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Intervista con Bertille Bak – The Gallery Apart, Roma

[nemus_slider id=”53953″] Dal 19 Febbraio al 23 Aprile The Gallery Apart presenta Radice, la prima personale in Italia dell’artista francese Bertille Bak. Abbiamo fatto qualche domanda all’artista. ATP: “Radice”, il titolo che hai scelto per questa mostra, in un certo senso ha molti significati connessi con la tua pratica, con i lavori esposti e con […]

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Dal 19 Febbraio al 23 Aprile The Gallery Apart presenta Radice, la prima personale in Italia dell’artista francese Bertille Bak.

Abbiamo fatto qualche domanda all’artista.

ATP: “Radice”, il titolo che hai scelto per questa mostra, in un certo senso ha molti significati connessi con la tua pratica, con i lavori esposti e con la gente che hai conosciuto durante lo sviluppo di entrambi. Potresti approfondire il discorso legato a queste “radici”?

Bertille Bak: In occasione della mia prima personale a Roma, ci tenevo moltissimo a presentare gli esordi della mia pratica artistica, i miei primi progetti risalenti al 2007 che si concentrano su un terreno comune, un villaggio minerario del Nord della Francia. “Radice”, nel senso di una pratica artistica al cui centro si colloca il video «T’as de beaux vieux, tu sais », una sorta di manifesto di un processo in divenire, il cui obiettivo fondamentale, seppure ce ne fosse bisogno, è quello di portare avanti un’azione comune da parte di una specifica comunità, di cercare delle strade alternative, se così si può dire, attraverso un lavoro collettivo e creativo. “Radice” anche perché questo terreno comune è il mio, quello dove sono vissuti i miei nonni e di cui conosco ogni angolo, essendo io stessa la figlia minore di un minatore. “Radice” per il contesto in cui si sviluppano tutti i lavori esposti. La Francia ha chiamato la manodopera straniera a lavorare nelle miniere di carbone: italiani, polacchi, spagnoli, algerini, marocchini si sono ritrovati in questi villaggi minerari dove gli abitanti erano alloggiati nello stesso luogo dove lavoravano. Il villaggio aveva la sua cooperativa, la sua farmacia, la sua chiesa eccetera, una micro-città totalmente autonoma, dove ogni bisogno trovava soddisfacimento al suo interno. Alcuni villaggi erano circondati da muri di mattoni. Nel corso degli anni gli abitanti sono diventati una vera comunità dove ciascuno ricopriva un ruolo specifico all’interno del gruppo. Nel 2008 ha avuto inizio la ristrutturazione del villaggio di Barlin e gli abitanti hanno ricevuto la proposta di rimanere nelle loro abitazioni al termine dei lavori ma con un affitto triplicato, altrimenti sarebbero stati rilocalizzati in altri villaggi del Pas de Calais. Si tratta dunque degli ultimi attimi di una vera e propria tribù, ora sradicata.

ATP: Un sito minerario è un luogo fortemente politicizzato. Com’è stato avere uno studio e produrre arte in questo ambiente? Pensi che ti abbia ispirato più su un piano teorico o su uno estetico?

BB: Le lotte per i diritti dei lavoratori, per contrastare la disparità dei salari basata sull’origine del lavoratore, o ancora per le ferie pagate, la bandiera del comunismo e la solidarietà tra lavoratori hanno segnato l’area del bacino minerario del Nord della Francia. Ma le miniere di carbone in quella regione sono state chiuse a partire dagli anni Ottanta. Successivamente in questi villaggi la piaga della disoccupazione si è incancrenita e da questa situazione non si sono più risollevati. La bomba sociale pronta ad esplodere di fronte alle ingiustizie si è disinnescata. Il pugno chiuso non si è più sollevato dopo che il lavoro è stato portato via. Questo è quanto ho sentito nel piccolo villaggio di Barlin, dove la rassegnazione ha prevalso. Certamente questo patrimonio fortemente politicizzato ci ha spinto ad immaginare l’ultima rivolta del bacino minerario, ma i mezzi impiegati passano attraverso l’inganno estetico. L’impegno politico resta in filigrana in ciascuno dei miei progetti, ma finora non si tratta di un lavoro militante. Io evidenzio situazioni che sembrano inammissibili, ma mi servo del patrimonio di conoscenze, del saper organizzare passatempi interni al gruppo per esprimere in un modo diverso ciò che vivono.  Il piano iniziale era di offrire una verità sul presente e il futuro di una collettività, ma io ho scartato la forma documentario ed ho invece elevato a procedura il ricorso alle invenzioni, il surrealismo, le incongruenze. Tutto avviene come se si trattasse di indirizzare il reale ricorrendo alla creatività per definire un nuovo linguaggio, una possibilità altra di esprimersi: un diversivo estetico su uno sfondo di coscienza politica.

Bertille Bak,   Radice,   installation view,   photo by Giorgio Benni
Bertille Bak, Radice, installation view, photo by Giorgio Benni

ATP: In che modo inizi un progetto con una comunità mineraria? Come ti presenti? 

BB: Rispetto ai progetti successivi, nel caso di Barlin sono stata facilitata dalla conoscenza degli abitanti e della loro cultura. In genere trascorro almeno 6 mesi con le comunità o i gruppi con cui entro in contatto, condivido la loro vita quotidiana e, quando è possibile, convivo con loro. Le strategie per contattare e conoscere al meglio un gruppo sono differenti: farmi assumere in un Seaman Club al fine di avvicinare il più possibile l’equipaggio di una nave da crociera, frequentare i bar del quartiere polacco di Brooklyn per incontrare i membri di quella comunità, o ancora comprare un caravan e abitare in una bidonville rom in modo da rendermi conto della loro quotidianità e delle loro condizioni di vita. L’immersione è essenziale al fine di valutare correttamente il contesto sociale e culturale, ma anche al fine di coinvolgere pienamente le persone incontrate durante la fase creativa. Questi lunghi mesi sono consacrati a studiare la cartografia precisa dei luoghi, ad alimentare il rapporto con gli individui che li abitano, a raccogliere storie personali e collettive, le rivolte, i sogni, le tradizioni, i saperi popolari, le credenze comuni. Poi arriva il momento in cui le attività vanno guidate all’interno del gruppo. Mi presento allora come un’artista che vuole evidenziare una situazione con la loro partecipazione quali protagonisti di queste storie, di queste realtà. Si tratta di definire il perimetro della comunità, di realizzare un evento co-prodotto da me e dal gruppo.

ATP: Cosa pensano della figura dell’artista e in che modo reagiscono al tuo lavoro? 

BB: Non vi è alcuna illusione, l’arte non può cambiare il corso delle cose e le nuove strategie adottate – per dirla in altro modo – non curano i mali. Penso che tutti abbiano assimilato questi concetti, ma fa premio la speranza di risvegliare la coscienza dello spettatore di fronte alle ingiustizie sociali. La prima reazione rispetto a un lavoro finito, magari ad un video, è semplicemente di ridere nel vedersi attori, come è ovvio, poi quella di dire che il desiderio di disobbedienza è presente come se avessero ingaggiato una lotta mortale. Poiché i video sono realizzati ascoltando i pareri e le intenzioni di queste persone, il risultato spesso è vicino a quello da loro immaginato. Tuttavia i progetti non sono mai completamente conclusi, restano come una partitura aperta. E’ in particolare il caso degli arazzi esposti da The Gallery Apart, un lavoro cominciato nel 2007 e che prosegue ancora oggi. La realizzazione degli arazzi è un passatempo popolare, una pratica creativa comune tra gli abitanti della cité n° 5. Per il video «Faire le mur» queste persone in attesa di espulsione hanno realizzato insieme l’arazzo de “La zattera della Medusa”, simbolo del loro naufragio. Ora che questi ex vicini sono stati separati, alcuni arazzi raffiguranti grandi immagini di paradisi perduti, di esodi o di massacri vengono loro trasmessi per essere ricamati. Un lavoro che crede nella possibilità di inventare molti modi di comprendere diversamente la realtà in una prospettiva utopica di mantenimento dei legami sociali.

ATP: La tua ricerca ti ha mai messo nei guai con i proprietari delle miniere? Non ti vedono come un “pericolo” per la loro autorità?

BB: In Francia la tendenza attuale per deresponsabilizzarsi rispetto a questo tipo di “espulsione” è di evidenziare la vetustà degli edifici o altre ragioni di sicurezza. Piccola digressione, in questo momento avviene la stessa cosa a Parigi per la chiusura di squat di artisti o di campi rom anche se siamo in piena stagione invernale. In questo caso, i villaggi minerari del Nord della Francia avevano davvero bisogno di restauri e ristrutturazioni, basti pensare che i bagni erano ancora posti al di fuori delle case e i riscaldamenti funzionavano soltanto a carbone. La triste storia di questi abitanti è nella loro dispersione, essendo stati sempre una vera comunità. Io non sono mai stata considerata pericolosa perché non diamo l’idea di una folla rivendicatrice. La storia contenuta nel video è una testimonianza, una sintesi delle singole voci incontrate e degli ostacoli fantasiosi posti in essere per cercare di respingere l’inesorabile sconfitta. Riunire delle persone per riflettere sulla loro situazione e sulle possibili scappatoie non spaventa più, non fa più parte del vocabolario della rivolta. Naturalmente c’è un impatto minore rispetto a quello di chi sventola delle torce davanti ad un Municipio dove una folla di giornalisti è stata convocata, ma questo per me non svilisce lo scopo che invece è completamente conseguito. Ad esempio, realizzando mediante disegni l’archivio di tutti i villaggi minerari prima della loro distruzione o ristrutturazione, non intendo stabilire una lista esaustiva di tutte le sottostanti espulsioni, ma piuttosto di osservare le piccole differenze nella molteplicità degli edifici dello stesso tipo. Si comprende come ciascuno si appropri dell’architettura, come le case unifamiliari si distinguano dalla massa; l’interesse allora si concentra sulla personalizzazione da parte degli abitanti all’interno della stretta regolarità degli edifici. In tal senso per me i disegni diventano dei ritratti delle persone che hanno abitato quegli spazi.

ATP: Stai lavorando a qualche nuovo progetto?

BB: Attualmente sto lavorando ad un progetto relativo al turismo autoctono e ai suoi derivati, alla strumentalizzazione delle tribù da parte dei tour operators. Come essere un “accessorio di umanità” al servizio del turismo di massa? Come romanzare la propria identità, renderla più esotica? E come trasformare in uno spettacolo la propria cultura, il proprio quotidiano e la persona stessa in questi villaggi-vetrina? Il progetto consisterà in una trilogia video, il primo realizzato con una tribù al Nord della Thailandia alla frontiera con la Birmania, il secondo con un’altra comunità nei monti del Rif in Marocco, il terzo nel cuore della Camargue, al Sud della Francia. La trilogia sarà esposta alla Biennale dell’immagine in movimento a Ginevra a partire da Novembre.

Bertille Bak,   Shelving,   Banner 7,   from “Le naufrage de Don Juan”,   Eugène Delacroix,    2013,   wool on canvas,   90 x 130 cm,   photo by Giorgio Benni
Bertille Bak, Shelving, Banner 7, from “Le naufrage de Don Juan”, Eugène Delacroix, 2013, wool on canvas, 90 x 130 cm, photo by Giorgio Benni
Bertille Bak,   Court n°1,   2007,   video,   2,  30 min,   4:3,   stereo; Court n°2,   2007,   video,   2,  00 min,   4:3,   stereo; Court n°3,   2007,   video,   4,  45 min,   4:3,   stereo; photo by Giorgio Benni
Bertille Bak, Court n°1, 2007, video, 2, 30 min, 4:3, stereo; Court n°2, 2007, video, 2, 00 min, 4:3, stereo; Court n°3, 2007, video, 4, 45 min, 4:3, stereo; photo by Giorgio Benni