che raccoglie le opere di cinque artisti la cui ricerca è decisamente eterogenea. Che relazione di continuità c’è tra “Into the Wild”, rispetto alle due mostre citate?

Christiane Rekade: L’elemento di continuità rispetto alle due personali di Helen Mirra e Gianni Pettena è appunto da identificarsi in questa riflessione sul rapporto tra uomo e natura. Anche in quel caso Merano Arte proponeva infatti due ricerche differenti, sia nei linguaggi utilizzati sia per provenienza geografica e generazione di appartenenza dei due artisti, ma accomunate dal fatto di porre al centro della propria indagine il confronto con il tema del paesaggio e del rapporto con la natura.
Entrambi si sono rapportati inoltre con il territorio e con la natura locale, a partire dalla dimensione della memoria nel caso di Gianni Pettena, originario di queste zone, e da un confronto empirico, attraverso una residenza di un mese, per Helen Mirra.
Con Into the Wild Merano Arte porta avanti questa riflessione sulla natura, declinata appunto attraverso cinque ricerche eterogenee che affrontano questa tematica da diversi punti di vista. Anche in questo caso torna inoltre un’attenzione per il territorio, con l’inserimento di alcune pagine dell’erbario di Franz Tappeiner, medico e botanico attivo a Merano nel corso del XIX secolo.

ATP: Come hai scoperto la figura di Franz Tappeiner, medico che si è dedicato alla botanica e che ha raccolto, nell’arco della sua vita, un erbario di oltre 6000 specie di piante?

CR: Franz Tappeiner è una figura particolarmente nota a Merano, dove non solo ha esercitato la professione di medico ma ha anche promosso importanti iniziative per la città, tra cui la più nota è la passeggiata botanica a lui intitolata. Parallelamente all’attività di medico si è dedicato appunto alla botanica, raccogliendo oltre 6.000 piante di provenienza locale in un erbario (che oggi si trova nella collezione naturalistica dei Tiroler Landesmuseen di Innsbruck). Una selezione di questi materiali, che ci restituiscono una visione della natura come un campo da studiare, analizzare e classificare, è posta in dialogo con i lavori di cinque artisti contemporanei, che riflettono sull’idea che abbiamo oggi di natura, sulla nostalgia per essa, sulla sempre maggiore problematicità di una separazione tra domini considerati tradizionalmente opposti come quelli appunto di natura e cultura.

Gina Folly, Unfinished business, (Ling Zhi) V-XI, 2018, courtesy the artist & Ermes-Ermes – Luca Trevisani, Ombre a colori, 2018, courtesy the artist & Galerie Mehdi Chouakri, Berlin. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corra
Gina Folly, Unfinished business, (Ling Zhi) V-XI, 2018, courtesy the artist & Ermes-Ermes – Luca Trevisani, Ombre a colori, 2018, courtesy the artist & Galerie Mehdi Chouakri, Berlin. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corra

ATP: Ci sono, tra i cinque artisti invitati, delle affinità tra la loro ricerca e la scrupolosa attività classificatoria di Franz Tappeiner?

CR: Certamente: ad esempio Alek O., artista che ho selezionato a ArtVerona in occasione di Level 0, sembra riproporre la struttura dell’erbario: nell’installazione a parete L’Impero delle Luci (2017-2018) inserisce infatti una serie di piante essiccate, raccolte nei boschi del Parco del Lura, nei pressi di Como, dove si reca spesso a camminare. In particolare l’artista rivolge la sua attenzione alla presenza di piante non autoctone, come il bambù o la “robinia pseudoacacia”, un albero di origine americana importata in Europa nel XVII secolo, che oggi caratterizza fortemente il paesaggio lombardo. A questa sorta di tassonomia vegetale si accompagna sulla parete opposta Black Mirror (2018), costituito da una serie di altri “reperti” rinvenuti nel bosco, come lattine e piastrelle, che ci restituiscono lo stretto legame, spesso nocivo, tra ambiente naturale e antropico.
Nella ricerca di Luca Trevisani il tema dell’erbario ha un ruolo particolarmente importante: nella serie di sculture Il secco e l’umido (2016) ha infatti proposto la giustapposizione tra elementi provenienti dal mondo animale e vegetale – corna e canne di bambù – e collant su cui sono stampati motivi floreali ripresi da erbari ottocenteschi, come ad esempio quello di Francesco Minà Palumbo, medico e botanico siciliano contemporaneo di Tappeiner. La relazione tra uomo e natura ci viene così restituita in tutta la sua problematicità: oggetti naturali che echeggiano trofei e decorazioni si contaminano infatti con differenti rappresentazioni della natura storicamente connotate, come appunto quella scientifica e tassonomica degli erbari.
Anche l’artista Gina Folly propone una sorta “classificazione” di forme naturali del nostro tempo, guardando a una natura fittizia e artificializzata: è la presunta naturalità di frutti esotici costantemente disponibili nel nostro quotidiano, a prescindere dalla stagione o dalle aree geografiche di provenienza, messi in scena in mostra in una sorta di mercato immaginario. Oppure, in Unfinished business I-VI (2018), Folly propone dei funghi (“Ling Zhi”) a cui nella medicina tradizionale cinese sono attribuiti poteri curativi e ringiovanenti, che possono essere ordinati su internet e coltivati in casa per i propri trattamenti “naturali”. L’artista esamina così criticamente il fenomeno della “cultura del benessere”, adottandone e trasformandone gli oggetti e i simboli.

ATP: Nel comunicato della mostra si palesa come l’uomo contemporaneo sia quasi più sensibile alla ‘natura’ di uno schermo digitale che non alla realtà. Riscontri questa dimensione in alcune ricerche degli artisti in mostra? Come avete affrontato questa discrepanza uomo-natura?

CR: L’avvento del digitale ha necessariamente cambiato la nostra percezione del mondo, compresa quella della natura. La mostra si apre proprio con un lavoro di Luca Trevisani che pone al centro questa tematica: in Wireless Fidelity (2018) egli stampa infatti su piume di uccello gli ornamenti di una carta da parati e le innesta su delle aste a forma di antenna, proponendo un parallelismo tra lo standard di comunicazione “senza fili” tipico del digitale – wireless appunto – e oggetti provenienti dal mondo animale, a loro volta legati a una dimensione comunicativa (dalla scrittura con le “penne” all’utilizzo dei piccioni viaggiatori) e quindi storicamente connotati. Al contempo questo lavoro sembra minare la percezione evolutiva con cui guardiamo alle nuove tecnologie, ricordandoci come forme di comunicazione che viaggiano “nell’aria” non siano certo una prerogativa del nostro tempo.

Linda Jasmin Mayer, Parallel Worlds, 2016. , courtesy the artist. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corra
Linda Jasmin Mayer, Parallel Worlds, 2016. , courtesy the artist. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corra

ATP: Mi introduci brevemente le altre opere in mostra, tracciandomi il loro nesso con il tema della mostra?

CR: Oltre a quelle già citate, vorrei soffermarmi sulle opere di Stefano Pedrini, di cui in mostra sono proposti sia dipinti della serie Palmeti (2014-2015), che creano una sorta di giungla, sia disegni di piccolo formato. I suoi lavori sono costituiti da un denso accumulo di segni, rappresentazioni ridotte al minimo, quasi grafiche, di elementi che simboleggiano la natura. Su tela o su carta i colori in gioco sono pochi, il gesto e le dimensioni dell’unico pennello utilizzato sono riconoscibili. La mano disegna forme, per lo più palme, fino a quando il colore non si esaurisce, lasciando che l’ultima parte di ogni elemento sia quasi graffiata da un pennello ormai secco. Nei materiali poveri scelti, nella ripetitività quasi meccanica di alcuni gesti e nell’espressività che rende ogni gesto dell’artista quasi una firma (firma che oltretutto compare sempre ben in vista in ogni lavoro), le opere pittoriche di Stefano Pedrini sono chiaramente consapevoli e portatrici della stessa complessità del lavoro del pittore statunitense Josh Smith.
Da oltre due anni Pedrini vive in Australia in un van e fissa la sua “vanlife” a diretto contatto con la natura in una serie di disegni di piccolo formato, con uno stile influenzato dalla “Surf Culture” , dalla cultura aborigena ma anche al recupero della decorazione e dei pattern di Ettore Sottsass e della stagione postmoderna del design italiano. Nei disegni dal titolo My Real Estate una serie di linee parallele e serpeggianti disegna campiture colorate riconducibili al paesaggio naturale visto dall’artista quando è coricato all’interno del suo van.
La giovane artista meranese Linda Jasmin Mayer propone invece una rappresentazione della natura come luogo di ricerca di se stessi, raccontando nel video Parallel Worlds (2016) la sua partecipazione ad una spedizione nel Mar Glaciale Artico assieme ad altre 27 persone, tra cui ricercatori, artisti e scrittori. L’artista osserva in modo serrato, ma sempre da una prospettiva esterna, la contrapposizione tra “natura” e “mondo interiore” dei protagonisti e il modo in cui, di fronte ai paesaggi estremi, cambi la percezione di sé degli individui.

ATP: Ultima domanda, quasi doverosa, sul titolo della mostra che rimanda a un film molto conosciuto diretto da Sean Penn, “Into the Wild” (2007). Il film (tristissimo, direi) racconta la ricerca-viaggio di un ragazzo attraverso gli Stati Uniti. Esperienze, scoperte e imprevisti lo porteranno a confrontarsi con una natura solo apparentemente benigna. La fine, di fatto, la conosciamo. Che attinenze possiamo notare tra il film e la mostra?

CR: La mostra prende appunto le mosse dal film Into the Wild di Sean Penn, a sua volta tratto dal libro omonimo di Jon Krakauer, che racconta la storia di Christopher McCandless: un giovane studente americano di famiglia agiata che, appena laureato, decise di abbandonare tutto per ricercare la possibilità di un’esistenza più autentica, lontana dalle convenzioni sociali, a diretto contatto con una natura che non è solo una realtà idilliaca e incontaminata ma che anzi lo porterà alla morte.
Questa dimensione di nostalgia per una natura, anche come natura immaginaria o costruita, o come luogo di ricerca di se stessi, è ciò che lega i diversi lavori in mostra: fin dall’ottocento si afferma infatti – parallelamente all’avvento della società industriale – un’esigenza sempre più forte di ritrovare un legame con la natura. Ad esempio, nel 1845 il filosofo e scrittore statunitense Henry David Thoreau si era ritirato a vivere in una casa nella foresta, e può essere considerato come il padre di moderni “Aussteiger” come appunto McCandless. Questa parola tedesca, di fatto intraducibile in italiano ma che potremmo semplificare con “vagabondo”, indica una persona che sceglie di cambiare drasticamente la sua vita tagliando i ponti con la società.
La dimensione di una nostalgia per un rapporto con una natura la cui perdita appare come sempre più ineluttabile torna appunto in alcuni dei lavori in mostra: ad esempio nelle “porzioni” di natura osservate dal van e illustrate nei disegni di Stefano Pedrini, oppure nel video di Linda Jasmin Mayer in cui il viaggio tra i ghiacci sembra diventare metafora di un viaggio dentro se stessi. Al contempo la mostra si interroga sulle diverse declinazioni che ha assunto oggi il concetto di natura, su come essa sia sempre più presente nel nostro ambiente quotidiano in forme semplificate e artificializzate, e su come una distinzione netta tra mondo naturale e culturale sia sempre più problematica.

Anche se (o forse proprio per questo motivo) i confini tra natura e cultura, tra natura e civilizzazione, oggi non possono più essere tracciati con certezza e tendono a sovrapporsi; la natura è ancora un luogo del desiderio, un’immagine forte, capace di plasmare non soltanto il nostro stile di vita ma anche le nostre percezioni quotidiane.

La mostra è stato realizzata in collaborazione con artVerona/Level Zero 2017; il contributo di Gina Folly è sostenuto da Pro Helvetia.

Alek O., L’impero delle luci, 2017/18, courtesy the artist and Frutta Gallery, Rome – Franz Tappeiner, Excerpts of the Herbarium (ca. 1838-1869), courtesy Naturwissenschaftliche Sammlungen der Tiroler Landesmuseen, Innsbruck. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corra
Alek O., L’impero delle luci, 2017/18, courtesy the artist and Frutta Gallery, Rome – Franz Tappeiner, Excerpts of the Herbarium (ca. 1838-1869), courtesy Naturwissenschaftliche Sammlungen der Tiroler Landesmuseen, Innsbruck. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corra
Luca Trevisani, Il secco e l’umido, 2016, courtesy the artist & Galerie Mehdi Chouakri – Franz Tappeiner, Excerpts of the Herbarium (ca. 1838-1869), courtesy Naturwissenschaftliche Sammlungen der Tiroler Landesmuseen, Innsbruck. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corrà
Luca Trevisani, Il secco e l’umido, 2016, courtesy the artist & Galerie Mehdi Chouakri – Franz Tappeiner, Excerpts of the Herbarium (ca. 1838-1869), courtesy Naturwissenschaftliche Sammlungen der Tiroler Landesmuseen, Innsbruck. Installation view “Into the Wild”, foto: Ivo Corrà