Producendo una piattaforma visiva di indagine critica sulla noia e le sue relazioni con la tecnologia, la mostra IN/ACTION. Contro lo scacciatempo, la noia genera un continuo flusso di coincidenze e diversità tra le pratiche artistiche Fluxus e le opere di sei artisti contemporanei.
Aideen Doran, che nel video “Oblomov’s Dream” presenta la noia come forma di resistenza attiva alla continua richiesta di performatività, viene accostata all’installazione ambientale “Gli imbambolati”, ricostruita parzialmente, di Benni Bosetto. Il bollettino periodico No.9 delle “Something Else Newsletters” di Dick Higgins presenta una riflessione su “Noia e Pericolo” a partire dalla musica di Erik Satie.
Lo spartito dell’opera musicale 4’33” di John Cage invita il musicista a sospendere l’esecuzione per quattro minuti e trentatré secondi, mentre l’opera viene celebrata, attraverso la rimessa in scena di 4’33” in diversi luoghi di Manhattan, nel video di Nam June Paik “A tribute to John Cage”.
Segue il dittico di Matteo Cremonesi, “Untitled”, parte della sua ricerca fotografica dedita a cogliere una sorta di esaurimento dello sguardo. Dario Maglionico enfatizza nei suoi dipinti “Reification” l’intimità domestica e il suo rapporto con la tecnologia. Rustan Söderling mostra nel video “Fire Gazing” la dimensione mitica e spirituale tecnologica.
Il libro d’artista “An Anthology of Chance Operations”, edito da La Monte Young e co-pubblicato da Jackson Mac Low, raccoglie al suo interno una serie di opere tra le quali la Compositions 1960 #7 del suo stesso editore, pensata per essere suonata simultaneamente da più strumenti possibili e con la minima variazione.
“Water Yam” di George Brecht è un fluxbox, contenitore di indicazioni per azioni che lasciano spazio alla chance e all’indeterminazione. Nel video Noia di Mauro Folci la tensione della scena è determinata dalla sospensione della distinzione tra uomo e animale (leone).
IN/ACTION. Contro lo scacciatempo, la noia è il risultato espositivo del progetto selezionato a seguito del workshop Usiamo ancora i microscopi come clave. I media tra esaurimento e chance estetica tenuto nel mese di novembre 2017 da Maurizio Guerri e facente parte del programma Just Image a cura di Michela Eremita, in occasione di ToscanainContemporanea 2017.
Intervista con i curatori Lisa Andreani, Matteo Binci, Gloria Nossa e Milena Zanetti —
ATP: La mostra che curate è “la risposta critica e curatoriale” al tema Usiamo ancora i microscopi come clave. I media tra esaurimento e chance estetica, proposto nel workshop tenuto nel mese di novembre 2017 da Maurizio Guerri all’interno del programma Just Image a cura di Michela Eremita. Prima di entrare nel merito della mostra, mi raccontate quale è stato il fulcro o l’aspetto sostanziale da cui siete partiti per concepire il progetto-mostra?
Durante il workshop, Maurizio Guerri ha evidenziato l’utilizzo costrittivo e distruttivo dei media digitali e l’atteggiamento distopico che teniamo nei loro confronti. Partendo da questi presupposti abbiamo preso in considerazione il nostro rapporto con Internet, il quale sembra essere in qualche modo paragonabile a una “divinità”. Nella sua creazione di nuove connessioni e nuove relazioni, poniamo in esso la nostra “fede”, basata sulle molteplici possibilità di accrescere conoscenze ed emozioni. Ma è in questo rapporto di dipendenza che si produce un eccesso di immagini, conoscenze ed emozioni, un overwhelming – parola chiave del progetto della mostra – in cui si perde la propria consapevolezza, si è storditi e si perde controllo di sé. Si è bloccati in un flusso ininterrotto di informazioni, in cui lo spazio di riflessione non è consentito.
In questo dominio delle tecnologie – e delle società dietro a esse – abbiamo trovato nei concetti di interruzione e sospensione del tempo una pratica di resistenza alle continue richieste di performatività e adattabilità nel mondo del lavoro 24/7, in cui poter trasformare l’alienazione che ci sottende in possibilità, in momento di libertà e riflessione.
ATP: Una domanda individuale: quale è la tua relazione con i media e, più in generale, con i dispositivi tecnici (e tecnologici)? Questa domanda la pongo perché mi sembra significativo capire quanto il vostro potenziale immaginativo e intellettuale è condizionato dai (nuovi) media.
Milena Zanetti: Personalmente non ho un rapporto assiduo e stretto con i dispositivi tecnologici, cerco piuttosto di avere piena consapevolezza nel creare una relazione con essi. Capire il loro funzionamento e il loro rapporto con identità individuali e collettive mi permette di delineare i confini utili per una giusta “cura del sé”. Un termine coniato da Foucault in tutt’altro ambiente ma ricontestualizzato dal collettivo Ippolita per definire pratiche di autodifesa digitale. Questa locuzione esprime bene come il contatto con la tecnologia sia sempre più un contatto con la propria identità. Riflettere sulla tecnica e i suoi aspetti socio-culturali significa riflettere su quello che siamo. Non si tratta di un rifiuto nostalgico per tempi più analogici, ma una consapevolezza di come i dispositivi agiscono e influenzano le nostre vite. Da qui parte anche il tentativo di dare strategie per la maturazione di azioni concrete per affrontare il regime tecnocratico.
Matteo Binci: Né tecnofilia, né tecnofobia. Di certo non credo né alle utopie della rete, né al progresso tecnologico che promette, nel lungo periodo, il miglioramento delle nostre vite e la nostra emancipazione in quanto individui collegati. Bisognerebbe sicuramente incrementare l’alfabetizzazione tecnologica. Personalmente, non possiedo un livello linguistico appropriato e divengo, per questo, sicuramente più utilizzato che utilizzatore della rete. Le infrastrutture di collegamento della rete sono in mano a pochi soggetti che ne gestiscono i flussi, ne dettano le regole e ne pianificano l’utilizzo. È vero che molte rivolte si sono espanse grazie all’uso della rete e dei media, ma a parte rari casi in paesi con enormi e pre-esistenti problemi politici e un apparato statale incapace, che benefici reali ha portato la diffusione digitale delle contestazioni? Il “condividi” dell’online è fine a se stesso se non si traduce nella condivisione dell’offline. Che fine fa tutta l’energia che spendiamo nel virtuale? Siamo assenti o presenti? Vicini o lontani? L’umano vive di respiri e sospiri che non possono perdersi.
Concludendo, se ci fosse un calo di tensione (tecnologica), non andrei di corsa a riparare il malfunzionamento della centralina.
Gloria Nossa: Non nego la dipendenza dalla rete e, in particolare, dai social. Me ne rendo conto ogni volta che devo muovermi, studiare o banalmente leggere delle notizie. Ma cerco sempre di restare ad occhi aperti, considerare diverse alternative, possibilità non scelte già da altri. Assumere un atteggiamento nichilista e tecnofobo è inopportuno. Al contrario, bisogna prendere consapevolezza delle potenzialità e dei pericoli della tecnologia, sempre in evoluzione, senza però cadere in uno stato di tecnofilia. Come afferma Milena, è necessario affrontare il regime tecnocratico.
Lisa Andreani: Anch’io non nego di essere nella maggior parte dei momenti del mio quotidiano travolta dalla rete e dalla tecnologia. Ore e ore davanti al pc, la ricerca senza tregua, eppure considero la “svolta benefica” che la diffusione digitale promuove come ancora un passo più lungo della nostra stessa gamba. Studiare il sistema che il virtuale ha generato e continua a generare, attraversarlo ed emanciparsi è un percorso che raggiunge piegando il significato duplice di un termine, sollevandolo ricostituendo delle nuove attitudini. A volte scivolare a ritroso verso il passato, verso diversi modi di cogliere lo statuto del tempo in cui si condensano le nostre vite ci permette di produrre un’azione verso il presente.
ATP: Noia e tecnologia: come si collocano le opere dei sei artisti invitati tra questi due aspetti concettuali della mostra? Come si relazionano le opere tra loro?
Consideriamo gli artisti invitati dodici, e non sei, poiché parti di un dialogo che può essere ampliato, ma non ridotto. La mostra non vuole essere un confronto tra pratiche artistiche odierne e pratiche del passato (Fluxus), bensì la considerazione di un loro carattere di contemporaneità senza tempo. Infatti, vi sono relazioni continue e molteplici tra le opere senza piani di subordinazione nei nessi che si vengono a creare. In quest’ottica anche l’originalità, la riproduzione, la traduzione delle opere viene messa in discussione. Fotocopie, originali, materiali cartacei, installazioni ridotte e video tradotti sono tutti elementi indissolubili e da considerare sia nel loro statuto di singolarità, sia nel contributo che apportano all’ecosistema della mostra.
Detto questo, molteplici sono le direttive con le quali gli artisti si relazionano al tema della noia. Fondamentali sono sicuramente due lavori, lontani temporalmente parlando, ma vicini in ciò che concretizzano e formulano. Sono rispettivamente il testo Boredom and Danger (1968) di Dick Higgins e il video di Aideen Doran Oblomov’s Dream (2015).
La riflessione dell’artista Fluxus sottolinea la dialettica tra noia e intensità e pone attenzione a ciò che chiama “super boring”, una noia che porta oltre il livello iniziale della semplice noia. Strettamente connessa è l’opera 4′ 33” di John Cage, in cui il silenzio convenzionalmente inteso non esiste, ma l’ambiente circostante entra a far parte dell’esecuzione, cancellando le dicotomie soggetto-oggetto e arte-vita. Nel video A tribute to John Cage di Nam June Paik è centrale la ri-esecuzione, da parte dello stesso Cage, di 4’ 33” in diversi luoghi di Manhattan, scelti attraverso la tecnica I-Ching del lancio della moneta. Emergono l’indiscussa attitudine Zen, la casualità e la democratizzazione dei suoni, fondamentali per Cage.
La risposta all’eccessiva performatività attuale da parte di Doran è il riadattamento dell’opera di Ivan Gončarov Oblomov (1849), in cui sono evidenziate il continuo soccorrere dell’iper-velocità delle immagini virtuali e l’elaborazione di una stanchezza e un’immobilità che nel suo continuo aumentare produce un’azione reattiva.
Da questi due punti focali si espandono le diverse corrispondenze tra pratiche Fluxus e artisti dell’ultima generazione. L’immagine continua a rimarcare il carattere performante delle nostre attitudini. Nei lavori di Dario Maglionico le personalità sono continuamente segmentate in perpetue “transizioni”, l’immagine di Matteo Cremonesi vive nel perfetto bilico tra intimità e riluttanza verso la formalizzazione ed estetizzazione prodotta dal sistema economico capitalista, Rustan Sönderling ci conduce ad una forma di adorazione di fuoco digitalizzato, Gli imbambolati di Benni Bosetto ci invitano a provare una condizione di contemplazione. A concludere la mostra sono il fluxbox Water Yam di George Brecht e il video Noia di Mauro Folci. Il primo contiene al suo interno diversi cartoncini (in questa edizione, 72) nei quali sono impressi gli event-scores: indicazioni, note e immagini orientate alla realizzazione di azioni all’interno dello Yam Festival, ispirate alla vita quotidiana e capaci di sottrarsi alla mercificazione dell’arte. Nel video Noia di Mauro Folci la tensione della scena è determinata dalla sospensione della distinzione tra uomo e animale. Il gesticolare tra le mani dell’uomo e le zampe del leone allude al concetto di noia profonda descritta da Heidegger. Il filosofo parla di noia per capire cos’è mondo per l’essere umano e a tal fine distingue l’ambiente animale dal mondo umano. L’animale è impossibilitato a cogliere il mondo come carico di potenzialità poiché continuamente stordito dai disinibitori che gli impediscono anche l’annoiarsi. Nella noia è in questione l’antropogenesi, il passaggio dall’ambiente animale al mondo umano.
L’apparato di libri d’artista, documenti e pubblicazioni legati a Fluxus destruttura quando individuato nell’analisi contemporanea, concede uno spazio vuoto, di pausa, per interrogarsi e soprattutto per concedere ancora un ripristino della noia attuale.
ATP: Una domande sull’allestimento: quale pratica espositiva avete seguito per mettere in relazione le opere? C’è un percorso da seguire che sia filologico con il concetto della mostra?
Nel testo curatoriale di sala abbiamo utilizzato il termine “straripamento” per definire il dispositivo narrativo della mostra. Le pratiche artistiche Fluxus e le opere dei sei artisti viventi sono in continua relazione durante tutto l’apparato allestitivo e tra loro c’è un continuo travasamento di materia visiva e ideologica. Ci piace vedere la dialettica intrinseca nella mostra come una sostanza fluida contenuta in due recipienti comunicanti tra loro che, come per il principio dei vasi comunicanti, crea un’unica superficie in totale equilibrio e in costante allineamento l’una con l’altra.
Questo ci ha permesso di creare una sospensione temporale in cui pratiche artistiche di periodi storici differenti sono in continuo contatto tra loro lasciando al pubblico una piattaforma visiva unitaria in cui il concetto di noia viene presentato in tutte le sue diverse formalizzazioni. La mostra distribuisce dunque, nelle sue due sale, materiale per lo più cartaceo degli artisti Fluxus, tra libri d’artista e scritti consultabili, nei quali abbiamo trovato un bacino teorico e immaginifico per creare collegamenti con le considerazioni sul tema proposte dagli artisti viventi. Quest’ultimi indagano la noia in più stretto riferimento all’odierna tecnologia della comunicazione di massa, adottando formalizzazione ben diverse da quelle del movimento Fluxus. La loro ricerca si oggettualizza in forme molto differenti tra loro, tra video, fotografia, scultura e olio su tela.
ATP: La sensazione di noia a volte accompagna la sperimentazione di una sazietà che non appaga, non soddisfa. Noi, dunque, come una sazietà insaziata, una pienezza che non riempie. La vita – mediata da un surplus di notizie che non solo non ci servano, ma per l’appunto ci annoiano – appare inutilmente riempita, senza che ciò che la riempie sia capace di dare ad essa compimento, compiutezza e, soprattutto, un senso. Quale è il tuo scaccitempo contro la noia? L’arte ci serve per riempirci la vita o per darle un senso?
Per dare una risposta a quest’ultima domanda è utile considerare, innanzitutto, il saggio scritto da Aideen Doran che abbiamo inserito nella raccolta di scritti che possono essere raccolti gratuitamente in mostra. Nel testo viene ribadito come i dispositivi anti-noia che ci circondano – e che ci sovraccaricano di informazioni – fanno riferimento a una forma di noia prodotta dalla cultura della distrazione che opera nel tempo del just in time e che non consente spazio di riflessione. In altre parole, alludono a una noia che fa perdere tempo (l’artista utilizza il termine wasting time), in cui si è oggetti e non soggetti del tempo.
Sostanzialmente diversa è la noia profonda di Heidegger, in cui il soggetto entra direttamente in contatto con il tempo e con la propria essenza. In questo stato d’animo si è guidati verso una riflessione fuori dal tempo, in cui ripensare la propria temporalità, il proprio essere al mondo e – iniziamo a rispondere alla domanda – mettere in crisi gli scacciatempo. Questi, sempre secondo l’analisi di Heidegger, non aiutano a dare un senso alla vita ma al contrario riempiono in maniera superficiale e continua la stessa per non far sentire il senso di vuoto e sospensione. Sono delle distrazioni, parte della cultura dominante, che ci occupano lasciando incosiderata qualsiasi riflessione.
Per questo riteniamo più corretto parlare di “noia contro gli scacciatempo”, e non di “scacciatempo contro la noia”. La noia che consideriamo, intesa come profonda e radicale, permette di dare un senso alla vita, questionare la nostra essenza oltre la presenza, oltre il surplus di informazioni che ci riempie inutilmente. E secondo queste considerazioni, potremmo intendere l’arte come una forma di questa noia non superficiale, in cui rifiutare gli scacciatempo, essere soggetti oltre che oggetti, pensare oltre che essere pensati.
IN/ACTION Contro lo scacciatempo, la noia
Fino al 9 dicembre
Santa Maria della Scala – Comune di Siena
A cura di Lisa Andreani, Matteo Binci, Gloria Nossa e Milena Zanetti
Just Image_ Project Room a cura di Michela Eremita
Group Show: Benni Bosetto, Matteo Cremonesi, Aideen Doran, Mauro Folci, Dario Maglionico, Rustan Söderling, George Brecht, John Cage, Dick Higgins, Jackson Mac Low, La Monte Young, Nam June Paik