In dialogo con Massimo Minini ✍

6 Novembre 2013

Il prossimo 19 novembre, La Triennale di Milano ospita la mostra  ‘Quarantanni d’arte contemporanea – Massimo Minini 1973-2013’. La mostra è costituita da opere passate dalla Galleria Minini, un vero e proprio spaccato di storia dell’arte contemporanea raccontata da un punto di vista speciale, talvolta ironico e  dissacrante dall’attore protagonista. Una storia con molti flash back, in cui Massimo Minini cerca di legare, giustificare e raccontare i vari momenti e passaggi con quella modalità tipica che ha trovato una peculiare forma letteraria nei “Pizzini”, diventati un libro di successo con brevi favole, flash, racconti sugli artisti incontrati in questi anni.

In occasione di questo appuntamento importante, il critico e curatore Antonio Grulli, ha iniziato un’intensa conversazione con Massimo Minini. Gli ho chiesto di condividerla con ATPdiary.

? CS Massimo Minini Triennale, Milano

Massimo Minini,   foto Paolo Chiasera

Massimo Minini, foto Paolo Chiasera

Ciao Massimo, eccomi finalmente per parlarti del nostro dialogo. Come ti accennavo per telefono, mi farebbe piacere realizzare con te non un’intervista, ma una vera e propria chiacchierata che abbia al centro di tutto i tuoi anni di attività per allargarci poi liberamente a tematiche altre, anche di attualità del sistema dell’arte, ma non solo. Mi piacerebbe fare un bel dialogo, intenso e lungo a nostro piacimento, senza porci limiti iniziali. Come ti accennavo la Elena Bordignon di Art Texts Pics sarebbe felice di pubblicarlo. Ora rimane da capire come vogliamo procedere. Una possibilità riguarda anche il modo in cui spesso ho lavorato negli ultimi anni come critico. Uno dei formati che prediligo è quello del dialogo costruito via email in cui vi è la massima libertà di stile e lunghezza degli spunti che vengono affrontati. Ovviamente inizia uno dei due con una riflessione che intende approfondire, a cui poi risponde l’altro e via così, anche inserendo propri brani nel mezzo del testo altrui. Mi piace il fatto che sia una forma diretta, veloce, in cui si scrive di getto, e in cui si evitano quasi sempre elucubrazioni mentali troppo vaghe ed astratte. Credo possa essere interessante anche rispetto alle forme di scrittura che hai utilizzato anche tu negli ultimi anni, spesso basati sulla forma breve, il frammento, l’anedottica e una certa velocità di esecuzione.

Dimmi tu Massimo, come ti sembra?

Massimo Minini: Ok vediamo. Sono strapreso da tante cose ma mandami una domanda. Ora scrivo col blackberry ma lo farò meglio domani. Intanto dimmi tu. Jerry Saltz scrive su vulture.com considerazioni identiche a quelle che ho espresso al Festival di Faenza, nella sua prima edizione, e che ho poi pubblicato (Supermarché) in Mai scritti. Il sistema di gallerie ha subito di recente una specie di mutazione genetica. Gallerie O.G.M., Gagosian/Hauser/Pace/Zwirner/Saatchi. Unica lotta contro lo strapotere è forse il terrorismo e la guerriglia…? Guastare! Che fare? 

Beh, secondo me abbiamo già cominciato e mi sembra il caso di continuare su questo tuo ottimo spunto iniziale. Ti mando alcuni spunti tutti insieme. Tu se vuoi rispondi singolarmente o in un colpo solo. Come preferisci.

Ho letto l’articolo di Saltz, me lo ha mandato Diego di recente. E’ molto interessante e tocca questioni cruciali. Però non sarei così critico. Mi sembra solo che anche nell’arte sia avvenuta una differenziazione che in altri campi esiste già da tempo, con il crearsi di una vera e propria industria volta solo al guadagno di grandi economie. Forse ci stiamo avviando verso una situazione come quella del cinema. Ma secondo me basta aver chiaro che si tratta di due lavori diversi: cito spesso Rossellini, che quando fu corteggiato da Hollywood rispose che la cosa non aveva senso perché facevano due mestieri differenti, lui faceva il cinema mentre loro insaccavano salsicce.

MM. Sarà anche diversa, ma ci riferiamo allo stesso mondo. Nelle fiere siamo gli uni accanto agli altri. I nostri referenti non possono non restare catturati da tanta potenza. Poi chissà, forse cascheranno come l’impero romano, un tempo, ma non è detto.

Mi sembrano invece più interssanti alcune cose contenute nel tuo testo Supermarchè, e che effettivamente sono collegate al testo di Saltz. In particolare quando sottolinei come l’opera d’arte non sia più al centro del mondo dell’arte,

MM. In effetti sono nate tante altre “arti” ed alcune hanno preso il sopravvento nella capacità di comunicazione. Una volta si comunicava con la pittura, i segni, i graffiti. Oggi ci sono mezzi più efficaci, e le “vecchie” belle arti soffrono la concorrenza.

Questo è un punto anche per me fondamentale, che ho affrontato spesso nei progetti sulla critica che ho fatto di recente e che volendo vederla in termini storici potrebbe essere accomunata al mercato dei subprimes o dei derivati. Poi prosegui tirando in ballo le accademie. Ecco, credo che questo sia uno dei punti cruciali, almeno a livello di vocabolario: viviamo un tempo di profondo accademismo. La gran parte del sistema dell’arte, e di riflesso anche la maggior parte delle nuove leve artistiche, è profondamente conformista.

MM. Sì, dico che è meglio un artista che viene dal marciapiede. Intendo in senso lato. A volte l’Accademia ti spezza qualcosa dentro, nel marciapiede al massimo pesti una merda. In questo senso anche Garutti…. dici più avanti. Alberto non solo lo stimo, ma lo amo. Lui è (stato) un grande prof. Dopo Marino Marini e Luciano Fabro viene lui, seppure con un metodo diverso, pare (non ho frequentato…). Se possiamo fargli un appunto, diciamo che è uno che parla, parla… a volte mi ci perdo.

A volte mi sembra che i giovani artisti di oggi nascano già vecchi, se non morti. Non parlano mai dell’opera d’arte in se ma solo del sistema, come anche tu fai notare. Le accademie sono il primo grande passo… da non sbagliare, pena un cv inficiato fin dall’inizio che non permetterà grandi successi immediati a prescindere che le loro opere siano valide o meno; a proposito – permettimi di essere cattivo – non credi che in Italia anche un tuo grande amore come Alberto Garutti possa avere delle responsabilità rispetto a questa attitudine accademica?

MM. Non si sfugge all’accademia se si accetta l’accademia, dunque? Parrebbe di sì. Il sistema si distrugge, non si modifica dall’interno. Bella frase, poi chissà, nella pratica è impossibile. Dal di dentro si può cambiare qualcosa, ma andremo sempre più in una direzione di potenza e non di poesis, di quantità e non di qualità.

Forse è interessante affrontare tutto questo dal punto di vista della relazione del sistema con le gallerie. Vorrei farlo anche qui in maniera pungente, permettimelo. Perché attorno vedo che tutti gli operatori del mondo dell’arte che vivono in maniera ossessiva il confronto con la galleria d’arte e non solo con le gallerie giganti che avete tirato in ballo tu e Saltz, e che in fin dei conti sono poche. Sinceramente mi sembrano tutti impazziti, in primis gli artisti, e parlo del panorama internazionale, non solo di quello italiano. Ogni volta che si è in un gruppetto di persone del mondo dell’arte si parla SOLO di gallerie e di fiere, e mi sembra abbastanza triste.

MM. Racconto nei pizzini (Salvo e Toroni) che quando andavo da loro volevo parlare d’arte, del loro lavoro. Ma Salvo aveva l’arrivo di tappa del Giro d’Italia, Toroni aveva il film western in tivù. Insomma ho imparato che per capire l’arte bisognava occuparsi della vita. Poi Salvo aveva la partita di biliardo, Toroni aveva fame….

Gli artisti ormai pensano che la galleria con cui lavorano “faccia” il loro lavoro e permetta che dal pubblico e dagli addetti ai lavori venga percepito in positivo, se la galleria è a la page, o in negativo, se lavorano con gallerie poco considerate; questo implica, in maniera ovvia, a mio parere, che questi artisti per primi hanno una scarsa considerazione della qualità delle loro stesse opere, visto che queste ultime hanno bisogno di una stampella esterna.

MM. Art is 20% inspiration and 80% perspiration…

I giovani che escono dalle accademie bramano solo di lavorare con le gallerie giovani più alla moda, e quelli che riescono ad avere un minimo di attenzione dal sistema rifiutano la possibilità di ritorno economico con gallerie anche buone solo perché attendono la “santa” chiamata da parte delle poche elette, spesso perdendo le prime senza ottenere nulla dalle seconde: ti assicuro che ho assistito di persona a molte situazioni simili. Capirei tutto questo se fosse motivato da ragioni economiche, ma molto spesso non si tratta nemmeno di questo. Perché sappiamo benissimo che anche queste giovani gallerie alla moda non sempre riescono a monetizzare il loro carisma. Si basa tutto su una pretesa superiorità intellettuale che in nove casi su dieci è assolutamente falsa e basata invece sull’abilità di costruirsi amicizie:

MM. Cazzo questo si che è ragionare. Lo penso da sempre. Mi spiace usare la formula: “ai miei tempi…” ma è così. Ai miei tempi Schifano aveva venti gallerie nella sola Italia. Boetti dodici, Paolini nove, Lewitt undici. Dan Graham ha esposto da Amelio, Rumma, Bonomo, Schema, Toselli, Minini, Franz, Sperone, Forma…

Oggi sti cagasotto si fanno fottere dalle giovani gallerie che li ricattano. Io gli dico sempre, guarda cosa faceva Mario Merz, libertà, libertà (Gaber), l’artista deve condurre la propria danza, altrimenti fai la fine di Alessandra Tesi….

Di recente ho letto un bellissimo articolo di Piero Ostellino sul Corriere della Sera che per spiegare l’ingresso di Mario Monti in politica (non basato su alcuna effettiva capacità politica provata) ha parlato di “economie di relazione”. Ecco, mi sembra che il concetto di economia di relazioni sia perfetta anche per il mondo dell’arte. Personalmente oggi rimpiango i vecchi mercantoni, il mondo dell’arte ha bisogno di liquidi, di tanti liquidi; vedo grandi artisti (soprattutto in Italia) fare la fame e deprimersi combattendo come matti per riuscire a tenere il morale alto, condizione necessaria…

MM. …ma non sufficiente diceva il mio professore di geometria nell’unico anno di ingegneria che ho fatto….

Per fare anche buone opere. Vorrei vedere degli animali del commercio come ne esistevano una volta battere le case per vendere, convincere nuovi ricchi a iniziare a comprare, piuttosto che la banda di fighetti che vedo ora nel mondo dell’arte pronti a scannarsi per i soliti quattro nomi.

MM. Il mio maestro è stato Luciano Pistoi, un genio, uno raffinato. Lui era il mercantone che tu dici, ma non come Telemarket, semmai come Mario Tazzoli…

Non mi fraintendere, per me la responsabilità non è dei galleristi.

MM. No guarda è anche dei galleristi, e se te lo dico io devi credermi.

Ovviamente questi tirano l’acqua al loro mulino. Non riesco però a capacitarmi che gli artisti, i curatori e i critici siano così deboli caratterialmente, un indice non certo favorevole rispetto alla qualità del loro operato. Ma voglio provare a metterti sul tavolo alcune idee provocatorie ma non del tutto. Perché forse c’è un ritardo anche nella modalità in cui è strutturato il mercato dell’arte soprattutto rispetto ai giovani artisti. Ha ancora senso che ogni artista lavori solo con un ristretto gruppo di gallerie? Posso capire che abbia senso per i grandi maestri. Ma per un giovane non sarebbe semplicemente meglio che vendesse le sue opere tramite chiunque sia in grado di farlo?

MM. Be’ chiunque forse no, ma allargare un po’ mi parrebbe saggio. Tanto più che, ‘the other way round’, noi gallerie vecchiotte cerchiamo di tenerci aggiornati inserendo artisti giovani, ma appena molliamo un vecchio per rifarci il trucco, le gallerie “giovani” lo prendono subito! Ad esempio Massimo de Carlo (ammesso che sia una galleria giovane) prende Ontani, Lavier, Lewiit, Weiner, Castellani, Dadamaino…

Courtesy Massimo Minini

Courtesy Massimo Minini

In questo modo la riflessione sul lavoro dell’artista sarebbe scevra da ogni ragionamento di sistema, in primis. E le stesse gallerie giovani pur perdendo il loro miserabile monopolio su un piccolo orticello potrebbero potenzialmente attingere ovunque. Oltretutto i prezzi dei giovani artisti, soprattutto in Italia, mi sembrano assolutamente drogati verso l’alto. Per questioni puramente di orgoglio e per non sembrare inferiori agli altri, vedo solo degli artisti fare la fame. Anche rispetto a questo forse servirebbe una moratoria in cui tutti i giovani artisti (perlomeno italiani) rivedano al ribasso i loro prezzi.

MM. Oggi tutto è fuori prezzo, il mercato del contemporaneo in molti casi è un furto, gli artisti spingono disperatamente verso il baratro. Vale la pena di comperare alle aste opere belle di artisti freddi. Io sto comperando Leon Golub, non dovrei dirlo. In galleria 300.000 in asta 35.000

Queste contraddizioni pericolose però le vedo anche nei galleristi. Ti sembra ancora sensato il sistema delle fiere così come è strutturato ora? Tralasciamo il fatto che siano dei luoghi orribili. Ma inizio a sentire di gallerie molto potenti che crollano sotto il peso delle spese enormi che sono costrette a sostenere per rimanere nel giro degli eletti… se vuoi posso farti anche i nomi….

MM. All’ultima riunione di comitato al Miart ho dato le dimissioni perchè devo assumere impegni altri e importanti. Ma ho gettato sul piatto una proposta. Mi hanno detto subito di no. Ma non credo abbiano capito bene. Io poi non ho insistito, ma la tiro fuori ancora. Ormai non facciamo più fiere con la testa libera. Siamo preoccupati di pagare le spese che sono enormi. Ho proposto una fiera semplice, senza orpelli, senza viaggi pagati, senza feste, cene, cotillon. Senza catalogo che tutti buttano via nell’immediato dopofiera. Una fiera leggera dove i galleristi tornino a fare sperimentazione. Una citta importante. Fiera completamente gratuita per gli espositori. Solo 59 gallerie ultraselezionate, che facciano una fiera sperimentale anche invitando gli artisti a essere presenti e fare lavori appositi. Qualcosa di nuovo, di diverso.

Ti mando un ultimo spunto rispetto a queste riflessioni legate al sistema del mercato. E riguarda i collezionisti italiani, anche se immagino possa essere una tematica delicata per te… Ne conosco tanti e sono davvero preparatissimi. Ma mi sembra che molti di loro, per un unico aspetto, siano ancora molto provinciali. Ed è un provincialismo strano, tutto italiano. Consiste nella loro esterofilia esasperata; sembrano in grado di eccitarsi e comprare quasi solo artisti stranieri, e da gallerie straniere, verso le quali hanno una sudditanza psicologica preoccupante. Io vivo in una piccola cittadina, Bologna, ma passo molto tempo all’estero dove ho molti amici. Quando sono a Berlino, come oggi, e incontro collezionisti locali noto che le loro collezioni sono composte al novanta per cento circa da artisti che vivono in Germania, e metà di questi vivono a Berlino e lavorano con gallerie della città. Noto lo stesso quando vado a Londra (collezioni England/London based), New York, Parigi (qui le percentuali si alzano…), ma non solo. Noto la stessa cosa quando vado in paesi non così potenti. Gli unici che fanno esattamente il contrario, siamo noi italiani, e questo mi sembra sconvolgente. Non fraintendermi, non è una questione nazionalistica, e non faccio un ‘ragionamento di passaporto’. Riguarda la necessità di dare un senso (che è l’essenza dell’arte) alle cose, e quindi anche alle proprie collezioni. E il primo “senso” in cui ci muoviamo è necessariamente dato dalla comunità nella quale viviamo. So bene che le condizioni fiscali in Italia sono impietose, ma anche tu avrai notato che non dipende solo da questo. Troppi esempi me lo dicono. Oltretutto gli artisti italiani sono davvero di livello altissimo e che non dipenda dal loro livello qualitativo lo capisci dai molti che hanno faticato tremendamente negli anni passati e adesso vengono rivenduti profumatamente da gallerie straniere. Devo portarti l’esempio di un Griffa? Esempi ne avrei tanti, ma evito per amor di patria di tirare fuori situazioni grottesche come quest’ultima a cui ho accennato. E quello che ti dico è un fattore oggettivo: ripeto spesso (perché mi sembra davvero significativo) che a Bologna negli ultimi decenni hanno vissuto artisti come Cattelan, la Lambri, Pessoli, Trevisani, Vascellari, e tantissimi altri di livello davvero alto, ma di loro nelle collezioni delle grandi famiglie cittadine non è presente quasi nulla. Mi diceva qualche giorno fa Paolo Chiasera che in tutta Bologna (dove è nato e cresciuto) ci dovrebbero essere un paio di opere in collezioni private. Questa esterofilia riguarda ovviamente tutto il sistema italiano (curatori, critici, artisti, galleristi, ecc), non solo i collezionisti. Ma parlandone con te ed essendo in tempi di Artissima ho preferito concentrarmi su questo punto. Sai benissimo che poi, molto spesso, nel momento in cui si spostano i soldi anche tutto il resto segue… Sarebbe bello proporre un’altra “moratoria”, un anno in cui i collezionisti italiani comprino in prevalenza artisti italiani mid-career. La storia insegna che non sarebbe beneficienza: se avessero comprato Griffa, Ghirri, Calzolari, Mauri, Baruchello nel momento giusto, quanto avrebbero guadagnato?

MM. Interessante. Diciamo che la tua difesa dell’arte italiana mi piace. Io penso che abbiamo un numero straordinario di grandi artisti nel XX secolo e oltre. Quando Szeeman abolì la partecipazione italiana io feci una maglietta (Italians do it better) con cinquanta nomi italiani strepitosi.

Ma…

A parole mi piace a volte affermare un concetto e poi contraddirlo. Provo?

Il fatto che collezionisti italiani acquistino artisti stranieri non è assolutamente provincialismo. È apertura mentale, disponibilità, curiosità. Non abbiamo forse detto che i francesi sono sciovinisti? E perché? Ma perchè comprano solo francesi, leggono solo francesi, bevono solo champagne.

Noi invece siamo superiori, curiosi, ci guardiamo in giro, non abbiamo paraocchi, abbiamo in Italia collezioni fantastiche dalle quali A) possiamo avere un panorama internazionale invidiabile, B) possiamo trovare un sacco di opere interessanti quando le cerchiamo. Quindi potrei affermare che l’attitudine italiana non è per niente provinciale. Provinciali sono semmai quelli che, avendo paura della cultura del grande mondo, si chiudono entro le mura. Provinciali sono anche quelle culture che, presumendosi superiori, snobbano ed ignorano culture locali pretese minori.

Quindi evviva, l’Italia ha un approccio apparentemente di sudditanza ma di fatto molto libero con l’arte del mondo. Questa entra nelle collezioni ed alimenta il confronto…

TO BE CONTINUED…

Peter Halley,   Alessandro mendini,   2008,   Veduta della mostra,   Galleria Minini,   Brescia,   Foto Andrea Gilberti copia

Peter Halley, Alessandro mendini, 2008, Veduta della mostra, Galleria Minini, Brescia, Foto Andrea Gilberti

Anish Kapoor,   Widow,  2004,   pvc,   Veduta della mostra,   Galleria Minini,   Brescia,   Foto Attilio Maranzano

Anish Kapoor, Widow, 2004, pvc, Veduta della mostra, Galleria Minini, Brescia, Foto Attilio Maranzano

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