In occasione della sua mostra Polyphōnia – ospitata fino al 5 settembre al Tempio di Pomona di Salerno, a cura di Stefania Zuliani – Pino Musi è stato intervistato da Mauro Zanchi
Mauro Zanchi: La tua indagine si è rivolta al limite estremo dell’espansione urbana, verso gli svincoli delle superstrade di Parigi, Anversa, Berlino e di alcune città italiane. Cosa hai reso visibile perlustrando quelle parti dei territori dove si espandono grandi cantieri ed è in atto la costruzione di nuovi agglomerati abitativi, per la maggior parte ancora privi di vita familiare?
Pino Musi: Il tema dei “bordi” è stato determinante in questa mia ricerca. Per quel che riguarda gli spazi estremi delle metropoli non faccio riferimento a una generica periferia, ma piuttosto a un limite che è a ridosso dei “vuoti” dei grandi snodi delle superstrade, sul quale si sta moltiplicando la costruzione di cellule abitative. Ho deciso di muovermi negli interstizi di questi agglomerati seriali, asettici, che sfuggono allo stereotipo della periferia fatiscente, ma in cui si è abbandonata ogni utopia di progetto di vita come occasione di incontro e di confronto umano, trattenendo nelle inquadrature le barriere, gli ostacoli e adottando una visione mai aperta a ciò che si estende “oltre”, verso l’orizzonte. Mi è sembrato interessante che l’umore di quei luoghi e gli enigmi di quei volumi, potessero essere tradotti attraverso griglie visive appartenenti al frutto del perseverare del mio sguardo sul mondo. La prerogativa è stata, però, quella di evitare che il loro utilizzo diventasse condizione di esercizio scolastico pericolosamente replicabile, che subisse l’ordine precostituito che ogni griglia trattiene di default. Attraverso le inquadrature ho provato a sperimentare intrecci, relazioni inattese, continuando a riflettere sui tessuti associativi tramite i quali si organizzano le immagini del serbatoio dell’immaginario e le strutture entro le quali esse si lasciano cogliere. Per me la bellezza dell’atto fotografico equivale alla bellezza di un esprit de géométrie da rigenerare costantemente.
Penso che, osservando le immagini contenute nella mostra Polyphōnia, ciò che si produce è soprattutto una risonanza d’insieme. Tanto più se gli elementi interni seguono dei ritmi, delle corrispondenze musicali. In tal caso percezione e immagine si fondono in una relazione armonica. Dove per “armonica” non intendo pacificante, perché questo dialogo potrebbe anche rivelarsi generatore di conflitti, pur sempre dentro una ritmologia vibrante. Quello che mi ha intrigato durante i due anni di lavoro al progetto, prima in parte confluito nel volume Border Soundscapes, edito da Artphilein Editions, poi definito nella successiva mostra al Tempio di Pomona a Salerno, è stato restare all’ascolto di luoghi che non hanno ancora imparato a parlare, attendendo che una frequenza emergesse dal fuori campo per perforare l’ordine dello spazio. Col risultato di produrre un diverso sistema di suoni sintetici e concreti, che attraversasse le immagini e che, alla fine, non lasciasse orbita di fuga, nessuna via di scampo. Quelle immagini, senza eco e senza riverbero, hanno impedito la costruzione di una forma narrativa, evolvendo, invece, in un continuum a più voci, in un flusso di forme “astrattamente analitiche”, per usare le parole della curatrice Stefania Zuliani.
MZ: Cosa fai vedere o sentire con questa ricerca fotografica? Cosa “accentui attraverso istanti di rischio” (Didi-Huberman)?
PM: Didi-Huberman, in Testi d’aria e di pietra, ci ricorda che, quando si costruisce un testo o un’immagine, un’opera, la verità non va detta sempre, ma va “accentuata”, “illuminata di sfuggita, in maniera lacunosa, attraverso istanti di rischio”.Nel caso di Polyphōnia, ogni immagine rafforza e intensifica l’altra, la accentua, appunto, non attraverso il meccanismo prevedibile della sequenza narrativa, ma prendendo “istanti di rischio” fatti di pause, ellissi, continui rimandi al fuori campo. Di ciò che non viene mostrato resta traccia nell’accordo sonoro, ogni volta diverso, di ciascuna immagine, creando uno spostamento dell’accento ritmico sulle zone di transizione, su “bordi” altri, quelli non riferiti ai luoghi estremi delle città, ma agli spartiacque, ai punti di confine del frame.
MZ: Come hai pensato e successivamente costruito l’installazione Polyphōnia, sui muri del Tempio di Pomona a Salerno?
PM: Oggi la fotografia che mi interessa è quella che, dopo aver fatto i conti col suo “dentro”, comincia a fare i conti col suo “intorno”. Una fotografia inquieta, che non trova l’alibi per attestarsi nella comfort zone del suo riquadro, ma che è sempre disposta a rimettersi in gioco nel dialogo con gli spazi di fruizione, a ripensare il suo ritmo. Un oggetto mobile, che si ridefinisce nello spazio, pur mantenendo una matrice stabile. Quando ho accettato dall’Amministrazione Comunale di Salerno, col supporto fondamentale della Regione Campania e di Scabec, di esporre nella mia città natale, ho pensato subito a quale potesse essere il luogo adatto ad accogliere la lunga partitura delle sessanta immagini che compongono Polyphōnia, attestando la mia scelta sulTempio di Pomona, un ampio interno con, ai lati, due lunghe pareti lineari di circa trenta metri ciascuna, attraversato da un possente colonnato corinzio. Il sinuoso flusso della partitura visiva e il formato delle singole “notazioni” fotografiche si dimensiona perfettamente alla lunghezza delle pareti e le colonne permettono di traguardare differenti blocchi di immagini, lasciando al fruitore la più ampia libertà di movimento. Nello stesso tempo lo spazio espositivo invoglia a continui spostamenti: si è portati a un avvicinamento serrato al corpo tattile delle singole opere, a un allontanamento che permette di avere il colpo d’occhio d’insieme e a ritagliarsi, attraverso le colonne, sezioni privilegiate. Ogni notazione fotografica di Polyphōnia è priva di orpelli, la superficie e i tagli sono “al vivo”. Rifiuta ogni filtro protettivo, ogni cornice. Si porge allo spettatore nella materia nuda di cui sono composte le immagini, accettando solo di staccarsi dalla parete, di sbalzare in avanti. Per meglio “notarsi”.
MZ: Proviamo a entrare più in profondità nella materia che vibra nelle tue fotografie in bianco e nero. Quale è il processo che metti in azione – dallo sguardo sul paesaggio, alla traduzione in forma di ciò che vedi, fino alla stampa delle fotografie e del libro – per ottenere quel determinato rapporto tra visione e segno, dove le forme architettoniche permangono sulla soglia di una apparente ripetizione, che in realtà è sempre diversa?
PM: Quando fotografo, non riesco più a pensare e a leggere il paesaggio come porzione di territorio con una sua identità specifica, ma come luogo di risonanze, appunto, che si intrecciano nel mio immaginario e a cui cerco di dare forma. Rainer Maria Rilke scriveva che “la musica è paesaggio udibile”, sollecitazione che intende far interagire contemporaneamente più sensi. Il paesaggio mi si rivela attraverso una stimolazione random e prende forma fotografica quando traiettorie di suoni e immagini diventano intersecabili fra loro. Per esempio, il progetto di Border Soundscapes ha preso slancio iniziale mentre ascoltavo una serie di dischi in vinile contenuti in un cofanetto, arrivando in forma di libro quasi nella stessa dimensione e nello stesso spessore di quel contenitore originario: 32.8 x 32.8 cm., 1.4 cm. di costa. Composta nel 1983, String Quartet II (God Records, 2018) è un’opera di Morton Feldman, realizzata nel momento della massima maturità di questo artista. Figura di spicco della New York School, che comprende John Cage, Christian Wolff, Earle Brown ed altri, Feldman si è distinto attraverso un corpus compositivo non facile da catalogare, implacabilmente radicale, che ha posto basi fondamentali nello sviluppo della sperimentazione della “Indeterminate Music”. String Quartet II mi è sembrata un’opera contrassegnata da alcune valenze portanti come durata, paradosso, costrizione, sottigliezza e una sfida all’udito e alla mente, laddove la percezione dell’interazione del flusso seriale con alcuni sottesi, delicati slittamenti, si è rivelata, per me, determinante. Ho pensato che quegli elementi della composizione sonora potessero trovare riscontro nella mia interpretazione visiva degli spazi delle aree periurbane. Allora ho deciso di muovermi lungo un tragitto tangente ai grandi snodiperiferici, con procedere lento e ostinato (la durata), nella speranza, spesso disattesa, di uno stato d’inquietudine dello sguardo. Addentrandomi nelle zone interstiziali di cellule abitative prive di genius loci e di respiro di vita (il paradosso), stretto fra quinte di pareti mute e finestre senza trasparenza (la costrizione), ho dato immagine ai miei Border Soundscapes. Si dice che la fotografia sia sempre una questione di misura, di distanza presa con attenzione. Per questo mio lavoro ho cercato di prendere una distanza doppia: non solo quella riferita alla posizione del fotografo nello scenario, ma anche quella che permettesse di restare nel climax della composizione di Feldman. La luce indefinita, il tono alto, la “pasta” ambigua, fra fotografia e disegno, con cui volevo fosse realizzata la stampa finale del volume (la sottigliezza), avrebbe dovuto trasporre quella scrittura musicale in scrittura visiva; tutto l’oggetto libro, la copertina, il graphic design, avrebbero dovuto orientarsi verso questa concomitanza visivo-sonora.
MZ: Nella costruzione di una tua immagine, come orchestri elementi e moduli, superfici e griglie, pieni e vuoti, ombre e zone illuminate?
PM: Con l’avvento del digitale, mi è parso importante sperimentare espressioni compatibili a nuove ricerche, modalità che non tentassero di emulare la fluidità della fotografia analogica (a cui resto comunque legato per lunga frequentazione), che non scimmiottassero quella particolare “carne” e che non adottassero scorciatoie di comodo solo per evitare l’impervia lunghezza di un processo in divenire. In questa nuova direzione, allo svelamento dell’immagine derivante dalla chimica, alla magia della camera oscura, ho preferito un’azione cosciente di pianificazione e di mirata manipolazione dell’impianto visivo, che apportasse, però, una certa tensione destabilizzante. Da questa premessa sono nati lavori come Ipotesi (on Terragni), Facecity scroll, Border Soundscapes e Polyphōnia. In ognuno di questi lavori ho svolto un protocollo che non si distaccasse da un preciso input concettuale e argomentale, ma che, in uno stadio successivo, mi permettesse ibridazioni e sottili stravolgimenti, attraverso tecniche di post-produzione e di stampa messe a punto da me nel corso degli anni. Entrando un attimo nel merito, alle partizioni delle mie immagini originali in bianconero assegno valori diversi, alterando la consistenza di luce e ombra, il dettaglio, i passaggi di grigio. Ciò crea una prima sensazione di squilibrio. Nella stampa in esatone a getto d’inchiostro, poi, l’opera finale viene ridefinita in un unicum, in cui il gioco ambiguo fra fotografia e disegno, fra tattilità tridimensionale e apparenza bidimensionale, tende ulteriormente a mischiare le carte della percezione. Le immagini, pur conservando elementi di riconoscibilità del mondo reale, ne escono in punta di piedi, orientando lo sguardo del fruitore verso l’ambigua e ipnotica materia intrinseca e di superficie, dove non si ha più necessità di riconoscere tempo e luogo.
MZ: Quali fattori tieni in considerazione per legare una fotografia a un’altra nella sequenza che preimmagini nel momento delle riprese? Per spiegarmi meglio riprendo una analogia legata al ritmo musicale: hai già in mente a priori il ritmo e il tempo che poi si ritrova nelle tue immagini e soprattutto nella sequenza delle fotografie nei libri che costruisci con grande meticolosità?
PM: Per rispondere a questa tua interessante questione, porto l’esempio di Facecity scroll, segmento originario del mio rapporto con la scrittura musicale, che poi si è evoluto dapprima in Border Soundscapes e poi in Polyphōnia. Quell’opera fu prodotta su incarico della Biennale Architettura di Venezia e presentata al Padiglione Centrale dei Giardini nell’edizione del 2012. Ancorandosi al tema della condivisione, voluto dal curatore David Chipperfield, il critico e storico dell’architettura Fulvio Irace mi propose di riflettere sulla cosiddetta “architettura tipografica”, definizione utilizzata da Giò Ponti per rendere il pensiero progettuale di un gruppo di architetti, fra cui Caccia Dominioni, Asnago – Vender, Latis e vari altri, che, nella Milano degli anni ’50 e ’60, ebbe come matrice comune l’idea di articolare, come in un sistema di griglie grafiche, il disegno delle facciate dei palazzi. Dopo essermi informato sulla peculiarità del loro modus operandi, decisi di lavorare a un’opera che omaggiasse la visione condivisa di quel gruppo straordinario e, al contempo, proponesse una nuova griglia, dilatata, dove gli elementi caratterizzanti l’architettura si rigenerassero in un inatteso esploso di segni. Quindi dapprima progettai e disegnai uno score, qualcosa che avesse a che fare con le composizioni di “grafismo musicale” ideate da figure poliedriche come Sylvano Bussotti, utilizzando i bozzetti delle facciate che avevo selezionato, per poi dedicarmi alle prese fotografiche vere e proprie, stando rigorosamente frontale rispetto ai soggetti architettonici e, dove possibile, mantenendo una distanza fissa. Sottoposi successivamente le immagini a un ”restauro” visivo, non imbellettante e gratuitamente formale, ma che rafforzasse il carattere del disegno primario sottraendo ogni orpello inutile. La struttura finale di Facecity fu un lungo scroll orizzontale di formato 91 x 1450 cm., con 21 immagini foto-grafiche di facciate di palazzi milanesi, dalle geometrie assonanti e dissonanti, giuntate fra loro in un complesso motivo di raccordi.–
Mostra programmata e finanziata dalla Regione Campania, realizzata e promossa da Scabec S.p.A., con il supporto del Comune di Salerno, dell’Arcidiocesi di Salerno, Campagna, Acerno e dell’Università degli Studi di Salerno – Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale