Segue l’intervista a Mohamed Keita realizzata da Sara Benaglia e Mauro Zanchi in occasione della mostra KENE/Spazio al Museo Pecci di Prato (fino al 23 agosto 2020).
La mostra – promossa da Fondazione Pianoterra e curata da Sara Alberani – raccoglie cinque immagini di Keita e oltre 50 immagini realizzate dai giovani studenti a Bamako, e si sposterà anche in altre città italiane. La prossima tappa sarà in autunno presso il Museo Mann di Napoli.
Acquistando una delle opere in mostra sul sito studiokene.org si possono sostenere le attività che lo studio KENE sta svolgendo in Mali. La mostra è accompagnata da un libro ricco di immagini e testi, che mette al centro il percorso di partecipazione e autonarrazione che anima il progetto e rappresenta un vero e proprio diario di quanto realizzato a Bamako da Mohamed Keita e dai suoi allievi.
Sara Benaglia / Mauro Zanchi: Come hai iniziato a fotografare?
Mohamed Keita: Ho iniziato a fotografare nel 2010 non per diventare un fotografo, ma per documentare la condizione in cui mi trovavo, ma anche per ripensare al mio vissuto passato. Ci sono passaggi della mia vita di cui non ho immagini, ma solo ricordi. Ho iniziato a fotografare per creare una mia memoria, anche per evitare dei passaggi di debolezza nella vita.
SB / MZ: Nel 2007 hai lasciato il tuo paese natale, la Costa d’Avorio, durante la Guerra Civile. Sei arrivato in Italia nel 2010 come rifugiato politico dopo aver attraversato la Guinea, il Mali, l’Algeria, il Sahara, la Libia e Malta. Una volta arrivato a Roma hai frequentato il centro diurno Civico Zero e lì hai iniziato a rapportarti con la fotografia.
MK: Sì, nel periodo in cui frequentavo il Civico Zero di Roma dormivo in strada. Ogni mercoledì frequentavo il Civico Zero di Roma, dove Benedetto, un ragazzo di Salerno, dava un corso di fotografia base.
Non parlavo bene italiano, mi esprimevo abbastanza bene in francese, e in quel centro lavorava anche un educatore francese che si chiama Yves Legal. Questa persona mi ha regalato una macchina fotografica.
Era la prima volta che mi trovavo nella mia vita a vivere in strada, sui marciapiedi. Quindi ho cercato di fotografare il mio zaino, una coperta e il cartone. Non ho scattato quella fotografia per darla a qualcuno, ma l’ho fatta per me stesso.
Nel centro Civico Zero, però, hanno voluto stampare quell’immagine in formato 30×45 cm. A fianco del centro c’era una scuola di fotografia privata, diretta da Carlos Pilotto. Ogni tanto lui frequentava il Civico Zero, e quando ha visto quell’immagine mi ha dato la possibilità di seguire gratuitamente un corso di fotografia nella sua scuola, dato che vivendo in strada non potevo permettermi di pagare una scuola di fotografia. Lì ho studiato un corso base, avanzato, ritratto e reportage con lui e mi ha sostenuto anche nella produzione della mia prima mostra.
SB / MZ: Tra le fotografie nel tuo portfolio ce ne sono alcune di persone che vivono in strada. Ciò che ci ha colpito di queste immagini è il fatto che i senza tetto guardino in camera.
MK: Quel gruppo di fotografie è iniziato con l’immagine del mio bagaglio di cui dicevo prima. Io cerco sempre di non essere solo fotografo, ma anche soggetto. Questo mi aiuta a non entrare troppo nella vita privata di qualcun altro.
Quando vivevo in strada non mi piaceva che mi fotografassero e identificassero, per poi pubblicare la mia immagine senza il mio consenso. Per cui ho voluto usare questo metodo scattando quelle immagini, per mostrare che quei senzatetto sono persone, ma al contempo senza indentificarle. Ho incluso negli scatti il contrasto con le immagini di moda e di lusso. Nello stesso marciapiedi trovi la ricchezza e la povertà. Il lavoro è durato molto, l’ho iniziato quando vivevo in strada e l’ho continuato dopo aver trovato un luogo in cui dormire.
Ho ritratto persone che mi conoscono molto bene, ma non mi fa piacere usare quei ritratti. Li uso per far capire che avevo la possibilità di fare anche ritratti, ma quelle fotografie sono per loro, non per me. Perché in qualche modo li sto mettendo in pubblico in una posizione che a me non farebbe piacere.
SB / MZ: Che cos’è per te la fotografia?
MK: La fotografia è uno strumento che mi permette di andare oltre, di conoscere altre persone, di raccontare la mia storia ad altri e di conoscere le storie di altri. La macchina ti dà la possibilità di guardare attorno a te per discutere, incontrare, per cercare e conoscere.
SB / MZ: Ci parleresti di KENE, il laboratorio fotografico per bambini di strada che hai fondato in Mali? Perché hai scelto proprio Bamako?
MK: Ho iniziato a pensare a KENE nel 2014, per realizzare un reportage sul mio viaggio dalla Costa d’Avorio all’Italia. Mi era capitato allora di andare in Mali, e a Bamako mi ero fermato in un luogo in cui mio fratello aveva vissuto diversi anni. Lì ho visto che c’erano molti ragazzi che potevano usare le loro energie e capacità, ma che vivevano in un contesto che reprimeva le loro possibilità. Il laboratorio KENE è nato nel 2017, grazie al sostegno di Fondazione Pianoterra, per coinvolgere in modo reale queste persone. In quel contesto, quindi, anche per realizzare un laboratorio fotografico non devi pensare solo a realizzare le immagini. Quella è la base ma c’è anche il desiderio di fare stare bene la persona coinvolta nel progetto, e il benessere può derivare talvolta anche dall’aiuto nel cercare una cura adeguata o del cibo. Aiutare è indispensabile per rendere un ragazzo o una ragazza liberi di pensare anche alla fotografia.
KENE è nato in Mali e non in Costa d’Avorio perché io sono mandingo. Mande è una zona, un territorio, non un paese. Quando questo territorio è stato diviso in nazioni, molte famiglie sono state divise. Quindi per me realizzare questo progetto in Mali è come farlo in Costa d’Avorio. In entrambi i paesi posso lavorare usando la stessa lingua, il mandingo, che è molto simile al bambara, ma più diffuso. KENE in mandingo significa spazio.
SB / MZ: Nel 2017 hai realizzato un esperimento a Kanadjiguila (“il posto dei varani”) con 10 bambini. Potresti farci l’esempio di una lezione?
MK: L’inizio è stato complicato, perché nel quartiere c’era un po’ di incertezza. Chiedevo ai ragazzi di fotografare quello che a loro piaceva per poi fare editing insieme. C’è voluto un anno perché gli abitanti si abituassero alla presenza di un’attività fotografica sul territorio, e che mettessero da parte una certa diffidenza. Un’altra difficoltà è stata selezionare i ragazzi. All’inizio delle attività 10 ragazzi si erano proposti per il corso, ma ne ho dovuti scegliere solo 5, in base alle necessità familiari. Ho scelto di non lavorare con ragazzi che potevano essere aiutati dalle proprie famiglie. Ora abbiamo a disposizione uno spazio più grande e la classe è composta da 15 ragazzi.
Nel laboratorio di fotografia io, Seydou Keita, Tenin Terra, Namakan Keita e Issa Diallo abbiamo instaurato un rapporto alla pari con gli allievi. Con i corsi, il materiale e le macchine fotografiche, forniamo ai ragazzi di Kanadjiguila gli strumenti per raccontare anzitutto se stessi e il loro mondo.
KENE è iniziato in Mali, oggi stiamo portando avanti lo stesso progetto in Kenya e un domani potrebbe esistere in Italia. Mi piacerebbe vederlo crescere.
SB / MZ: Il regista Dagmawi Yimer nel libro fotografico KENE ha scritto della fotografia di ritratto in Africa e della sua relazione con una ‘memoria futura’. Facciamo riferimento anche al testo The Aesthetics of the Black Radical Tradition di Fred Moten nel chiederti che relazione c’è tra la fotografia e Africa? Come agisce la macchina fotografica rispetto all’ipervisibilità e alla trasparenza di una persona nera? Pensiamo alla responsabilità di un certo tipo di fotografia coloniale prima e di reportage poi nell’aver creato e nel continuare a confermare una immagine stereotipa e razziale dell’Africa.
MK: La macchina fotografica, a seconda di chi vi sta dietro, riesce a mostrare la realtà. Ma la realtà può essere anche mascherata in mille modi. Se qualcuno mi chiama con un nome che non è il mio, per me non è un problema. Il problema è se io stesso dimentico il mio nome.
SB / MZ: Mentre guardavamo le immagini prodotte durante il laboratorio KENE in mostra al Museo Pecci di Prato ci siamo chiesti come ti sia rapportato in questo progetto educativo rispetto alla storia della fotografia?
MK: La storia è una parte del percorso, non dovrebbe essere tutto il percorso. Per esempio, nel periodo in cui studiavo fotografia a Roma, il professore ci indicava il nome di molti fotografi da guardare e studiare. Io personalmente non lo facevo per un motivo molto semplice per me: perché è facilissimo ripetere quello che vediamo spesso. Quindi ho evitato di guardare ad altri fotografi per arrivare al mio modo di osservare attraverso la camera e non copiare nessuno. È vero che è molto difficile realizzare uno scatto che non richiami scatti già realizzati in passato, ma è importante guardare il mondo con i propri occhi. Allo stesso modo, quando insegno ai ragazzi condivido con loro dei libri sulla tecnica della fotografia, ma quello che mi piace di più è che loro comunichino attraverso la fotografia. Tutti, anche i più grandi, hanno dovuto intraprendere un percorso per raggiungere un livello molto alto. Dai grandi fotografi non è tanto la loro tecnica fotografica a cui mi ispiro, ma soprattutto il tempo e l’impegno che hanno dedicato alla fotografia.
Mohamed Keita: KENE/Spazio
Museo Pecci di Prato
a cura di Sara Alberani, promosso da Fondazione Pianoterra Onlus
20.02.2020-23.08.2020