Di Monica Benzing, Giada Dellasantina ed Eleonora Ghedini*
Patrick Tuttofuoco è un artista milanese che intraprende la propria carriera verso la fine degli anni Novanta: un percorso che lo porta ad esporre in numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero, partecipando ad eventi di rilievo internazionale quali la 50° Biennale Arte di Venezia nel 2003 e Manifesta 5 a San Sebastian nel 2004. Dopo aver conosciuto il dinamismo della scena berlinese, Tuttofuoco fa ritorno in Italia, continuando ad approfondire alcuni degli elementi fondativi della propria pratica, tra cui ricordiamo il rapporto tra artigianato e nuove tecnologie, nonché il dialogo con lo spazio e con l’altro, indagati attraverso l’esplorazione del potenziale espressivo della luce e del colore e ricorrendo in particolare ai mezzi della scultura e dell’installazione.
In questa intervista Patrick Tuttofuoco ripercorre alcuni momenti significativi della sua esperienza d’artista e riflette attorno alla propria estetica, volgendo lo sguardo non solo al passato ma anche al futuro della propria opera e offrendo il proprio punto di vista in merito all’evolversi della scena artistica italiana e internazionale.
Fino al 15 settembre Tuttofuoco è presenta, con l’artista Andrea Anastasio, alla mostra I VEGGENTI curata da Davide Quadrio e Ajola Xoxa e realizzata da Arthub con il coordinamento di Francesca Bonomo dell’associazione Capo d’Arte (Vecchia Villa in zona Blloku | Via Ibrahim Rugova, Tirana, Albania).
Si tratta del primo episodio di un viaggio che culminerà nel 2022, quando i due artisti italiani protagonisti del progetto, renderanno permanenti in un luogo pubblico di Tirana gli esiti di questa loro complessa ricerca svolta tra architettura, spazio relazionale e storia, che li vede esporre per la prima volta insieme una serie di opere, molte delle quali realizzate ad hoc.
Noto artista visuale, hai esposto nelle più importanti realtà museali, come il MAXXI e il Bloomberg di New York. Ma come si descriverebbe Patrick Tuttofuoco oggi?
Fortunatamente, continuando a percepirmi nello stesso modo, la mia ricerca artistica è rimasta sempre la stessa. Se mantieni alta la richiesta del tuo lavoro e del tuo processo creativo, riesci ad avere sempre lo stesso grado di curiosità, di intensità che, oltre a dare tanta energia per lavorare, permettono di inserirti in una condizione complessa in cui non dai nulla per scontato. Questo aspetto è molto comune fra noi artisti italiani, perché il raggiungimento del successo è lungo e ciò significa restare in una condizione, sebbene difficile, ma molto stimolante. L’unica cosa che davvero cambia nel tempo è il grado di consapevolezza di ciò che realizzi e che fai, il grado di profondità di ciò che riesci ad esprimere, ma l’approccio e la fame di curiosità rimangono gli stessi. La consacrazione dell’artista, a mio parere micidiale – per quanto riguarda gli artisti italiani – non arriva e questo seppur faticoso che sia, ci mette in una condizione di continuo ricerca. Questo per me è uno degli elementi più importanti che noi artisti italiani riusciamo ad avere.
Da dove partono le ricerche e gli studi per la tua arte?
I processi e la complessità di lavoro sono cambiati. È evoluto lo sguardo e c’è una consapevolezza che proviene anche da un rapporto diretto, non solo con la pratica ma anche con la sua applicazione ad un determinato mondo e sistema. La spinta e l’energia rimangono invariate, nutrendo così quella che è la complessità dell’opera. Quando il grado di autorevolezza sale in maniera esagitata, accreditato spesso dal sistema del mercato, si inseriscono delle dinamiche che sono rilevanti e con le quali l’artista si deve confrontare, ma che spesso tolgono energia alla ricerca, dando spazio ad altre cose. Noi italiani, arrivando al successo non in maniera rapida, manteniamo una giovinezza di pensiero maggiore rispetto ad altre realtà, però il lavoro muta sempre: se non fosse così finiresti per annoiarti e non essere più stimolato. La fame e la voglia di sperimentare, invece, sono le medesime, anche perché c’è ancora tantissimo da fare. Certe cose che sono avvenute si devono anche cristallizzare e perciò, rimanendo in questa condizione di fluidità, permette uno stato di maturazione diverso del processo artistico e della pratica.
Nel corso della tua carriera hai sperimentato un’ampia gamma di tecniche, spaziando tra materiali dalla storia antica e, tuttavia, in continua evoluzione, come i tessuti, e altrettanti materiali di più recente concezione. Quanto conta quindi per te il rapporto tra dimensione artigianale e industriale nell’opera d’arte?
Tanto, l’equilibrio tra le due cose muta nel tempo e varia, accelera e decelera. Faccio un esempio: all’inizio della mia carriera era più interessante per me, per una serie di motivi – forse per curiosità e anche per una quota di divertimento che c’è nello scoprire dei materiali e delle tecniche –, cercare di mettere in scacco dei processi industriali, cercando di virarli, di portarli su un’altra dimensione, cercando di capire come si potevano forzare non solo i processi ma soprattutto gli esiti che questi processi portavano. Poi questa cosa ha avuto una parabola di crescita molto ampia fino a raggiungere un livello che stava snaturando e allontanando dal rapporto diretto con l’opera, stavano diventando dei processi talmente complessi e quasi totalmente gestiti dalla macchina, che un pochino il lavoro mi si stava raffreddando tra le mani. Quel periodo è stato poi il periodo in cui, a cavallo tra il 2008 e il 2009, c’era molto la pratica da studio e il rapporto diretto con l’opera. Queste due cose assieme, questa mia sensazione e l’essere in un altro paesaggio non tanto fisico soltanto quanto creativo, mi ha aiutato a iniziare una pratica di studio e quindi a usare certi materiali; e per una serie di anni ho cercato di realizzare solo cose che ero in grado di produrre io con le mie mani, quindi abbassando molto, in certi casi, i risultati tecnici, però confrontandomi con un limite. In quel momento ero un po’ ossessionato dall’idea di identità, non tanto il tema dell’identità, che è amplissimo, quanto la mia identità. Bisogna tenere conto che in quel momento ci stavamo riprendendo da un colpo come la crisi economica del 2008, non tanto per un problema economico quanto per un crollo identitario di tutto l’Occidente: per me allora il mondo è cambiato radicalmente. Di conseguenza, è cambiata la materia e sono cambiati i processi delle mie opere, quindi ho iniziato a fare una serie di lavori in cui alla fine mi trovavo io nello studio con i miei limiti, le mie capacità e il mio essere impreparato a una cosa e cercare di risolverla: lì tutto il discorso più artigianale, inteso proprio come momento mio personale, ha preso corpo. Poi col tempo – da un lato semplicemente perché certi processi si esauriscono e, banalmente, subentra una specie di noia, che non è propriamente una noia, bensì semplicemente il finire di un’energia e il desiderio di attivarne un’altra – sono rientrate in gioco delle dinamiche che giocavano più con processi più grandi, dove dipendevo da altri. Adesso palleggio molto spesso tra le due cose, deve esserci un momento in cui il processo creativo deve essere completamente mio, però adesso ci sono dei macchinari e dei processi tecnici che mi stimolano talmente tanto che li uso. È chiaro che mi è capitato negli ultimi anni di fare molti interventi pubblici, anche di larga scala: in quei momenti non puoi, o meglio, è molto più difficile mantenere il tutto in una dimensione artigianale, però tutta la fase di ricerca avviene così e invece la trasposizione di tutto quel calore nella forma di una scala incredibilmente più ampia o ricorrendo ad altri processi diventa materia di ricerca e di lavoro. È un gioco, un back and forward in questo momento, che ricorda molto quello tra un’idea di spiritualità che secondo me è fondamentale, in senso assolutamente laico, all’interno del mio lavoro degli ultimi sei anni, e invece un rapporto con una tecnologia che è altrettanto importante: queste due cose costituiscono un dualismo, di fatto, quello tra la macchina e lo spirito.
La tecnologia non può essere negata, però non può neanche diventare lo strumento che ci espropria da tutto, soprattutto lo strumento affilatissimo che il mercato usa per espropriarci di tutto e di qualsiasi spazio creativo: deve diventare uno strumento utile – di fatto già lo è – e reinserire la dimensione materiale tra queste due cose è fondamentale. C’è un’anima, un calore che deve potersi tradurre nel mondo, venendo riformato dai processi più moderni, altrimenti il dialogo è meno forte e meno preciso.
Ormai sono trascorsi più di vent’anni da quando hai iniziato ad affermarti nel mondo dell’arte e, da allora, la tua carriera ti ha portato a trascorrere lunghi periodi all’estero. Vorrei dunque chiederti che cosa, secondo te, è cambiato maggiormente sulla scena artistica italiana dal tempo dei suoi esordi e soprattutto se c’è stata, a suo avviso, una qualche involuzione.
La risposta è: sì e no. C’è stata sicuramente un’evoluzione sensibile: Internet è uno strumento incredibile ed è stato uno fondamentale da questo punto di vista. Quando facevo l’Accademia, alla fine degli anni Novanta, chiaramente Internet esisteva già ma non era lo strumento utile e preciso che è ora: questo vuol dire che, quando volevi vedere una mostra o capire qualcosa, o avevi il catalogo in mano e potevi pigliare l’aereo o il treno e andare, oppure niente. Allora il viaggio, lo spostamento fisico, non era una cosa così semplice da affrontare, soprattutto da studente un po’ squattrinato qual ero io, quali erano i miei amici e quale tendenzialmente uno studente è. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che c’era molto esotismo in qualsiasi cosa riuscivi a ottenere, però anche molta meno informazione. Questo da un lato ha prodotto una conseguenza negativa, l’essere disinformato, che non è mai una cosa positiva; dall’altro ti dava un po’ quella possibilità di specializzarti in quella parte di mondo, che era anche l’unica che riuscivi ad avere a portata di mano. Il cambiamento che ho visto nelle generazioni successive, con la presenza di Internet sempre più forte, è stato un cambiamento radicale. Volendo fare un esempio, la nostra generazione ha conosciuto Gasconade, uno spazio che c’era allora a Milano: loro sono stati trai i primi ad usufruire in modo pratico, attivo e da subito di uno strumento come Internet, che ha permesso loro di comunicare con le realtà al loro livello da tutto il mondo abbastanza bene parlando un linguaggio, quale è la lingua inglese, che molti della mia generazione parlavano già anche piuttosto bene, ma che non veniva utilizzata con una certa frequenza e facilità e per questo comportava sempre uno sforzo talmente ampio da avvenire poi molto meno. La loro generazione, invece, ha fatto avvenire questo on a daily basis, tutti i giorni, costantemente, ed erano costantemente connessi in uno scambio e in un’osmosi. Questa cosa ha prodotto un’evoluzione generalizzata e diffusa molto ampia, quindi la capacità di crescere nella consapevolezza di cosa succede altrove, che poi sulla lunga distanza ha generato anche un appiattimento. Io insegno agli studenti stranieri – a parte rari casi in cui ci sono studenti italiani che, per qualche motivo segretissimo, seguono corsi in lingua inglese – e vedo questo appiattimento del gusto e della capacità espressiva. Qualcuno dice che la profondità è nella superficie ed è anche giusto ipotizzare e adoperarsi per comprendere questa cosa, d’altro canto penso che l’essere un po’ sconnessi, come una volta, ci dava la possibilità di andare più in profondità perché era l’unica possibilità che avevamo. Se vedo un cambiamento, lo vedo come un cambiamento negativo che si può trasformare in una possibilità. È sempre neutrale quello che avviene, è sempre un’interpretazione che noi diamo a queste cose per poi farne un determinato uso. Mi ricordo che quel cambiamento lo vivevo da distante quando succedeva e pensavo: “Caspita, questa generazione va più veloce.” Rispetto ai tempi di Gasconade, così connessa a situazioni straniere che oggi non esistono più e che stavano accadendo in quel momento, nelle generazioni successive c’è una sorta di international style e si tenta il più possibile di raccontare la specificità di un luogo, sapendo allo stesso tempo quello che succede all’estero. Credo che nella negazione di certe cose non si guadagni mai niente, vanno sempre assimilate. Cercare di fermare un’onda di cambiamento è una stupidaggine di per sé, in primis perché non ci si può riuscire, poi perché sarebbe un errore: c’è sempre una generazione precedente che annuncia l’arrivo dei barbari, ma non sono mai barbari, è solo il cambiamento e sta a te assimilare quelle istanze nuove offrendo un valore aggiunto dovuto alla maggiore esperienza. Se la maggiore esperienza diventa IL valore, se tu diventi il depositario di questo sapere, allora entri in una zona “vecchio trombone” subito perché non è più interessante, non è più una zona attiva, è una zona che, al contrario, protegge: non ci dovrebbe mai essere nulla da proteggere, ma tutto da condividere. Questa è un’altra cosa che la rete ci ha aiutato a capire di più, poi però, come sappiamo, con la stessa velocità il mercato si è infilato, subdolo, raccontandoci determinate cose.
A tal proposito, parlando di scena artistica italiana, quali differenze noti fra questa e quella berlinese, che tu hai conosciuto piuttosto da vicino?
Sono radicali e profonde. Il respiro di una città come Berlino ora, e ancora di più dall’inizio degli anni Duemila fino a qualche anno fa, è un respiro incredibile e che è difficile avere in Italia perché è un crocevia molto più ampio. È una comunità veramente internazionale e quelli che frequentavo io erano al 90% persone che arrivavano da tutto il mondo: questo generava una commistione di cose incredibili e generava anche uno scollamento dalla società. Uno dei motivi per cui me ne sono andato è che alla fine diventava una bolla: una bolla molto ampia, ricca di informazioni ed anche in senso meramente economico, perché per poterti dedicare all’arte devi trovare un modo che sia sostenibile. Questa cosa era molto bella e intensa ma creava una scissione dalla realtà che secondo me non è mai un bene. La prima, macroscopica differenza, dunque, è che uno poteva registrare, soprattutto allora, questo respiro internazionale che aveva la città. La Milano che ho ritrovato tornando era una Milano diversa, era una Milano che aveva aperto molti ponti con un dibattito internazionale e che è stata in grado molto spesso, storicamente e, ancor di più, recentemente, di prendere in mano questo dibattito in modo autorevole, chiaramente in uno spazio più piccolo rispetto ad altre realtà, divenendo forse anche più interessante per questo e rendendosi capace di raccontare una tipicità che col tempo diventa, secondo me, più urgente rispetto all’essere totalmente connessi. Quest’internazionalità produceva tutta una serie di cambiamenti e di evoluzioni del linguaggio e, nella pratica degli artisti, provocava un’accelerazione su certi temi. Quando sono tornato in Italia, sono tornato perché volevo riappropriarmi del rapporto che abbiamo noi italiani con la forma, con la materia, con il processo e con la pratica artistica, caratteristiche assolutamente nostre di cui volevo riappropriarmene non tanto perché le avessi perse ma perché secondo me sono un valore. Nel momento in cui sei in grado di comprendere altre pratiche, o comunque di averne una percezione, ritornare alle tue radici è fondamentale perché a quel punto puoi esprimere con maggiore apertura e maggiore chiarezza quelle tipicità. Un certo tipo di amore per la forma, per un’armonia, per una ciclicità, per le radici delle cose è assolutamente italiano, è qualcosa che non trovavo altrove. Ricordo quando un artista straniero emergente mi parlava del celebre pattern Bacterio di Sottsass senza manco sapere chi fosse Sottsass, poco prima che Memphis tornasse di moda. Per lui contava di più osservare come questo segno si fosse sgretolato nella complessità dei segni, ritornando indietro e venendo riconosciuto. Per me invece, vedendo quella cosa, contava di più capire da dove arrivava, il legame con la tradizione, ecc.: questo può essere considerato un limite ma può essere considerato anche una grande forza. Questo è un altro esempio, se vogliamo banale, di una cosa che è molto italiana, che ci frena ma che ci dà anche forza.
In un talk su ATPDIARY mi ha colpito il fatto che sottolineavi che spesso diamo per scontato che il paesaggio e ciò che ci circonda sia automaticamente “di tutti”. A tal proposito, come si relaziona la tua arte con quest’idea?
Lo spazio pubblico è un tema importantissimo. In Italia, spesso lo spazio pubblico viene vissuto come di nessuno, mentre all’estero, come ho notato vivendo a Berlino, questo diventa di tutti. L’arte è un ottimo strumento per riappropriarsi dello spazio e della concezione di spazio comunitario. L’arte può, infatti, cambiare la polarità di un luogo, può riattivarlo e farlo vivere non più come un interstizio fra spazi privati ma come un’immensità di luoghi di tutti, capaci di ospitare e di registrare le necessità di tutti. Questo discorso è molto importante adesso, soprattutto come si è visto in questo ultimo anno, dove le istituzioni erano chiuse e gli spazi pubblici sono diventati fondamentali. Il desiderio di riattivarli si è fatto sempre più forte, capendo che lo spazio pubblico è un luogo cruciale per la vita comune e che può essere vissuto da tutti, in termini di contenuti forti: un luogo da amare. Spesso, infatti, c’è una mancanza di amore nel rapporto con gli spazi pubblici e l’arte è un modo per raccontare questo amore.
Dato che affronti il tema in vari lavori, che cosa intendi per “il tempo è un paesaggio”?
Il binomio spazio-tempo è inscindibile. Non esiste l’esperienza di un luogo o di uno spazio senza l’esperienza del tempo che trascorri in esso. Le due cose sono connaturate. C’è un qualcosa di magico e spirituale in tutto questo e c’è altrettanta intensità nel momento in cui si osserva il paesaggio naturale. Torna l’antico tema dell’uomo che contempla la natura circostante, la cui intensità e profondità gli permettono di accedere ad un grado di consapevolezza diverso. Questa concezione di tempo e di paesaggio è qualcosa che ho capito col tempo e soprattutto con la pratica artistica sviluppata all’interno della dimensione pubblica. La necessità basica dell’uomo di identificarsi come un individuo all’interno di uno spazio, muovendosi in un determinato tempo, è un driver cruciale per le considerazioni di natura artistica, diventando benzina per la pratica. Ho impiegato del tempo per capirlo, poiché inizialmente ero più inserito in un’idea di velocità e nel come questa potesse trasformare la percezione della realtà. La velocità è talmente enunciata in ogni sua forma che è diventata statica: quando una cosa è sempre nuova, tutto si appiattisce. Questa accelerazione è un prodotto della tecnologia: non della tecnologia di per sé, ma dell’uso che è stato fatto di essa dal mercato. Si tratta di una velocità che ci è stata imposta e quindi non è più quella che io percepivo come un’esperienza di crescita. Ed è così che si torna indietro, alle origini, che si torna ad osservare il paesaggio in silenzio.
In un’intervista rilasciata per la Manifattura Tabacchi di Firenze lo scorso anno, hai posto l’accento su temi come il “raccontare i rapporti umani” nella pratica artistica, nonché la dimensione dell’ascolto nell’attività dell’insegnamento. In un’epoca come la nostra, in cui spesso perfino le scelte ufficialmente dettate dalla sostenibilità mascherano una ricerca di benessere puramente individualistica, quanto è importante per te il rapporto con l’Altro?
Chiaramente questo rapporto è importantissimo e fondamentale. Come primo grado, più vai addentro, più è complesso generare un rapporto sano con l’Altro: per “sano” intendo energico e capace di permettere un’evoluzione a entrambi. Mi è capitato spesso, soprattutto all’inizio del mio lavoro, di produrre delle connessioni proprio per generare il contenuto che poi si trasformava nel lavoro e si materializzava in una forma. Alcune volte, addirittura, il driver, il punto, era quasi più il generare delle connessioni tra persone a mio avviso singolari e che potevano produrre un’alchimia strana, piuttosto che il risultato che si andava a produrre. L’opera diventava importante semplicemente perché poteva raccontare questo processo. Ho sempre sentito quest’esigenza, però fare questa cosa in una logica di vero scambio è qualcosa di più complesso. Facendolo tante volte, mi sono reso conto che, in alcuni casi, era più quello che io prendevo di quello che poi ridavo: era un processo quasi “da vampiro” nel senso bonario del termine. Trovare un modo perché questo equilibrio si manifesti è molto più complesso e difficile e saper ascoltare è fondamentale: da una parte, devi ascoltare il processo artistico, la tua pratica, perché magari, banalmente, stai facendo una cosa, poi inizi a prendere un’altra direzione ma sei tu a dover essere in grado di riconoscerlo; dall’altra, ascoltare un altro essere umano che, magari, in quel momento è dentro ad un processo e ad una pratica assieme a te, non significa solo ascoltarlo mentre ti dice “Guarda che mi hai pestato un piede”, ma proprio essere in grado di accettare e accogliere delle incursioni all’interno di un mondo ristrettissimo, che è il tuo. Questo prevede uno sforzo molto ampio: per esempio, l’insegnamento mi ha aiutato molto in questo tentativo perché mi ha costretto, in certi casi, a stare zitto, perché devi capire che ci sono delle persone che magari hanno una complessità interiore amplissima, che però ancora non hanno un vocabolario sufficientemente sviluppato per poterla raccontare con precisione, quindi devi proprio saper leggere tra le righe e questa cosa prevede uno spazio e un’attesa maggiore.
La professione del curatore ha assunto ormai un ruolo significativo nel mondo artistico. Come questa figura si è approcciata al tuo lavoro e come vorrebbe che si comportasse?
È un rapporto fondamentale. Deve esserci una complicità, una complementarietà che può generare non solo il successo delle singole figure professionali ma di una pratica per il mondo. Un rapporto, però, che, come quello sentimentale, di coppia, è un rapporto difficile non tanto per le diverse priorità e scale di valori, ma proprio perché con il tempo questo binomio artista-curatore è mutato molto. Quando avevo iniziato la mia carriera artistica, mi sono approcciato alla prima generazione di curatori che sono diventati poi emblematici nel mondo dell’arte e che hanno di gran lunga superato l’importanza degli artisti. Francesco Bonami, con il quale ho lavorato, è stato uno dei primi ed è un perfetto esempio di curatore per il quale gli artisti erano interscambiabili. Sicuramente, tutto questo aveva un senso in quegli anni, in cui tutto si stava delineando e tutto era nuovo. In questo approccio, però riscontro dei limiti. Io credo che ormai la figura del curatore sia esaurita in quella pratica così bulimica. La generazione successiva di curatori italiani è più interessata a rimettere in equilibrio queste due figure, perché alla fine ciò che deve passare non è l’artista o il curatore ma secondo me è l’arte, enunciando una possibilità dell’uomo di potersi esprimere in una dimensione che è fuori dalle logiche di consumo. L’unione fra l’artista e il curatore è un atto politico importantissimo, di una forte profondità, ma per arrivare a ciò vi deve essere una rinnovata unione in funzione di un valore altro: io vorrei che diventasse questo, solo così riusciremo a salvarci come individui.
In conclusione, quali sono i tuoi futuri progetti?
Il prossimo più complesso è a Tirana, in un contesto in grande evoluzione, una città con un’identità completamente rinnovata. Realizzerò un intervento pubblico permanente site specific. Poi, a settembre inaugurerà la mia mostra personale in Galleria di Milano per il miart. Una mostra su cui ho lavorato tanto sia perché era da molto tempo che non facevo una mostra personale e sia perché ho voluto ragionare e tenere presente il rapporto con l’inizio del mio lavoro. Non è un caso se la mostra parta con un lavoro del 1999, una fotografia di famiglia dove siamo tutti assieme mentre cerchiamo di costruire una sorta di triangolo visivo. In questa esposizione, sono riuscito a capire meglio qual è il mio rapporto fra spazio, tempo e rapporti umani. L’esperienza umana e le emozioni catalizzano il tempo e, di conseguenza, il rapporto con lo spazio. Anche nel titolo della mostra, “Come se fossero eterni”, c’è una nozione di tempo, l’idea di eternità che non esiste ma che, grazie all’arte, l’uomo riesce a tendere, in un certo senso, ad una dimensione altra, oltre i limiti umani. La capacità di usare questa esperienza emotiva come momento per fermare le cose e vederle differentemente è la possibilità degli esseri umani, non solo degli artisti, di diventare in un certo modo immortali. Inoltre, sto lavorando ad un videogame, una nuova sfida: una produzione che parte da Officine Grafiche Riparazioni, un ente che si occupa di arte ma che ha un grande rapporto con degli acceleratori di grosse startup. Discutendo con OGR su cosa lavorare è venuto fuori che la tematica più forte e rilevante oggi è proprio il videogame, il quale potrebbe diventare non solo mero intrattenimento ma anche momento per veicolare dei contenuti. Infine, dovrò realizzare una serie di interventi pubblici, tra cui uno a Capri, in cui si ritrova il binomio arte-paesaggio.
* Intervista fatta da Monica Benzing, Giada Dellasantina ed Eleonora Ghedini durante una lezione tenuta da Elena Bordignon alla School for Curatorial Studies Venice (2021)