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The Things I Hope To Bury | Intervista a Ibrahim Ahmed

Intervista di  Angelica Gatto Burn What Needs To Be Burned è la prima personale in Italia di Ibrahim Ahmed. Inaugurata negli spazi della galleria romana di Sara Zanin Z2O, la mostra presenta in anteprima un ampio corpus di lavori –...

Ibrahim Ahmed - Burn What Needs To Be Burned, 2018 - Installation View - Room 1 - z2o Sara Zanin Gallery, Roma - Ph. Giorgio Benni
Ibrahim Ahmed – Burn What Needs To Be Burned, 2018 – Installation View – Room 1 – z2o Sara Zanin Gallery, Roma – Ph. Giorgio Benni

Intervista di  Angelica Gatto

Burn What Needs To Be Burned è la prima personale in Italia di Ibrahim Ahmed. Inaugurata negli spazi della galleria romana di Sara Zanin Z2O, la mostra presenta in anteprima un ampio corpus di lavori – tra cui collage, photocollage e sculture assemblate con pezzi di ricambio per automobili – che riassume la ricerca condotta dall’artista negli ultimi due anni.
Ahmed, nato a Kuwait City nel 1984, ha trascorso diversi anni negli Stati Uniti, dove ha conseguito un BA in Letteratura Inglese presso la Rutgers University, e attualmente vive e lavora al Cairo.

Ard El Lewa, il quartiere periferico e multietnico in cui ha stabilito il suo studio e la sua casa, è l’osservatorio da cui sviluppa un’indagine incentrata sui topoi dell’identità, della memoria, sia individuale che collettiva, e del gender. Le strade polverose del Cairo, le preghiere del muezzin che scandiscono le giornate torride passate a bere caffè turco nei bar lungo la strada, il traffico frenetico tra vecchie Ford e motociclette che trasportano gabbie per polli schivando i pedoni che frettolosamente attraversano la strada sono i ricordi vividi di una città anarchica che vive la quotidiana frustrazione dell’atarassia politica e dell’instabilità cronica. All’interno di questo scenario la ricerca di Ahmed si spinge a ridefinire le linee di confine che caratterizzano la cosiddetta “identità nazionale” a partire da un’osservazione attenta che prende in considerazione la sua duplice identità di artista e migrante.
Attraverso un’attitudine fortemente narrativa, Ahmed elabora un’estetica che concilia la pregnanza concettuale dei temi che indaga con una peculiarità visiva che si muove su un terreno di confine tra architettura, iconografia sacra e decostruzione. Nelle installazioni ambientali così come nei lavori recenti, l’artista impiega i media più disparati articolando un discorso di senso che dai tessuti dipinti, assemblati e incollati, passando per le installazioni arriva fino ai collage fotografici.
Oltre a diverse mostre personali e collettive, Ahmed ha all’attivo la partecipazione alle Biennali di Dakar e Casablanca (2018). I suoi lavori sono presenti presso la Newark Public Library Special Collection, la Hudson County Community College Foundation Art Collection e il Printmaking Center of New Jersey Collection. Nel 2019 parteciperà alla 13esima Biennale de l’Havana.

Ibrahim Ahmed - Burn What Needs To Be Burned, 2018 - Installation View - Room 3 - z2o Sara Zanin Gallery, Roma - Ph. Giorgio Benni
Ibrahim Ahmed – Burn What Needs To Be Burned, 2018 – Installation View – Room 3 – z2o Sara Zanin Gallery, Roma – Ph. Giorgio Benni

Angelica Gatto: Burn What Needs To Be Burned presenta in anteprima un ensemble di lavori che è il frutto di un percorso durato quasi due anni. Com’è nato questo progetto che tu stesso definisci “personale”?

Ibrahim Ahmed: Tutta la mostra ruota attorno a un intento ben preciso che è quello di decostruire una concezione archetipica della virilità; dico archetipica perché credo che essa sia caratterizzata dal sostrato culturale abitudinario che incentra le nostre esistenze, da quando nasciamo a quando moriamo. Ad un certo punto, ho avvertito l’urgenza di dare risposta ad alcuni quesiti che mi ponevo quotidianamente e che si risolvevano molto spesso in una stretta dicotomia tra pubblico e privato, tra atteggiamenti consuetudinari e modalità comportamentali mie personali, intime. Queste due componenti, esterna e interna, sono interagenti e per questo motivo credo che vadano messe in discussione. Le istituzioni che perpetuano una oppressione sistematica, che indottrinano, e le modalità attraverso cui assorbiamo questo indottrinamento sono parte integrante di questo percorso.

Da un lato ho tenuto bene in mente l’aspetto performativo legato alla virilità e alla mascolinità, dall’altro ho scandagliato l’universo emotivo limitato che è ritenuto lecito per ciascun individuo di sesso maschile. All’età di dodici anni i discorsi più ricorrenti tra i miei amici e i miei fratelli avevano a che fare con le automobili; ho deciso quindi di abbracciare quell’universo legato alla “car culture” per sentirmi uno di loro, per condividere un insieme di “valori” tipicamente maschili che non potevo far altro che sposare, seppur forzatamente, ovvero nell’ottica di una repressione del mio lato più marcatamente sensibile.

AG: Tutto il lavoro ha come protagonista te stesso: la tua immagine compare negli scatti mentre posa, performa, lotta con un masso di pietra, assume connotati femminili, si maschera; per quale motivo ti sei scelto come soggetto unico?

IA: Alla base di questa scelta ci sono sostanzialmente due motivi. Da un lato, questo progetto rappresenta una documentazione visiva assolutamente personale di un viaggio, un rito di passaggio che ha come punto di approdo la decostruzione della virilità e il disvelamento; dall’altro, il mio obiettivo è stato quello di radicalizzare, e spingere alle estreme conseguenze, un’urgenza tutta interiore, nata anche da un’indagine di taglio psicoanalitico, fatta in anni di terapia.

Ibrahim Ahmed, Bring The Offerings  Alms ILeft At Your Doorstep No. 4, 2018 - Photo Collage, cm30x40
Ibrahim Ahmed, Bring The Offerings Alms ILeft At Your Doorstep No. 4, 2018 – Photo Collage, cm30x40
Ibrahim Ahmed - Everything I Am Everything I Am Not No.9, 2018 - Photo collage, cm 40x50
Ibrahim Ahmed – Everything I Am Everything I Am Not No.9, 2018 – Photo collage, cm 40×50

AG: In questi nuovi lavori mi sembra che tutto si incentri su una forte componente narrativa; la scelta di inserire alcuni versi che hai scritto – e che danno il titolo a ciascuna serie – è senza dubbio esemplificativa: le poesie suggeriscono dei percorsi di senso, si collocano negli interstizi della memoria e guidano alla lettura. Inoltre, un aspetto che mi interessa molto è quello legato alla figura, ingabbiata all’interno di rigorose costruzioni architettoniche. La costrizione del soggetto all’interno di un reticolato così concepito ne sospende, a mio avviso, la tangenza con il reale, facendo assumere alla figura un carattere transitorio di icona an-iconica, cosa ne pensi?

IA: Ricordo una frase che spesso ricorreva durante alcune della mie lezioni all’università: “possiamo credere al Narratore?”.
Effettivamente la narrazione è un elemento fondamentale, essa è parte integrante del mio lavoro e anche una mia personale attitudine, se non una vera e propria passione. L’elemento narrativo diventa spesso la costante attraverso cui accedere a un universo mentale che altrimenti rimarrebbe precluso al pubblico. Le opere presentate nella mia ultima mostra mettono in discussione la costruzione di una identità narrativa singolare, ed esprimono al contempo tutta la complessità insita all’interno di ciascuna narrazione. Senza dubbio il mio interesse è quello di mettere in crisi le narrazioni dominanti, le cosiddette grandi narrazioni. Alla base di tutto questo risiede un’idea che è quella della fluidità e della stratificazione incessante, che esclude qualunque tentativo di normalizzazione.

Ciò che dici in merito alla figura e al modo in cui essa viene mostrata, ovvero attraverso delle architetture che, all’inizio, la nascondono parzialmente, mentre alla fine la svelano ingabbiandola, può essere in parte vero. Di fatto, ho spesso assunto l’iconografia sacra – le divinità greche, romane ed egizie, per citare soltanto alcuni esempi – come uno dei referenti per questi lavori. Lo spazio e il corpo sono i due elementi che interagiscono, e che sì, talvolta assumono un carattere iconico, tra sacro e profano. I lavori riflettono la mia personale relazione con la virilità, intesa come performance quotidiana e modo di essere, e per questo stesso motivo generano in chi le osserva un senso di costrizione e contenimento, che è anche e soprattutto concettuale.

AG: La prima volta che mi sono imbattuta nel tuo lavoro è stata con le serie di tessuti Ard El Lewa (2015) e South x South (2016); in relazione a queste due serie – se poste a confronto con i lavori attualmente in mostra a Roma – a un primo sguardo la sensazione è quella di un sostanziale scarto compositivo, persino nella scelta del medium, eppure a un livello di lettura ulteriore questo scarto sembra scomparire…

IA: Sono d’accordo con te. Le serie Ard El Lewa e South x South riflettono su temi analoghi. L’identità geopolitica plurale del cosiddetto Sud Globale, e le stratificazioni di storia e memoria che questo porta con sé. Che si tratti di tessuti incollati tra loro a disegnare una mappatura di geografie politiche mutevoli, oppure di strati di tessuto resinato il tema è sempre quello dei borders, dei confini politici, geografici, mentali, dell’identità. Chiaramente i lavori più recenti investigano questi stessi temi privilegiando un punto di vista più intimo e personale.

Ibrahim Ahmed, Only Dreamers Leave, 2016 - Textiles Variable Dimensions - Installation View At Dakar Biennale - 2018
Ibrahim Ahmed, Only Dreamers Leave, 2016 – Textiles Variable Dimensions – Installation View At Dakar Biennale – 2018

AG: Corpo, memoria, gender politics e performatività sono alcuni degli aspetti ricorrenti nella tua pratica artistica. Qual è il tuo posizionamento in merito a questi macro-temi?

IA: Si tratta di tematiche centrali nella mia ricerca. Il corpo – con esso la performatività – è necessariamente un corpo politico, fatto di gesti e azioni altrettanto politiche. La memoria che esso porta con sé è sia individuale che collettiva, ed è in questo continuo scambio che ricerco le possibili tangenze tra Sé e Altro.

AG: Il tema dell’identità è centrale nella tua pratica artistica: da un lato, l’impossibilità di marcare una identità definita e univoca – personale, geopolitica, sessuale – dall’altro, una tensione costante alla ricerca identitaria. Come vengono conciliati questi due aspetti?

IA: L’identità non può essere univoca e darsi per intero, in maniera sempre uguale a sé stessa; io stesso mi sottraggo a questo tentativo, a mio avviso fallimentare, di definizione. 

AG: In quale modo le tue origini incidono su contenuti e modalità del tuo lavoro? Penso per esempio alla centralità del corpo e del soggetto, alla sessualizzazione del corpo. Abbiamo scherzato più volte su un’attitudine tipicamente western centered che considera l’aspetto, passami il termine, “esotico” che talvolta l’immaginario collettivo associa ad un artista non europeo…

IA: Se consideriamo questa idea, direi che le basi delle mie origini risiedono in America. Lì ho trascorso 17 anni. Allo stesso tempo, ho vissuto in diversi luoghi e la mia percezione riguardo alle origini è più ampia e stratificata, soprattutto se si considerano i processi di globalizzazione che hanno interessato e che tutt’ora interessano la vita contemporanea. Chiaramente il problema che sollevi è importante. Vorrei in qualche modo ribaltare la domanda e dirti che a porsi un quesito dovrebbero essere tutti quei soggetti “western centered”, come li hai definiti te, che chiamano in causa questa attitudine naive ed “esotica” appunto.

Ibrahim Ahmed, South x South, 2016 - Installation View At Sharjah Art Museum
Ibrahim Ahmed, South x South, 2016 – Installation View At Sharjah Art Museum

AG: Attualmente sei a lavoro sulla Biennale de L’Havana, che inaugurerà il prossimo maggio 2019. Quale sarà il tema?

IA: La 13esima Biennale de L’Havana ha un titolo particolarmente eloquente: The Construction of the Possible; sto lavorando a una installazione ambientale, Does anybody leaves heaven?, il cui titolo fa riferimento a una domanda retorica che spesso mi viene rivolta quando racconto di aver lasciato gli Stati Uniti per trasferirmi al Cairo: c’è qualcuno che è così sciocco da abbandonare il paradiso?!.

I mercati del Cairo pullulano di oggetti e merchandise con la bandiera a stelle e strisce. L’american way of life resta per molti la promessa di un futuro migliore. Da qui, la decisione di raccogliere tutti gli oggetti – abiti, magliette, bandiere e altro – che ho trovato in città per farne una grande installazione che ricordi gli antichi templi egizi, i cui soffitti erano di solito dipinti con volte trapunte di stelle dorate. L’installazione è un gigantesco commentario dell’immaginario mitologico che circonda gli Stati Uniti e di come questo stesso immaginario influisca sulla percezione della quotidianità in una città come il Cairo.

AG: Dunque l’arte è politica?

IA: Il sistema dell’arte è ancora centrato sul concetto di whiteness, motivo per cui chiunque si inserisca al di fuori della linea tracciata da questo concetto arbitrario viene visto e letto attraverso le lenti della politica. L’arte come strumento di cambiamento politico è qualcosa che ancora non ho scoperto, ma credo che sia importante essere impegnati nel tentativo di interrogare e interrogarsi suscitando delle reazioni.

Ibrahim Ahmed, Ard El Lewa No.9, 2015 - MixedMedia, Variable Dimensions_Detail
Ibrahim Ahmed, Ard El Lewa No.9, 2015 – MixedMedia, Variable Dimensions_Detail
Ibrahim Ahmed - South X South , 2016 - Textiles And Resins, Variable Dimensions
Ibrahim Ahmed – South X South , 2016 – Textiles And Resins, Variable Dimensions