Intervista con Raziel Perin

" Il mio lavoro mi ha aiutato a riempire il gap tra i due contesti in cui si è formata la mia persona e a conciliare i miei due lati in conflitto. Nel mio lavoro ambisco a far si che un’opera avvenga come un momento di trasformazione profonda e di sintesi di tutto ciò che mi è avvenuto prima."
11 Marzo 2021
Raziel Perin, Altarino (2013), Courtesy of the artist
Raziel Perin, Autoritratto familiare (2015), Courtesy of the artist

Classe 1992, nato nella Repubblica Dominicana, Raziel Perin è un artista di cui ho incrociato il percorso guardando a The Recovery Plan, la piattaforma culturale itinerante fondata da Black History Month Florence e dedicata alla promozione delle produzioni culturali afro-discendenti nel contesto italiano in collaborazione col MA*GA. È nel museo di Gallarate che lo scorso ottobre è stata inaugurata “A Tale of Tamarindo”, mostra personale in cui Raziel ha presentato lavori sviluppati principalmente nel 2020. L’ho intervistato per approfondire questo suo lavoro e la sua ricerca, in cui rituali legati alle credenze popolari e al misticismo di Santo Domingo, giungono filtrati sino a lui in Italia, in Lombardia, nelle maglie della diaspora della sua famiglia. 

Sara Benaglia: Durante gli anni di formazione il tuo lavoro si è sviluppato attraverso una pratica di disegno su taccuini, forse anche l’effetto di un cercarsi in un contesto di voci principalmente eurocentriche. C’è una relazione tra ciò che della tua pratica definisci naïf e l’adesione, o meno, a caratteristiche di inclusione culturale?

Raziel Perin: Ho iniziato l’università senza avere alcun background artistico, dopo un brutto incidente stradale che mi ha costretto a stare bloccato in un letto d’ospedale. Avevo deciso di dare una sterzata alla mia vita, togliermi le armature che mi ero costruito e portare alla luce i miei mostri, la mia fragilità. Per tutto il periodo di formazione non ho fatto altro che disegnare ossessivamente nei miei taccuini per sondare me stesso, la mia interiorità. In questo processo il taccuino è servito come strumento terapico, e come finestra di accesso al mio profondo da dove riemergevo rafforzato, con più strumenti per affrontare l’esistenza.
Quando passavo giorni a disegnare mi veniva naturale, quasi automatico, assemblare altarini di taccuini e installazioni, che comprendevano oggetti personali come cassetti, giocattoli della mia infanzia, o i miei vestiti, in cui il disegno diveniva attivatore di una forza che unisce la realtà esterna con la mia realtà interiore.
Il rapporto con il taccuino mi dava la sicurezza di lavorare di pancia, in modo istintivo. Con il tempo mi sono reso conto che stavo scoprendo un modo di operare che mi apparteneva e che proveniva da un tempo e un luogo remoti. La ricerca della mia forma espressiva personale andava di pari passo con la ricerca delle mie origini. Attraverso la mia famiglia ho, fin da bambino, assistito a delle pratiche religiose di matrice voodoo, trasmesse in modo indiretto e che ho assimilato. Un linguaggio ancestrale che dentro di me trova un modo di ridefinirsi nel presente e nel contesto in cui vivo, e che emerge attraverso l’arte.

SB: Nel tuo lavoro la tua identità diasporica si riflette in una sorta di rifugio in qualcosa di misterioso. In che modo questa forma di “ricollocamento” contrasta tentativi di sbiancamento (o addomesticamento)?

RP: Essendo cresciuto tra l’Italia e la Repubblica Dominicana, la parte di me che si sviluppava in Italia rifiutava la mia parte nera, perché considerata impura, selvaggia, pericolosa, esteticamente brutta. Vivo in un contesto dove prevale uno sguardo eurocentrico che si differenzia dal resto del mondo come il più civilizzato ed evoluto. Mi sono accorto da adulto di quanto questo mi condizionasse in modo pesante e negativo, spingendomi a vivere una vita alla ricerca di qualcosa che non ero. Invece, ad un certo punto, ho deciso di ricercare chi sono veramente, mi sono rifugiato nel silenzio, mi sono seduto ad osservare la mia realtà e a contemplare i miei pensieri, ho rifiutato l’uso della lingua italiana per esprimermi esclusivamente con il disegno e con un linguaggio di simboli di mia invenzione. Il mio lavoro mi ha aiutato a riempire il gap tra i due contesti in cui si è formata la mia persona e a conciliare i miei due lati in conflitto.
Nel mio lavoro ambisco a far si che un’opera avvenga come un momento di  trasformazione profonda e di sintesi di tutto ciò che mi è avvenuto prima. 

SB: Hai rintracciato i riferimenti nel tuo lavoro dopo aver frequentato l’accademia, attraverso viaggi che  ti hanno portato dal Senegal – a Gorée –  a Santo Domingo. Che cosa è accaduto in questo periodo?

RP: Quando ho finito l’università, ero abbastanza disorientato. Un mio amico senegalese di nome Karim mi disse “perché non vieni con me in Africa?”, perciò decisi di andarmene. Karim aveva delle conoscenze in un Centro Culturale nella città di Mbur, che mi invitò a trascorrere un periodo di residenza artistica. Karim ha creduto in me e mi ha guidato fino a Gorée, l’isola degli schiavi, il punto dell’Africa da cui, all’epoca della tratta, salpavano le navi negriere cariche di corpi umani comprati al mercato verso le piantagioni in America. Karim mi ripeteva instancabilmente che dovevo conoscere le mie radici per riacquistare la mia forza spirituale e ritrovare una connessione con i miei antenati. Il viaggio in Africa mi ha fatto capire che io ero il frutto di quell’esodo e che c’era molto di più da scoprire: d’un tratto il vento di Goreè aveva soffiato via il mio turbamento, avevo una direzione. Da lì tornai in Italia determinato a prepararmi al mio secondo viaggio, nella mia terra d’origine, con l’intenzione di sondare il mondo dell’arte contemporanea dei Caraibi. Fui prima selezionato per una residenza alla Fabbrica del Vapore di Milano, dove conobbi la curatrice cubana Ana Maria Pedroso Guerrero, la quale mi aiutò a trovare i contatti a Santo Domingo per portare avanti il mio progetto. Anche il Consolato Dominicano di Milano mi ha supportato, mettendomi in contatto con uno scultore locale molto conosciuto di nome Jose Ignacio Morales (detto El Artistico) il quale ha apprezzato il mio lavoro e mi ha invitato a produrre un’opera site specific nel suo Hangar. 

Raziel Perin, Verja de Tamarindo, installation view MAD Firenze, Courtesy of Justin Randoph Thompson
Raziel Perin, Scarpe (2014), dettaglio
Raziel Perin, Discurso de Dagoberto (2020), Courtesy of Jemma Robin

SB: Mi parleresti del progetto che hai sviluppato alla Fundación Centro Cultural Altos de Chavón?

RP: Altos de Chavòn è uno dei luoghi più prestigiosi e incredibili della Repubblica Dominicana. Ho trascorso lì un mese di residenza artistica insieme alla mia compagna Chiara Principe. La Fondazione ha mostrato interesse verso il mio progetto di riconnessione con la mia terra d’origine fornendomi supporto per il mio viaggio di ricerca sulla cultura dominicana.

Ho passato il mese di aprile 2018 a seguire le celebrazioni del carnevale dominicano, viaggiando in lungo e in largo nell’isola, conoscendo artisti, scrittori, poeti, gallerie e fondazioni d’arte, e i principali esponenti del folklore dominicano nonché difensori della cultura popolare e delle pratiche religiose afrodiasporiche, e del patrimonio culturale che viene costantemente attaccato e demonizzato da una fascia della popolazione che rifiuta categoricamente quella parte dell’eredità dominicana. La Fundaciòn Cofradia riunisce tutti i maggiori esponenti di questo progetto di valorizzazione e tutela delle comunità, che portano avanti la tradizione: tra di loro vi sono il fondatore Roldan Marmol, il fotografo Mariano Hernandez e lo scrittore antropologo Dagoberto Tejeda. Con quest’ultimo ho avuto un dialogo molto intenso sul marronage e le pratiche di resistenza e ibridazione tra africani nostri antenati nelle piantagioni e su come questa eredità – ricevuta indirettamente dalla mia famiglia – si ripresentasse nella mia pratica artistica. Al termine del mese, ho lavorato alla mia opera site-specific presso lo studio dello scultore Josè Ignacio, affiancato da un team di artigiani specializzati. Ho così realizzato una struttura di ferro con il tetto di lamiera decorato con i simboli del mio linguaggio del taccuino, uno shelter pensato per riparare dalla pioggia e far ascoltare il rumore ipnotico dello scrosciare dell’acqua sulla lamiera di zinco, uno dei ricordi che associo alla mia infanzia nelle “favelas” dominicane.

SB: Nella mostra A Tale of Tamarindo | Recovery Paln al MA*GA c’era una piccola scultura con una penna USB integrata e un sonoro. In che modo questo lavoro rilegge il marronage e l’allontanamento degli schiavi dalle piantagioni?

RP: Entrando nella mia mostra al Ma*Ga ci si trovava dentro uno spazio buio con piccole luci direzionate sui singoli lavori, il sonoro proveniva dallo speaker inserito nella scultura di tamarindo che ho intitolato Discurso de Dagoberto Tejeda sobre afrodescendencia dominicana, resistencia y mi madre. Non si capiva facilmente da dove provenisse la voce, né che cosa dicesse, perché si avvertiva come un mugugnare; questa cosa la collego al modo in cui gli schiavi nelle piantagioni, si scambiavano informazioni, cantando e storpiando parole per non farsi comprendere. Il dialogo che avevo avuto nell’ufficio di Dago nel dipartimento di arti visive dell’università Autonoma  (UASD) di Santo Domingo, mi aveva profondamente segnato, era come se l’highlight del mio viaggio fosse questo messaggio che il professore aveva per me. Mi disse che in Italia, avevo assimilato una visione eurocentrica del mondo e che le cose che sapevo provenissero da libri scritti dai vincitori/oppressori con una visione eurocentrica cristiana. Mi regalò uno dei suoi libri di ricerca fatta sul campo sulla storia dominicana e sulla cosmovisione delle religioni afrodiasporiche.

Inoltre per la prima volta in vita mia, incontrai in lui qualcuno in grado di decodificare in modo totalmente diverso il mio lavoro, per esempio quando gli ho mostrato le fotografie degli altari di mia madre lui fu in grado di spiegarmi il linguaggio che c’era dietro ogni elemento utilizzato. Questo mi ha portato a conservare la nostra conversazione come un materiale prezioso. La scultura di tamarindo con una forma antropomorfa teneva fra le braccia una memoria usb, il cui materiale contenuto sono disegni, video e altre registrazioni raccolte in diversi periodi di ricerca, sul tema della spiritualità afrocaraibica e il voodoo.

SB: In Verja, columna (2020) simbolica voodoo e dettagli architettonici si fondono in una installazione in ferro battuto, corredata dall’elemento fuoco. In che modo stai articolando un alfabeto di simboli, qui presente in parte? C’è una relazione tra la tua personalizzazione di questi simboli e il sincretismo vodoo a Santo Domingo?

RP: L’invenzione di simboli è avvenuto in modo naturale e graduale nel corso di 10 anni.
I miei taccuini raccoglievano i miei appunti che divenivano, man mano pensieri sempre più elaborati, motivo per il quale spesso me li caricavo nello zaino e viaggiavo appesantito dal volume di questi oggetti. —Ogni simbolo concentra nel suo significato intere parti del taccuino, e mi permette di abbandonarli fisicamente rimanendo sempre connesso con il loro contenuto. Alcuni simboli mi sono apparsi in sogno, altri mentre praticavo yoga si sono fatti spazio nella mia mente come un linguaggio profondo e silenzioso.
Quando mi sono messo a studiare il voodoo haitiano, ho visto nei Veve (diagrammi di simboli fatti con la farina sul pavimento), un incontro con le inferriate in stile Vittoriano molto diffuse nei Caraibi. Si è attivato in me un processo di appropriazione di entrambe le cose, nel quale ho preso il Veve gli ho tolto i suoi simboli e gli ho messo i miei e l’ho trasformato in una struttura in ferro battuto ricollegandolo in quel luogo urbano della società dei caraibi che è ancora fortemente condizionato dalla mentalità coloniale. Ogni simbolo è come se fosse un frammento del mio percorso nel mondo, e attiva una protezione spirituale nel dialogo costante fra l’interiorità e il mondo esterno. Il simbolo attiva una memoria legata al suo significato, ti ricorda di accettare la tua fragilità e di respirare, attivare i tuoi sensi etc etc.

" Il mio lavoro mi ha aiutato a riempire il gap tra i due contesti in cui si è formata la mia persona e a conciliare i miei due lati in conflitto.
Nel mio lavoro ambisco a far si che un’opera avvenga come un momento di  trasformazione profonda e di sintesi di tutto ciò che mi è avvenuto prima."
Raziel Perin, Corpi organici, studio shot, Courtesy of Fabiano Caputo
Raziel Perin, Shelter in progress (2018), Courtesy of Chiara Principe
Studio shot, Courtesy of Fabiano Caputo

SB: In che modo il pantheon delle divinità si Santo Domingo è diverso da quello di Haiti e di Cuba?

RP: Dire Patheon fa capire di cosa si parla, ma il termine proviene dalla Grecia antica per definire i loro dei, a S.D. si parla di Divisioni, e capire tutte le diramazioni di questo mondo spirituale è veramente difficile. Non esistono testi affidabili nel quale vengono spiegate, perché si tratta di tradizioni tramandate oralmente, e con sistemi totalmente diversi da quello cristiano o mussulmano o ebraico. Le religioni afrodiasporiche sono nate all’interno delle comunità di schiavi delle piantagioni, e dentro queste comunità c’erano persone disparate provenienti da diverse parti del continente africano, ciascuno con le proprie credenze. Il voodoo non è una sola cosa, ma è un intelligente complesso sincretismo di cosmovisioni africane che per sopravvivere ha eluso il divieto imposto  dall’oppressore bianco cristiano assimilando anche la Bibbia e, anzi usando la cristianità come facciata: dato che non avevano altra scelta, la cristianità diveniva una copertura. Lo stesso sincretismo avveniva anche nelle piantagioni di Santo Domingo e delle altre isole dei caraibi e del sud america e la cosa che ho notato, investigando sul campo, è che ogni comunità, ogni famiglia, ogni singolo individuo, ha una propria forma ed una propria rilettura delle pratiche come un telefono senza fili in un il culto si trasforma, ed è forse questa la principale e più affascinante caratteristica di queste forme di religiosità: la capacità di rimanere aperte e evolvere ed assimilare altre filosofie di pensiero e altre pratiche. Non c’è da soprendersi se in un altare voodoo dominicano si trovano vignette di Shiva o di Buddha.

SB: Alcune tue installazioni e sculture includono la manioca. Che significato ha per te questa pianta?

RP: Ho iniziato a lavorare con la manioca dal 2017. Desideravo uscire dalla dimensione del taccuino, e portare il disegno sempre più verso la scultura, modellare corpi fisici come veicolo per raccontare e dare forma al mio immaginario. Ho iniziato ad intagliare dei tuberi che avevo in casa, pensando alle storie mitologiche di Memorias del fuego e alla visione primordiale di Roberto Calasso nel suo libro Il cacciatore Celeste. Trovai da subito interessante lavorare con dei materiali inaspettati, naturali, vivi, che mutassero nel tempo e che fossero direttamente connessi con la mia storia personale. La manioca ogni volta che la sbucci prende una forma antropomorfa, ed è intrisa di storie mitologiche: nativi della mia terra i Tainos adoravano la manioca come una divinità, il Dio del bene si chiamava Yucahù e quello del male Juracàn. In molte culture shamaniche durante rituali di guarigione si usa assemblare dei banchetti creati per sfamare le divinità oppure per attirare entità malefiche dentro i feticci organici e al termine delle cerimonie i presenti o lo sciamano si cibano di queste oppure vengono distrutte o gettate lontano.

SB: Tra i tuoi primi lavori ce n’è uno in cui una colonna di taccuini è installata vicino ad un asse da stiro e ad una tela accartocciata. Come si intitola questo lavoro, ma soprattutto è importante o meno dare un titolo alle opere, cioè quali sono le tue riflessioni rispetto a questa convenzione?

RP: La caratteristica che ritorna in tutte le mie prime installazioni è la presenza dei miei taccuini come elemento attivatore, un po’ come funziona la penna USB nella scultura di tamarindo dedicata a Dagoberto: il taccuino da un’identità, una memoria, una contestualizzazione al lavoro. Quell’installazione è un autoritratto familiare in cui ci siamo mio padre, mia madre e io in un rapporto di altezza e di ruoli sociali. La tela accartocciata e la sbarra con lo zaino rappresenta la virilità tossica e la fragilità del papà e il ferro da stiro è interposto fra me e mio padre come protezione ed intermediazione. È vero, per me non ha importanza dare un titolo alle opere, lo faccio per convenzione, ma non sento il bisogno che rimanga invariato, spesso lo cambio. Da artista penso che l’arte contemporanea sia questione di ridefinirsi continuamente e, finché ne ho la possibilità, voglio apportare alle opere gli stessi cambiamenti che avvengono dentro di me.

SB: Hai fritto alcuni tuoi disegni in olio di girasole. Come sei giunto a questa soluzione formale?

RP: Ho fritto i miei disegni nell’olio d girasole contenente semi di Achiote, che sono dei semi usati nella gastronomia latinoamericana per pigmentare il cibo di un colore giallo intenso, arancione o rosso. Cosi come con le sculture organiche queste idee mi vengono suggerite dall’insieme delle cose che vedo e che vivo quotidianamente e dal desiderio di esprimere al massimo ciò che sono. Ho lavorato alla pigmentazione dei miei disegni con quell’olio sperimentando e vedendo cosa succedeva. Un anno di sperimentazione mi ha portato a riconoscere questa tecnica come un modo di conferire loro la mia identità.
Il mio lavoro ha un legame forte con la dimensione della cucina caraibica, che conosco perché mi è stata trasmesso da mia madre. Questo bagaglio di conoscenza è una sorta di archivio portatore dell’afrodiscendenza in cui sono inserito, un’afrodiscendenza che non è diretta Italia-Africa, ma che ha transitato nelle isole dei Caraibi nel corso della storia. Nel presente, in Italia, con la mia opera mi avvalgo di questa eredità per attuare una rilettura e per vedere come si rivela e si riattiva in me e negli altri.

Mercato degli schiavi dell’isola Goreè, Senegal
Cerimonia di Voodoo dominicano
Raziel Perin, Disegno fritto (2020), Courtesy of the artist
Raziel Perin, Verja Columna, 2020, ferro e candele, Courtesy of the artist
Raziel Perin, Ritratto di Santa Marta la Dominadora (2018), Courtesy of the artist
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