Intervista di Lara Pisu —
L’errore qui (o forse no) è domandarsi il perché, è la volontà di comprendere – in quanto prendere per sé – ciò che si sta guardando. Nei dipinti di Silvia Capuzzo tutto è distante e il concetto è inafferrabile, soprattutto perché non c’è nulla di tangibile da rivelare. I soggetti vengono svuotati di significato ma presi in considerazione per la loro carica anatomico-formale: la forma è il contenuto. Sulla tela non solo il colore viene mescolato con elementi differenti, ma tutto entra a far parte della stessa pastosità, in quanto le stratificazioni di colore si amalgamano alla stratificazione di soggetti e oggetti, tanto casuali quanto ben scelti: sono assonanze, libere associazioni solo apparentemente randomiche. La forma decreta l’associazione che si rivela nel suo essere pittorico, escludendo la semantica – perché di linguaggio stiamo pur parlando.
In occasione della sua personale Underword nella sede napoletana della galleria VIN VIN (la mostra si è conclusa il 22 aprile), un’intervista a Silvia Capuzzo.
Lara Pisu: Dimensioni, soggetti, toni e densità differenti. L’unica costante – a primo colpo d’occhio – nei tuoi dipinti sembra essere la tecnica pittorica (e l’imprevedibilità). Qual è il filo conduttore della serie di lavori realizzati per l’esposizione alla galleria VIN VIN?
Silvia Capuzzo: La mostra si chiama Underwords perché rispetto al mio lavoro e al luogo dell’esposizione ho pensato alla Napoli sotterranea. La mia mano sulla tela ricalca molto il tunnel, il verme, un moto ondulatorio continuo che scava e al tempo stesso unisce le parti della narrazione. Soggetti semplici, ma che con la ripetizione e l’unione di una pennellata bianca continua vogliono caricarsi di ironia e un poco di inquietudine assieme. Ho deciso però di togliere la “l” dal delilliano Underworld perché penso che i miei lavori più che mondi sotterranei siano insinuazioni di stimoli sotterranei, un gesto immediato come la parola.
LP: Che ruolo ha la tecnica pittorica all’interno del tuo lavoro e della tua ricerca?
SC: La mia ricerca si divide in due strade tecniche attualmente: la prima riguarda l’olio su tela tradizionale. La seconda vede l’olio di lino saturato con dei sostitutivi di pigmento che siano trasparenti. Alcuni rimangono stabili e, appunto, abbastanza trasparenti nel tempo. Altri invece durante l’essiccazione dell’olio – che può durare anche più di un anno visto lo spessore delle stratificazioni – formano lievi cristallizzazioni, ingiallimenti, fioriture. Così si creano nel tempo nuove pennellate, alcuni soggetti scompaiono e comunque in generale si modifica l’intera atmosfera della scena, che si incupisce molto. Ciò non solo modifica microscopicamente la pittura, formando cose che per la mia mano umana sarebbe impossibile “disegnare”, ma anche macroscopicamente appunto con il cambiamento di aria che sta attorno ai miei soggetti. È come se simulasse l’intervento del tempo sulla tela e nella tela, nella scena, l’aggressività della polvere e dell’invecchiamento.
LP: Nelle tue tele si distinguono sagome e ambientazioni più o meno chiare: il lavoro sembra la proiezione di un’immagine mnemonica, che per appunto manca di definizione e in cui tutto vibra. Vorrei mi parlassi di questo aspetto della tua pittura.
SC: Cerco una via epifanica dell’immagine quando costruisco una scena. Questo è legato sia al contenuto che al modo in cui mi approccio a esso: ogni soggetto è separato nello spazio ma unito in tutta la superficie spesso da un’unica, lunga, lenta pennellata bianca. Nei lavori con gli amidi invece questa unione, oltre che da questa luce finale, è data anche dall’incupimento progressivo della scena. Lavorando per sovrapposizione non ne risente soltanto la pittura di questo cambiamento: è come se fosse l’atmosfera, l’aria che sta attorno ai soggetti, a caricarsi di segni. Sempre nella sovrapposizione attuo piccole minime variazioni di gesto, giusto per fare affogare ancor più la cosa ritratta.
LP: Quest’impossibilità di comprensione, di afferrare in maniera precisa i soggetti e le ambientazioni crea un vuoto che lascia libero accesso all’inquietudine. Che ruolo ha questo aspetto nei tuoi lavori?
SC: Penso che l’inquietudine nei miei lavori sia data più dall’isteria della ripetizione che dalla difficile comprensione dello spazio d’azione delle scene. Non dipingo quasi mai figure fantastiche o surreali ma cose conosciute, e quando queste vengono esagerate ed esasperate avverto lo straniamento. È l’inquietudine della compulsione. La difficoltà nel distinguere oggetto e spazio a me invece dà gusto!
LP: Criceti con pomodori secchi, struzzi con mani e bambino, cene grottesche con boia, natura morta con cipolle e tappeti persiani (ma non solo)… Qual è il criterio di selezione dei soggetti?
SC: Tutto ciò che vedo e che mi pare possa essere sintetizzato in pittura rientra nella mia selezione. Non dico questo pensando solo alle piccole forme con cui riempio lo spazio, come appunto i criceti, le allodole / trofei di caccia, ecc., che sono ripetizione di forma e di rituale gestuale legate allo straniamento di cui parlavo prima: la sintesi è la mia più grande fonte di fascinazione in pittura (non solo). Ho spesso ripreso e ri-contestualizzato ad esempio un lavoro di Fausto Pirandello intitolato La Tempesta, dove con quattro macchie è riuscito a costruire la massima tragedia. Quelle persone che corrono in tutte le direzioni mi piace ripensarle come sì perse e cieche, ma non nella catastrofe naturale, più nelle sciocchezze, nel nulla. Quindi arrivo alla gara di corsa tra gente bendata, calciatori che si tolgono la maglia dopo il gol e uomini adulti che spaventano degli animali. Cerco comunque di suscitare ironia.
LP: L’uso che fai degli amidi o dell’allumina conferisce ai tuoi lavori un’atmosfera particolare, un aspetto invecchiato che incupisce l’aria e alimenta quell’effetto di estraniamento già di per sé presente all’interno della tela. Come mai hai deciso di usare questo tipo di atmosfera per ambientare i tuoi soggetti?
SC: C’ è una teoria – formulata da Arthur Danto, a cui io non credo davvero ma mi piace pensare sia reale – che ho trovato abbastanza seducente sin dal primo anno di accademia ed è ciò a cui io miro quando, dipingendo, cerco di attuare una regia secondo cui certe cose devono apparire prima di altre, e altre ancora sono condannate ad essere in futuro nascoste. Nel dibattito sul restauro al Giudizio Universale di tanti anni fa, Danto e altre persone hanno ipotizzato una possibile realtà che vede Michelangelo consapevole di ciò che i fumi delle candele, la polvere e il tempo avrebbero procurato all’affresco. Quale Apocalisse si può svolgere nel blu terso, nel ceruleo primaverile? Prima o poi sarebbe arrivato il nero, il buio, a terminare l’opera. Più semplicemente, per me che in continuazione cerco questo legame tra l’ironia, il grottesco e la malinconia, è la questione della polvere che fa davvero morire la natura morta. E muore tanto più se piena di insinuazioni pop come la maglia della nazionale o dei pomodori secchi poggiati lì, ignorando l’animaletto domestico.