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Giulia Cenci ha da poco partecipato ad un importante evento, un artist talk organizzato presso The Italian Institute of Culture di Amsterdam, curato da Marco Nember. In occasione di questo talk ha selezionato alcuni film che hanno particolarmente influenzato il suo lavoro, dialogando con esperti e pubblico. In questa conversazione l’artista presenta alcuni contenuti scelti per l’evento, racconta il suo lavoro ed accenna ai suoi prossimi progetti.
“Questa ricerca sulla definizione di limite come disegno “finito” di una forma o di una cosa, e sulle possibilità di continua distruzione (modificazione) di questo, ritorna anche nei singoli pezzi scultorei, così come nei gruppi più piccoli: è sempre presente una ricerca sul come trasformare o ibridare una forma preesistente al di fuori del mio lavoro e che sarei portata a considerare come finita”. Giulia Cenci
Seguono le domande all’artista —
Francesca D’Aria: Iniziamo da un importante appuntamento inserito nella tua agenda: il 5 luglio sei stata la protagonista di un artist talk organizzato presso The Italian Institute of Culture in Amsterdam. Puoi parlarci delle suggestioni ed argomenti che hai toccato in quella sede?
Giulia Cenci: Il curatore di questo incontro all’Istituto Italiano di Cultura, Marco Nember, sta portando avanti da qualche anno dei talk che si interrogano sul ruolo del cinema nel lavoro di artisti visivi Italiani. Per questo motivo il talk si svolge con un curatore -nel mio caso si è trattato di Alessandra Laitempergher * – e con un esperto di cinema, Massimo Benvegnú*.
Quando Marco mi ha invitato a partecipare al talk, mi ha chiesto di selezionare tre film che avessero in qualche modo influenzato il mio lavoro e di decidere in che modo li volessi utilizzare rispetto alla presentazione della mia ricerca. Ho quindi deciso di proiettare una serie di brevi clip tratti dai tre film, raccolti in un unico video che ho mostrato all’inizio del talk e che è servito come punto di partenza per la conversazione che abbiamo tenuto, scaturita dalle reazioni di Alessandra e Massimo rispetto alla mia selezione ed al rapporto tra questa ed il mio lavoro. Il talk è stato una conversazione piuttosto spontanea ma che è riuscita a portare fuori interessanti elementi di discussione sia tra di noi che con il pubblico, a sua volta invitato a partecipare.
I tre film che ho selezionato (‘Solaris’ di Andrej Tarkovskij, ‘Le Temps du Loup’ di Michael Haneke e “The Lobster” di Yorgos Lanthimos) sono stati presentati in versione molto ridotta e con dei tagli che hanno isolato delle scene quasi esclusivamente “atmosferiche”: vedute o scene d’azione che per me hanno una propria densità, capace di raccontare queste tre opere anche senza conoscerne l’intera storia. Molte sono scene di esterni, in cui i paesaggi sono gravi, vasti; troppo vasti rispetto alle figure. In tutti i film c’è una forte astrazione e idealizzazione di questo “esterno”: l’oceano spaziale di Solaris; la landa piatta, contaminata ed infinita ne Le Temp du Loup e una foresta estremamente fitta di ostacoli che non riescono mai a diventare ripari (se non tombe), nel caso di The Lobster.
In questi esterni i protagonisti non riescono mai ad integrarsi, non è più una questione di natura e paesaggio antropico, ma di luoghi insidiosi, incapaci di essere vivibili. In questi spazi, di qualsiasi tipo essi siano, i protagonisti si muovono in modo goffo, stanco, faticoso. I beni che li circondano, anche quelli di ultimissima tecnologia, sembrano ormai presenze quasi obsolete, incapaci di asservire i loro compiti. In altri casi tali oggetti, tali beni, sono diventati così essenziali nella vita dei personaggi da sottolinearne un rapporto ridicolo e morboso, che guarda caso assomiglia molto al rapporto che abbiamo, nella realtà, con le cose.
Ho visto in queste scene anche una forte presenza fisica, sia nella materia dell’oceano Solaris, capace di plasmare ciò che risiede nella mente di coloro che lo vivono e che lo hanno troppo attaccato, stimolandone una reazione perfida, che nella foresta in cui avviene la caccia di The Lobster, in cui i corpi umani in movimento, cacciatori o prede, sembrano comunque vittime di uno scontro con lo spazio pieno, folto, della foresta…
Questa presenza è forte anche nell’idea di metamorfosi, nella sua accezione più sinistra e malevola. La punizione inflitta in The Lobster: trasformare in animale qualunque umano incapace di trovare un partner a lui equivalente; così come in Le Temp du Loup in cui degli individui ormai stremati sembrano agire come delle bestie feroci, null’altro che l’uno contro l’altro, incapaci di stabilire delle regole di civiltà collettive. Anche in questo caso queste metamorfosi appaiono quasi viscerali, fisiche, si parla di trasformazione fisica o di sopravvivenza rude, una vita lontana a noi occidentali ma che questi registi sono stati capaci di contestualizzare proprio tra le nostre cose, nei nostri paesaggi, nella vita che anche noi conosciamo.
Proprio sotto questo punto di vista un altro fattore li accomuna, una condizione spazio-temporale particolarmente rilevante: in tutti i film ci sembra di essere molto vicini alla realtà delle cose per come le conosciamo: auto, strade, macchine, telefoni… potrebbe essere adesso, ora. Eppure non ci è dato di sapere come e quando tutto questo sia successo, forse sta accadendo… più che fantascientifico o surreale il tempo di questi tre film sembra essere un tempo metafisico.
FD: I tuoi lavori si presentano spesso come estensioni, appendici o frammenti collocati in luoghi che appaiono asettici, incontaminati. In che modo il tuo intervento si inserisce in questi spazi?
GC: Non credo che si tratti esattamente di un intervento nello spazio, in quanto nella maggior parte dei casi i miei lavori possono essere separati e ricollocati, acquisendo anche una forte autonomia rispetto agli altri pezzi dello stesso gruppo. Ecco, credo che questa sia una parola necessaria per descrivere il mio lavoro che spesso, negli ultimi anni, è formato da vere e proprie istallazioni composte da un gruppo di sculture che a sua volta contiene altri sottogruppi, indivisibili. L’idea di gruppo e non di serie, in quanto non si tratta di una sequenza di opere, del risultato di un periodo di lavoro ma di elementi pensati come parti complementari di un’unica e più vasta opera, frammenti di uno stesso corpo. Una volta installati definiscono un intero mantenendo però un senso di incompletezza data dal fatto che altre parti possono ancora aggiungersi, estendersi e modificarne l’aspetto.
Ultimamente ho spesso pensato ad un paesaggio vasto e basso, sul quale si formano delle famiglie di piante o di funghi, delle macchie irregolari ma organizzate distribuite su questo piano, insiemi a loro volta divisibili in più elementi, più piccoli e potenzialmente indipendenti che allo stesso tempo possono riprodursi, fino ad occupare tutto lo spazio a loro disposizione… proprio come un virus o un batterio. Ecco questa idea di veduta, un unico paesaggio composto da parti che a loro volta costituiscono dei veri e propri micro mondi brulicanti, attivi, capaci di piccole metamorfosi… mi ha mosso particolarmente nella realizzazione dei miei ultimi lavori.
L’approccio al lavoro può cambiare anche a seconda del luogo che ho a disposizione: nel caso di installazioni in cui ho la possibilità di occupare tutto lo spazio la mia idea di lavoro parte da un disegno unico, una sorta di regola installativa che uso come punto di partenza per procedere con gli elementi che la compongono. Spesso è legata allo spazio, altre volte ad un’idea di “veduta” che ho in testa da tempo e per la quale sto aspettando il luogo giusto per realizzarla. In ogni caso è come se decidessi su quale “parte” dello “stanza” il mio lavoro debba prendere forma, definendo dei veri e propri confini ideali, come delle linee o delle concentrazioni di materia che prendo il sopravvento rispetto ad altre. Per questo ho parlato di regola, in quanto mi impongo di non andare oltre ad alcuni perimetri-limiti che ho cercato di stabilire. Per fare alcuni esempi è stato così nel caso de “La Terra Bassa” a SpazioA, Pistoia nel 2014, dove ho stabilito una linea di orizzonte oltre la quale i lavori non dovevano estendersi; o nella recente installazione per l’Offspring al DeAteliers, dove una linea perimetrale a muro –Aprile 5055- stabiliva il luogo dal quale i lavori si formavano verso il basso, insieme ad un istallazione a terra -Bianco sudato-, anche questa rigorosamente estesa solo su una metà del pavimento.
Questa ricerca sulla definizione di limite come disegno “finito” di una forma o di una cosa, e sulle possibilità di continua distruzione (modificazione) di questo, ritorna anche nei singoli pezzi scultorei, così come nei gruppi più piccoli: è sempre presente una ricerca sul come trasformare o ibridare una forma preesistente al di fuori del mio lavoro e che sarei portata a considerare come finita.
FD: Nella scelta del medium che usi per veicolare le tue indagini e pratiche artistiche c’è anche il video, come descriveresti la scelta di questo mezzo e cosa ti permette di sperimentare?
GC: Ho sempre usato il video in modo molto astratto, trattando immagini prive di narrazione o quasi. Alle volte si è trattato di riprese di accadimenti reali o luoghi reali, mentre in altri casi ho lavorato con dei veri e propri micro set, anche con degli attori. Sicuramente è stato molto importante avere una forte relazione con alcune caratteristiche del mezzo, come l’idea di una superficie e di un frame, una sezione di spazio, così come con l’idea di poter registrare un lasso di tempo lungo il quale determinate cose accadono, si trasformano, si evolvono o scompaiono. Diciamo che la cornice della camera è stata un mezzo di inclusione ed esclusione, un luogo di osservazione.
Molti, moltissimi dei miei video hanno a che fare con una materia liquida capace tramite determinati movimenti di trasformare ciò che rappresenta o che rispecchia. Forse anche questo è stato ed è un altro modo per indagare la materia.
FD: Ti va di parlarci del progetto al quale stai lavorando nel tuo studio adesso? O dell’idea che pensi ti stia muovendo verso la realizzazione della prossima opera?
GC: Le due mostre alle quali sto lavorando hanno molto a che fare con i miei ultimi lavori ma le regole saranno diverse, un nuovo disegno per lo spazio, al quale sto pensando da molto tempo e per il quale si è presentato l’occasione giusta. Anche gli elementi che utilizzerò (gli oggetti che incorporo nelle sculture) saranno diversi, non tanto quanto nel loro utilizzo quanto nelle dimensioni. Ma non voglio dire molto…un po’ per scaramanzia ed un po’ perché mi conosco ed è ancora molto presto per parlare: il 90 per cento del mio lavoro accade e si forma quando sono praticamente in studio, quindi in fin dei conti non la conosco nemmeno io la risposta; non posso sapere quanti errori diventeranno un modo di lavorare e quanto sarò delusa dai modi che mi prefiguro.
*Marco Nember è fondatore e direttore di Blue439 Foundation. Ha collaborato con l’Italiaans Cultureel Instituut (Amsterdam), Goethe Institut Niederlande (Amsterdam), Kunsthuis SYB (Beetsterzwaag), Kunstverein (Amsterdam and Milan), Vlaams Cultuurhuis De Brakke Grond (Amsterdam) e il Museum Beelden aan Zee (Den Haag).
*Alessandra Laitempergher, curatrice e responsabile per le mostre e l’educazione al Beelden aan Zee Museum di Den Haag e specializzata in scultura contemporanea.
*Massimo Benvegnú, giornalista e critico cinematografico che ha collaborato con i festival di Venezia e Locarno e dal 2011 lavora all’Eye Film Institute di Amsterdam, parte del programming team.