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Intervista con Alessandro Calabrese | Premio Graziadei 2016

[nemus_slider id=”59219″] Da pochi giorni è stato reso noto il vincitore del Premio Graziadei 2016: il fotografo trentino Alessandro Calabrese (1983), con il progetto realizzato nel 2015, A failed Entertainment, selezionato dalla giuria composta Olivo Barbieri, Paola de Pietri, Marco Delogu, Francesco Graziadei e Walter Guadagnini. Calabrese ha presentato un progetto ispirato al romanzo Infinte […]

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Da pochi giorni è stato reso noto il vincitore del Premio Graziadei 2016: il fotografo trentino Alessandro Calabrese (1983), con il progetto realizzato nel 2015, A failed Entertainment, selezionato dalla giuria composta Olivo Barbieri, Paola de Pietri, Marco Delogu, Francesco Graziadei e Walter Guadagnini. Calabrese ha presentato un progetto ispirato al romanzo Infinte Jest di David Foster Wallace (A Failed entertainment era il titolo scelto in una prima stesura), che mette in relazione il concetto di autorialità nella produzione di fotografie con la sua controparte, ossia la proliferazione su larga scala di materiale visivo disponibile in rete.

Oltre al vincitore la giuria del Premio Graziadei ha assegnato tre menzioni speciali al lavoro di Martin Errichiello & Filippo Menichetti In quarta persona, a Sharon Ritossa con il suo progetto Foibe e a Anush Hamzehian & Vittorio Mortarotti per il lavoro Most were silent. Il premio Graziadei, che rinnova il suo appuntamento nell’ambito della XV edizione di Fotografia – Festival Internazionale di Roma, è giunto al suo quinto anno. Nato da un’idea di Graziadei Studio Legale per promuovere l’arte contemporanea ed in particolare la giovane fotografia italiana under 35.

Seguono alcune domande ad Alessandro Calabrese —

ATP: Mi introduci il progetto “A failed Entertainment” (2015), vincitore del Premio Graziadei 2016?

Alessandro Calabrese: Per prima cosa “A Failed Entertainment” è un titolo preso in prestito dallo scrittore David Foster Wallace. Il suo romanzo più celebre, Infinite Jest (1996), a sua volta preso in prestito da un frammento dell’Amleto di Shakespeare, originariamente si sarebbe dovuto chiamare in questo modo, poi per ovvi motivi commerciali l’editor pregò Wallace di ripensarci. Ho un debito molto grosso con tutta la sua produzione letteraria; lavorare su temi come i mezzi di comunicazione di massa e l’intrattenimento, la dipendenza e il fallimento, l’autorialità (che tra l’altro il programma di testo con cui scrivo mi sottolinea sempre con il rosso) e gli interrogativi/tentativi sul linguaggio, qualunque esso sia, è stata una scelta nata dallo studio di quasi tutto ciò che ha scritto. Concretamente, invece, il progetto è realizzato grazie all’utilizzo della funzione Ricerca Inversa delle Immagini presente in Google.
Quello che ho fatto è stato interrogare il motore di ricerca introducendo/“uploadando” immagini realizzate da me negli anni precedenti; mettere da parte quest’ultime e servirmi delle centinaia di fotografie presenti in rete, ipoteticamente/matematicamente, simili alle mie in accordo con l’algoritmo presente all’interno del software.
Tutto è iniziato nel 2012, quando per un piccolo esercizio sul mercato dell’arte durante i miei studi in NABA (Master in Photography and Visual Design) ho caricato all’interno di questa applicazione i 10 scatti più costosi della storia della fotografia per vedere quali fossero i loro corrispettivi web privi di autori. Mi ricordo ad esempio che caricando uno dei celebri ritratti di Thomas Ruff, quello con lo sfondo rosso, ottenevo da Google solo ritratti di persone cinesi con fondali rossi. Direi che in quel momento è iniziato tutto.

ATP: La tua ricerca mette in relazione il concetto di autorialità nella produzione di fotografie con la proliferazione su larga scala di materiale visivo disponibile in rete. Come metti in dialogo questi due aspetti?

AC: Mi piace pensare che il dialogo sia basato sul silenzio, nel senso che in questo lavoro ho messo a tacere un intero corpo di lavoro realizzato in maniera molto tradizionale, con la pellicola, durante le mie passeggiate per la città di Milano, negli ultimi tre anni, rinunciando così a tutte quelle scelte soggettive che normalmente rendono autore un fotografo (cosa fotografare/dove fotografare/quando fotografare/etc…). Tutto questo a favore di un processo che è stato invece basato sul caso e sull’oggettività. “A Failed Entertainment” si è fondamentalmente auto-generato una volta che ho inserito le mie immagini nel web, ha preso vita propria come in una serie infinita di frattali.
Sono consapevole del fatto che, nonostante il sacrificio totale delle mie fotografie “generatrici”, io abbia comunque dato nuovamente vita a qualcosa di visibile/stampabile/vendibile, quindi mi contraddico e la cosa mi sta bene. Questo lavoro è una dichiarazione di resa, dichiaro che mi è impossibile stare da parte e smettere di esprimermi. Anche per questo ho scelto quel titolo. L’alternativa sarebbe stato l’ascetismo.

ATP: Come controlli l’esito formale delle tue opere? Non temi che, in questa operazione ’sommatoria’, perdano di incisività iconografica?

AC: Lo controllo pochissimo, nel senso che mi sono fatto costruire un piccolo plug-in che interagisse con l’algoritmo di Google e che scegliesse per me un numero randomico (per quantità e qualità) di immagini del web. Certamente ho poi scelto di stamparle su supporti trasparenti, sovrapporle e scansirle fino ad ottenere quel buco nero al centro, presente in quasi ogni fotografia, che per me rappresenta la frustrazione che mi/ci attanaglia ogni qualvolta navighiamo in rete e vediamo migliaia di immagini, ma che è scaturito spontaneamente dal processo. Non era mia intenzione ottenerlo da principio. Mi piace incedere seguendo un’attitudine quasi scientifica. Quindi le uniche scelte che ho effettuato sono state quelle di decidere quali foto uplodare e quali scansioni far rientrare nella scelta finale che compone l’intero corpo di lavoro (ad oggi 21 immagini in totale su più di un centinaio realizzate). In ultimo luogo, ovviamente, come tradurle in fase di produzione, dove invece nulla è lasciato al caso. Riguardo l’incisività iconografica, le immagini singole che vanno a comporre l’opera credo la perdano (per quanto queste siano importanti o meno, per me non lo sono affatto ad esempio), mentre l’opera finale stessa credo abbia la sua incisività iconografica proprio perché deturpata e poco decifrabile, sono icone tutt’altro che sacre.

ATP: La fotografia oggi non ha più come referente la realtà ma bensì l’immaginario mediato della rete. Quale è la tua opinione in merito?

AC: La mia opinione è che la fotografia oggi non ha come referente SOLO la realtà MA ANCHE la realtà mediata dalla rete. Quello che voglio dire è che quando mi trovo a riflettere su certi discorsi penso sempre ai problemi che avvolgevano la letteratura postmoderna ai suoi esordi. Gli scrittori realisti criticavano quelli postmoderni (che ancora non sapevano di esserlo tra l’altro) per la scelta degli argomenti e soprattutto per il fatto di attingere a mani basse dalla cultura pop che andava diffondendosi. Quello che i realisti non capivano però è che le autostrade del dopo guerra erano i fiumi di fine ottocento, così come il paesaggio urbano frammentato e alienante non era nient’altro quello idilliaco e rurale di un tempo.
Insomma è un problema di prospettiva, quindi un falso problema.
Ad esempio ogni tanto mi chiedo banalmente quali siano le differenze tra una Gif di James Kerr aka Scorpion Dagger e “Colazione sull’erba” di Manet.

A Failed Entertainment © Alessandro Calabrese
A Failed Entertainment © Alessandro Calabrese – Courtesy Viasaterna
Yorgos © Alessandro Calabrese
Yorgos © Alessandro Calabrese – Courtesy Viasaterna
Michelangelo © Alessandro Calabrese
Michelangelo © Alessandro Calabrese – Courtesy Viasaterna
Hiroshi © Alessandro Calabrese
Hiroshi © Alessandro Calabrese  – Courtesy Viasaterna