Con un titolo Sàlvati Salvàti, Jacopo Benassi presenta alla galleria Francesca Minini una nuova serie di lavori che spaziano – in maniera indisciplinata – dalla scultura alla fotografia, dall’installazione alla performance. L’artista spezino, nella lunga intervista che segue, ci racconta come è nato questo ambizioso progetto che parte dalla costruzione di una ‘barricata’ che diventa il manifesto del suo essere ‘contro’, del suo essere non allineato. Cresciuto negli ambienti underground italiani, militante e fondatore di luoghi alternativi, Benassi ha da sempre espresso una maniacale volontà di mostrare il lato più profondo e oscuro delle persone, dei luoghi e delle situazione che ha sempre vissuto in prima persona. Che sia nell’intimità della sua camera da letto o sopra un palco, che sia in una cantina adibita a sala prove o un luoghi istituzionale come un museo, Benassi ha sempre esibito una forte e, al tempo stesso, fragile umanità. Un po’ come le sue installazioni, tenute assieme da strette cinghie che tengono assieme fotografie, cornici, assi di legno e vetro.
Durante il periodo della mostra, dal 18 settembre al 9 novembre 2024, si alternano una serie di performance: 17 settemebre (opening): yes no war, Jacopo Benassi + Khan of Finland – 3 ottobre: Brutal Casual, Jacopo Benassi + Lady Maru – 23 ottobre: SASSI, Jacopo Benassi + Luciano Chessa + Marco Mazzoni – 6 novembre: INNO, Jacopo Benassi + Lamante e Michele Lombardelli.
Seguono le rivelazioni di Jacopo Benassi —
Elena Bordignon: Ciao Jacopo, dove sei?
Jacopo Benassi: Sono in uno studio di registrazione in zona Wagner-De Angeli a Milano. Un amico carissimo, con cui ho collaborato tanti anni per registrazioni e copertine di dischi, mi ha dato la possibilità di registrare un pezzo assieme a Lamante. Ho scritto un testo, degli slogan da diffondere nello spazio della ‘barricata’ per la mostra Salvati Salvati. E’ una sorta di canto popolare. La prima idea era quella di far venire delle mondine, poi non siamo riusciti a coinvolgerle. Abbiamo pensato a dei cori.. l’idea era quella di fare un canto popolare di lotta.
EB: Salvati, Salvati. Che senso hai dato a questo titolo?
JB: Il titolo non fa riferito a niente di particolare. Non ho pensato ai conflitti bellici in giro per il mondo. Il riferimento è sia al mondo attuale, sicuramente ‘dannato’, ma ciò a cui mi riferisco è più alla consapevolezza che non c’è più una contro-cultura. Io provengo da quell’humus, dalla contro-cultura. Mi manca questo mondo ‘in opposizione’. Sàlvati Salvàti è una sorta di proclamo; l’arte mi salva, mi ha salvato. Il mondo culturale o contro-culturale in cui sono sempre vissuto mi ha salvato. Forse starei molto peggio al di fuori da esso. Ecco che Sàlvati Salvàti, è uno spazio ideale, un mondo dietro alla barricata che non può neanche essere polemico nei confronti di chi fa delle lotte. E’ contro tutto quello che è omologato in maniera superficiale e incosciente. Penso a tanta parte del cinema e della musica contemporanea, ma anche alle piattaforme tipo Netflix; ma anche l’uso e abuso dei cellulari (che per altro uso!). Mi riferisco a tutto ciò che è, inevitabilmente, diventato appannaggio del puro consumo. Sì, mi riferisco alla società consumistica. Penso anche al turismo, onnivoro e occasionale. Ecco, ho avuto la sensazione che questo mondo mi abbia preso alla sprovvista. Ho fatto i conti tra la mia esperienza artistica, come è evoluta nel tempo, gli obbiettivi che ho raggiunto, in relazione ai cambianti che ho avuto la realtà contemporanea. Penso che questa mostra sia da considerare un momento di rottura per capire cosa vogliamo, cosa facciamo. Finché sono in studio sto bene.
Con questa mostra non voglio dare messaggio politico, è più un messaggio etico, o anti-etico, dipende da come lo si percepisce. E’ ‘tutto contro’, anche contro me stesso. Le spine fanno da padrone, ci proteggono ma fanno anche male, così come le bandiere, fuori della barricata, hanno due chele di aragosta, di astice. E’ stata una scelta ironica, ho scelto degli animali che non vengono presi molto in considerazione. C’è anche una farfalla in mostra, che è da considerare come un autoritratto.
EB: C’è un filo conduttore che lega tutti questi elementi? Cosa li tiene uniti?
JB: No, non c’è un filo conduttore. I lavori rispecchiamo più che altro il mio mondo. C’è una serie di quadri coperti; da sottolineare che io non sono un pittore, ma per la verità non sono neanche sculture, anche se in mostra c’è anche una serie di sculture. I dipinti rappresentano paesaggi infuochi, un mondo che brucia, che si consuma.
EB: Quando parli della barricata, in realtà viene da pensare a una tana che ti protegge; un luogo dove conservi e raduni parti del tuo mondo immaginario. Non la consideri un po’ una tana?
Sì, hai ragione. Penso anche a un’arca, una cosa che ci protegge. In effetti la barricata di cui parlo, crea uno spazio in cui isto bene e dove posso dar voce a tutto il mio mondo. Per molti versi è come se avessi voluto ricreare il mio studio dove accadono delle cose e dove posso dar vita a delle cose in totale armonia con i miei lavori, ma non solo, anche coinvolgendo chi frequenta il luogo dove lavoro. Ecco che, grazie al mio studio-barricata mi salvo e ci salviamo a vicenda. Spero che sia una salvezza, perché raccontato così sembra una vera utopia.
EB: E’ anche una forma di resistenza questo spazio che crei.
JB: Per molto versi è anche da pensare ad una resistenza verso il mercato.
EB: Dentro ad una galleria non suona un po’ paradossale?
JB: Sì, mi rendo conto che suona un po’ strano. Non posso in effetti dire questa cosa. Ma devo anche dire che mentre si fanno le mostre c’è una gran parte di inconsapevolezza che può anche non piacere, che può andare male! Non c’è la certezza che vada sempre bene ciò che proponi.
EB: Seguendo il tuo lavoro da molto tempo, c’è un aspetto della tua ricerca, ma non solo anche dello stile, dei soggetti, dei contenuti che affronti e delle atmosfere che crei, che sono molto coerenti. Nel senso che non ti sei mai tradito o realmente trasformato, non ti sei mai piegato ai gusti o alle tendenze del mercato. Mi sbaglio?
JB: Per un periodo forse mi sono adeguato, ma alla fine ho pensato, che alla fine mi sbagliavo. Ho preso consapevolezza che dovevo perfezionare l’imperfezione. Ho capito che l’imperfezione è la mia strada, è quello che sono io. Il mio lavoro non è bello o brutto. Lo devi sentire nella pelle, nel sangue. E’ come non sentirsi bene, sentirsi la febbre. Penso che tutti gli artisti alla fine ‘sentano’ il proprio lavoro così. Nel senso che non scendono mai troppo a compromessi. A volte sono spaventato.
EB: Cosa ti spaventa?
JB: Percepire che quello che faccio piace o comincia a piacere. Questa cosa mi spaventa. Il fatto che quello che faccio trova riscontro mi preoccupa. Non vorrei rovinare tutto. Se piace troppo mi spavento e cerco di rovinarlo un po’. E’ come se volessi mettere alla prova chi lo guarda… A volte sento la pressione del mercato, dei galleristi. Certo è una pressione bella, che da soddisfazioni. Amo quello che faccio e probabilmente, quando inizierò a lavorare solo per il mercato, immagino che sarà uno schifo totale. A volte faccio delle cose molto rischiose, ad esempio nella mostra alla GAM di Torino, una serie di fotografie non si vedevano per niente. E’ una scelta rischiosa. A volte penso che certe scelte le faccio unicamente per rompere un po’ il cazzo.
EB: Torniamo dunque a Sàlvati Salvàti, che suona come un monito per salvarti e salvarci attraverso quello che fai. Mi raccontavi che volevi fare una mostra con le opere di tutti i tuoi amici.
JB: Sì, la prima idea che era proprio quella: di fare una mostra con le opere di tutti i miei amici. Come se fosse un’arca. Alla fine non ce l’ho fatta: qualcuno non voleva, altri non potevano, altri si sarebbero offesi… E’ un progetto che farò in futuro, porterò tutte le persone che amo, artisti bravi o meno bravi, tutti dentro ad un arca per salvarli e salvarci. Non da intendersi con un messaggio ‘divino’ o profetico come se avessi il potere di salvare qualcuno. E’ più frutto di una necessità, della volontà di creare una dimora, un caos per esprimere cosa sono in questo momento. Per molto versi anche con questa mostra dalla Minini do voce a cosa sono in questo momento, do espressione al caos che mi salva.
EB: Nel periodo della mostra ci sono una serie di appuntamenti. Il 23 Ottobre ci sarà la performance SASSI con Luciano Chessa e Marco Mazzoni. Di cosa si tratta?
JB: SASSI è una nuova collaborazione nata dall’incontro con Chessa. La prima volta che abbiamo collaborato è stato al B-tomic, il locale di cui sono stato il fondatore a La Spezia. Compositore e pianista italiano, tra i massimi esperti di musica futurista, ha avuto, nella sua carriera importanti collaborazioni anche in ambito artistico, penso alla mostra che ha curato Germano Celant sul suono per la Fondazione Prada a Venezia. Dopo le performance al Btomic, ci siamo lasciati promettendoci nuove collaborazioni. Ha visto una mia recente performance da B.r.u.n.o a Venezia e da lì l’idea di collaborare a un nuovo progetto, per l’appunto, SASSI che porteremo in giro. La performance consiste nell’urlarci delle parole ‘addosso’ come se stessimo giocando a morra. C’è un intro, dove io, da non musicista (non so suonare!) entro nel suo mondo, quella della musica. Lui esce dal mondo della musica facendo rumore, mentre io, che faccio rumore, voglio entrare nel mondo della musica traducendo il rumore in musica. Da questo contrasto nasce la performance che consiste non solo in suoni-rumori, ma che si basa molto sulle parole che ci lanciamo come, appunto, sassi. Le nostre saranno delle vere e proprie sassate. Per le parole probabilmente useremo dei testi di Massimo Minini. Mi sono innamorato dei nomi delle persone del paese dove è nato sul lago di Iseo (mi sembra). L’ispirazione per le parole, dunque, parte dai testi di Minini. Poi ci sarà la performance del 6 novembre, INNO, dove ho coinvolto Lamante e Michele Lombardelli.
EB: Oltre alla mostra dalla Francesca Minini, a quali progetti stai lavorando?
JB: A ottobre sto pensando di fare qualcosa da Germi a Milano. Vorrei fare un progetto sulla luce. Non sarà una mostra, sarà una performance durante la quale qualcuno suona, improvvisando, mentre io organizzerò la luce nello spazio. Di recente ho comprato un mix luci e sto pensando ad una performance visuale con un’orchestrazione di luci. Questo progetto lo sento molto vicino al linguaggio fotografico; la fotografia è luce. Penso che metterò e toglierò dei flash, della luce strobo. La concepisco come fosse una mostra di fotografia solo per poche ore. Collaborerò per questo progetto con il gruppo Larsen di Torino, una formazione storica indipendente. Sto anche lavorando a un libro, edito da NERO magazine, in collaborazione con Giulia Cenci e con testi di Antonio Grulli.
EB: Per tornare alla barricata dalla galleria Minini, come vivrai questo spazio ‘salvifico’?
JB: E’ fondamentale farlo vivere. Sarò da solo, ma coinvolgerò anche altre persone, vorrei farlo vivere, condividendolo con più esperienze. In questa occasione c’è il ritorno nella mia ricerca della foto pura; ci sono tre foto a colori che non avevo mai fatto. O meglio, mi piace l’idea di questa sorta di ritorno al colore. La fotografia è padrona in questa mostra. Anche se sono sempre stato polemico sulla fotografia – faccio poche fotografie, alla fine! – penso che la fotografia sia comunque la protagonista in questo progetto. Mi sento fotografo nel profondo. Dalla ‘macchina’ esco pittore, scultore. Negli ultimi anni i miei lavori possono essere letti soprattutto come opere scultoree. Dietro a ogni installazione c’è un lavoro immenso con opere incorniciate, imballate; spesso intervengo sulla cornice, dipingendola o creando un’ulteriore cornice..
EB: In mostra, tra le sculture e le fotografia ci sono dei dipinti che ricordano vagamente le pennellate di Turner.
JB: E’ un degli artisti che amo di più in assoluto. Oltre che come artista anche come atteggiamento nei confronti dell’arte. Lo penso immerso nelle sue atmosfere. Mi riconoscono molto in questa sua forma assoluta di concepire la pittura.
EB: In merito alle sculture in mostra?
JB: Sono i calchi in cemento delle mie braccia che lanciano oggetti. Poi, immancabile, ci sono i calchi dei miei piedi nelle pantofole. Le ciabatte sono da sempre presenti nel mio lavoro. E’ presente anche un piede che non è il mio. Mi piaceva l’idea di immortalare il gesto di lanciare dei sassi. Da sottolineare che i calchi dei sassi sono di gesso, dunque del materiale estremamente fragile, innocuo. In pratica non spaccano niente.
EB: Come nella mostra Autoritratto criminale alla GAM di Torino, molte installazioni sono caratterizzate da cinghie in tensione che tengono assieme fotografie, quadri e pannelli.
JB: Per molti versi il mio lavoro potrebbe essere sintetizzato in due parole. Le cinghie creano forza e tensione e sostengono il lavoro. Le cinghie tengono insieme fotografie, legni e vetri. C’è forza e fragilità.
L’altra parola è, ovviamente, il caos. Concepisco il mio lavoro come ‘partigiano’: ripeto il mio è un messaggio etico, che va oltre alla forma, si annida nella sostanza o nella sua negazione.