Testo di Vania Granata —
Una mostra appassionante, densa di incroci, stratificata come il terreno, il pensiero, la terra, il cosmo; questo è il carattere dell’esposizione Grazia Toderi. Marco (I Mark We Mark) che l’Accademia Nazionale di San Luca a Roma presenta sino al 30 luglio 2022.
Per esplorarne i contenuti siamo qui di seguito in conversazione con l’artista Grazia Toderi e con il vice-presidente dell’Accademia Nazionale di San Luca Marco Tirelli che ne ha realizzato la cura.
Vania Granata: Sicuramente la sovrapposizione e lo sconfinamento di molti livelli significanti coniugati a una forte riflessione linguistica ed intermediale, appartiene e caratterizza il tuo percorso creativo.
A questo riguardo vorrei partire dalla connotazione polisemica del titolo – Marco (I Mark We Mark) – che hai scelto per la tua mostra all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma. Come mi narravi, l’esposizione scaturisce da alcune immagini realizzate nel 2019 da tuo fratello Marco Toderi su tuo invito. Sono immagini del terreno che recano l’impronta del suo passaggio – la sua orma – e del suo lavoro come agronomo che, da te rielaborate, costituiscono la base fondamentale dei lavori in esposizione. Nel titolo, il nome proprio di tuo fratello Marco (cui la mostra è dedicata) viene trasposto in assonanza al verbo inglese “to mark”, come anche ribadisce il reiterato uso della emme maiuscola iniziale per entrambe le parole, coniugato quindi nella prima persona singolare e plurale – I Mark We Mark-. Nella frase scelta, proprio questo ultimo passaggio dall’Io al Noi, e dunque da una dimensione soggettiva e biografica ad una collettiva ed universale, mi sembra centrale e determinante nella tua poetica. Che ne pensi?
Grazia Toderi: Penso che ciò che “marchiamo” attraverso il nostro passaggio (sulla Terra e sulla terra, come puntualizzato da mio fratello) vive trasferendosi dalla nostra energia a quella degli altri. La vita si trasmette non solo attraverso la genetica, ma attraverso l’energia invisibile dei nostri desideri e dei nostri affetti. Delle nostre memorie. Il tuo passaggio, il tuo marcare, incontra il mio, e il nostro. Nel titolo della mostra, Marco (I Mark We Mark), oltre all’uso del maiuscolo, è anche la parentesi ad appropriarsi di una diversa funzione. Non indica solo il passaggio da una lingua a un’altra, ma da un soggetto a un verbo, singolare e plurale, che riverbera in altri significati. Le immagini di mio fratello hanno registrato non solo le sue orme sulla terra ma anche, attraverso il mirino e l’obiettivo, la scelta del suo sguardo, quindi della sua mente. Forme “terrestri” che gli sono apparse, modellate dal tempo, ma anche da luce e ombra. Che mi ha trasmesso come immagini da lui create con luce e ombra. E che io a mia volta ho trasformato in altra luce e altra ombra. La prima di questa serie di opere, sei proiezioni video dal titolo Marco (I Mark), fu esposta nel 2019 nella Sala delle Armi di Palazzo Vecchio a Firenze, accompagnate dalla nostra Conversazione sulla Terra [dialogo tra Grazia Toderi e Marco Toderi. riportata in catalogo N.d.R]. Avevo realizzato anche altre opere che avrei dovuto esporre il 2 aprile del 2020. Purtroppo la mostra fu cancellata a causa della pandemia e quel giorno non mi rimase che aprire una pagina Instagram, con le immagini che annunciavano il suo annullamento. Solo adesso, grazie all’invito di Marco Tirelli e dell’Accademia di San Luca, ai quali sono immensamente grata, ho potuto esporle.
VG: Proprio in Conversazione sulla Terra, tuo fratello afferma di pensare al nostro pianeta: “come un singolo granello di sabbia che in connessione con tutti gli altri granelli/pianeti formano di nuovo terra”. Questa descrizione che unifica idealmente il livello del terreno a quello cosmico del sistema planetario mi sembra calzare perfettamente alla stratificazione delle immagini dei tuoi video che, giocando sull’ambivalenza visiva di un territorio ripreso dall’alto, sovrappongono cielo e terra/dentro e fuori.
GT: Per realizzare le mie proiezioni video aggiungo tempo tra una immagine e l’altra. E le trasformo stratificandole le une sulle altre. E’ una lavorazione molto lunga, che indaga il tempo, e che richiede tempo. Il nostro pianeta brulica di azioni fatte dagli esseri che lo abitano. Ma la maggior parte di tutto ciò che avviene in questo momento sulla Terra è invisibile se visto da un satellite. Da lontano la trasformazione geografica della nostra terra/Terra è lentissima e quasi invisibile. Ed è il punto di vista che trasforma la visione, evidenziandone l’ambiguità. Come scrive mio fratello, la Terra è un singolo granello di sabbia. Io aggiungerei che anche l’essere umano è un granello di sabbia che, in connessione con tutti gli altri granelli di sabbia, tenta di comprendere e rappresentare se stesso e il mondo.
VG: La stessa ambivalenza si può peraltro rilevare anche nel sistema di puntamento (o di misurazione) che sovrasta graficamente le immagini.
GT: In questa serie di opere appaiono segni luminosi. Sono strumenti di misurazione e ricerca, goniometri e mirini, che possono servire per misurare lo spazio, per mettere a fuoco, per orientarsi nello spazio.
VG: Nell’allestimento che hai costruito al pianterreno dell’Accademia di San Luca, lo spettatore deve necessariamente entrare con il suo corpo all’interno delle proiezioni – camminarci sopra, accanto o al di sotto – divenendo così, come mi dicevi, “portatore di ombra”. Anche l’ombra proiettata diviene strato, immagine sulle immagini, riflettevo. Che relazione sussiste tra questi lavori e lo spettatore e che significato ha l’ombra nella tua opera?
GT: Dal punto di vista meramente tecnico qui l’ombra agisce, incontrollabile e indipendente, come fosse un nuovo livello del video, trasformando momentaneamente l’opera.
In questa mostra lo spazio non è supporto per le opere, ma percorso che le rende sensibili al passaggio del visitatore. E’ una mostra “radente” che viene intersecata dal visitatore.
Il percorso tra le tre sale al piano terra di Palazzo Carpegna sembra una tavola di teoria delle ombre.
Nella prima sala troviamo una proiezione a pavimento. Ci affacciamo dall’alto su un pozzo di rosso magmatico sul quale ruota un goniometro luminoso. Nel momento che lo attraversiamo noi stessi veniamo misurati, mentre diventiamo al contempo “immagini” e “proiettori di ombra”. L’opera si adagia di fronte alla soglia di pietra che conduce alla seconda sala. Attraversando quel passaggio la nostra ombra scatta da orizzontale a verticale, e viene proiettata sulla parete come in un prospetto. Se nella prima sala eravamo sopra alla visione della terra, o di un cratere, o di un corpo umano visto al microscopio, nella seconda sala siamo dentro alla sua profondità, una parete verticale di fianco a noi. Poi, attraversando la soglia tra la seconda e la terza sala, la nostra ombra scompare per riapparire, deformata e proiettata nella volta dell’architettura, solo se percorriamo il perimetro della sala alla ricerca di punti di vista differenti. Qui a volte riconosciamo una vaga visione satellitare della superficie terrestre, in trasformazione continua. Alla base della tecnica mnemonica della fotografia tutto è basato su negativo e positivo. Nel nostro pianeta si alternano luce e ombra. E nell’Universo vediamo l’espandersi della luce delle galassie, e il suo comprimersi nel buio. Forse esiste anche per noi uno stato fisico diverso, in cui non siamo più portatori di ombra ma portatori di luce?
VG: Tecnicamente l’ombra rappresenta la certificazione del volume di un corpo, della sua esistenza e del suo passaggio ma anche – paradossalmente e al contempo – della sua assenza e del suo aleggiare: l’ombra, per l’appunto. Mi viene da paragonarla al fatto che nel buio dell’universo percepiamo la luminosità stellare (tema che ti riguarda strettamente) in ritardo rispetto alla vita della stella stessa, forse già scomparsa mentre eppure la ammiriamo. L’ombra è dunque un segno ambivalente e pluri-stratificato, come la luce d’altronde. Questo assommarsi di segni, linguaggi, significanti e media eterodossi contemporaneamente coesistenti che ritrovo costantemente nei tuoi lavori è, ai miei occhi, il vero carattere intermediale della tua ricerca artistica, tangibile anche nei tuoi disegni su fogli di carte sovrapposte sino alla proiezione video Luci per K222 che chiude il percorso espositivo nella Rampa borrominiana dell’Accademia di San Luca. L’“imago densa” che ne deriva è l’esito di un fitto processo di sedimentazione che, oltre ad essere visiva, diviene concettuale. Vuoi parlarmene?
GT: Desideravo che in questa mostra le opere instaurassero una relazione vitale con lo spazio. Alle proiezioni di luce e ombra delle tre sale interne ho contrapposto il riverbero della luce naturale e del sole che illumina i piccoli crateri di impatto dello stagno fuso sulle geografie dei disegni Orbite Rosse (2009) installati nel portico.
Che introducono al percorso ascensionale e discensionale della Rampa di Borromini, percorsa dai disegni Eterno impersonale (2006), Dissolving Babel (2019) e Disappearing Map (2016-2018), dedicati al mito della Torre di Babele. E in Luci per K222 (2013), che inizia e termina il percorso nella Rampa, ho lavorato utilizzando lo stesso procedimento di stratificazione, realizzando un archivio di immagini di antichi strumenti musicali. Nelle loro forme avevo ritrovato la visualizzazione della scrittura musicale, dello spartito e del pentagramma. Uso strumenti nuovi, che mi permettono di realizzare un canto dal tempo circolare e potenzialmente infinito, formato non solo da suoni ma anche da proiezioni di luce. Così nel video ho chiuso la linearità del pentagramma in cinque di anelli concentrici sui quali ho trascritto le note dell’offertorio di Mozart “Misericordias Domini K. 222”, per permettergli di “cantare in eterno”. E ho tradotto le note nere dello spartito musicale in punti luminosi, che si accendono e spengono seguendo i valori musicali matematici scritti da Mozart. La forma dell’anello-pentagramma riprende la forma della pianta stessa della Rampa, e al tempo stesso descrive un sistema di orbite planetarie, come in un sistema solare. Arrivando alla sommità della rampa troviamo tre immagini su carta. Nella forma del pentagramma appaiono simultaneamente tutte le note. Musicalmente e concettualmente parlando: come se tutte le note dell’Offertorium suonassero nello stesso istante diventando, per un attimo, una unica voce. Come mi chiedevi nella prima domanda di questa intervista: ancora un passaggio dall’Io al Noi…
VG: Nelle proiezioni video – veri e propri ambienti – che aprono la mostra di Grazia Toderi e nella sua poetica, il valore dell’ombra rappresenta un carattere nodale. Proprio discutendone insieme a lei rilevavamo come, seppure con esiti formali molto diversi, lo stesso tema – una sorta di “radicalizzazione dell’ombra”, nel caso della tua produzione artistica – fosse determinante anche nella tua ricerca. Questa assonanza su un territorio di indagine comune ha in qualche modo avuto un ruolo sulla genesi del progetto espositivo Grazia Toderi. Marco (I Mark We Mark) di cui sei curatore all’Accademia Nazionale di San Luca?
Marco Tirelli: Conosco personalmente Grazia Toderi da tempo, ma soprattutto ne conosco il lavoro ed è questo ciò che mi ha convinto e che mi ha fatto credere che proprio lei dovesse essere la prima degli artisti che volevo invitare ad esporre nell’Accademia di San Luca. Senz’altro per affinità. Pur non essendo un curatore professionista, ma un artista con una sua sensibilità, possiedo un’idea di arte non autoreferenziale su cui apro una piccola parentesi perché non voglio togliere spazio alla ricerca di Grazia Toderi. Per me essere un artista è percepirmi come la fronda di un albero molto più vasto, parte di un tutto visibile in trasparenza; come una delle punte di un cristallo minerale che lascia scorgere il suo nucleo e, dunque, la sua origine e il suo sostrato e la cui forma cambierà ancora e ancora nel tempo. Sento Grazia Toderi molto vicina per sensibilità; uno degli aspetti che trovo notevole nel suo percorso è la riflessione sul continuo spostamento del punto di vista. Nel mio processo artistico però, io scorro le immagini come guardando a un panorama ed isolando all’interno di questa visione momenti e oggetti separati mentre lei, azzardo a dire, tende a farle collassare. In questa mostra le proiezioni video dell’artista presentano un carattere immersivo. Ciò fa sì che lo spettatore, dall’interno dell’opera, si relazioni alla relatività di punti di vista differenti e a quella tipologia di immagini che, come ti dicevo, ritengo personalmente dei “collassi” dati dalla sovrapposizione di fotografie del nostro pianeta (o del cielo) alle fotografie che ha fatto suo fratello Marco – cui la mostra è dedicata – e la cui presenza è ovviamente intrinseca all’opera.
Marco Toderi era un agronomo, quindi uno studioso del terreno e di tutto quello che significa la parola “terreno” – ciò che gli inglesi chiamano soil –; il suo spessore e i suoi caratteri sino alla vita che vi è insita e alle trasformazioni che lo compongono. Comprendo bene perché Grazia sia molto attratta da questo luogo che si riconduce ad un interesse condiviso da entrambi: la sensazione che ciò che vediamo sia solo una primo stadio, apparente, della realtà.
VG: Riflettendo sulle “immagini dense” di Grazia Toderi, le chiedevo di parlarmi del processo di sedimentazione – visiva e concettuale a un tempo – che, secondo il mio parere, le sostanzia. Rivolgo a te la stessa domanda.
Il reale è un’infinità ineffabile ed è di fatto impossibile contare quanti e quali sono i livelli di profondità che ne compongono la struttura e che esistono dietro ciò che appare. Anche fisicamente, una sedimentazione di strati materiali può, metaforicamente, rappresentare la sedimentazione delle idee. Ciò che noi facciamo e vediamo del mondo rappresenta un grado superficiale che, al contempo, è anche altro da sé per i rimandi che ogni singolo oggetto ha con il resto, come nei sogni. Grazia ha fatto un’operazione similare riportando su un unico piano molti di questi livelli – dal terreno, al sottosuolo sino alle stelle – ed in una modalità fattuale ha fatto collassare immagini reali su piani che si possono dire virtuali. A questo proposito, parlavo con Grazia di un cortometraggio del 1977, The powers of ten, dei due designer Charles e Ray Eames. L’immagine iniziale è quella del pic-nic di una coppia americana che, puntata da telecamera fissa, viene man mano distanziata con un’esponenziale progressione verticale. Partendo da quel punto, come da un satellite vediamo la città, la morfologia geografica dell’America, il Pianeta Terra e quindi il cosmo oltrepassando le costellazioni. La ripresa a quel punto si inverte e torna alla scena del pic-nic, ma non si ferma. Qui, infatti, dal dettaglio della mano di uno dei due attori, si sprofonda negli strati del derma sino alle profondità del corpo esplorando un micromondo in sottrazione, speculare e inverso a quello precedente. Un lavoro interessante che dimostra come il reale si componga di infiniti possibili e come ogni inquadratura sia un’apparenza che si mostra nel suo essere in quel momento, in quel rapporto che ha con te.
Quando alla fine del Quattrocento Albrecht Durer parlava della pittura muraria, parlava del perspicere meraviglioso processo mentale del “vedere attraverso” fatto di illusioni, giochi di colore e atmosfera e che ti fa entrare ed attraversare la fisicità delle cose. Alla fine se ci pensiamo la prospettiva è proprio questo, ti fa guardare al piano murario come qualcosa da oltrepassare. Questa sorta di viaggio poi si compie nella storia del novecento attraverso il cinema, il video e anche nella pittura, ad esempio di Rothko. Sono tutti modi di togliere fisicità all’opera ed entrare in un iper-mondo o in uno spazio che si può dire letteralmente meta-fisico…poi non so veramente come descrivere questo concetto. Nelle immagini di Toderi avviene ciò che succede nei sogni, dove frammenti di immagini, spazialità e temporalità differenti, collassano l’una sull’altra.
VG: Trovo che la ricerca di Grazia Toderi presenti un carattere profondamente spirituale, nel senso più laico che questa parola può esprimere. Sei d’accordo?
MT: Personalmente ritengo che l’opera d’arte sia sempre metaforica e nella ricerca di Grazia Toderi trovo presente la metafora della totalità o, meglio, dell’aspirazione alla totalità. È un aspetto che considero rilevante quando un artista ha il braccio teso verso l’assoluto, lo sguardo verso l’alto, verso una dimensione meta-fisica che è difficile, se non impossibile, da definire. Un po’ come diceva Leopardi quando ne L’Infinito descrive ciò che vede intorno a sé o solo alcuni strati di ciò che ha intorno: il colle, la siepe… ma è come se affermasse di poter far vedere solo le delimitazioni che ha di fronte perché anche il provare a esplicitare l’infinito, o anche solo parlarne o sentirlo dentro, è cosa inattuabile… non si può far altro che naufragare. In questo senso – “laico”, come dici tu – sì, la sua produzione possiede un carattere spirituale che ha poi la caratteristica di essere attuato empiricamente. Le sue opere sono fatti costruiti attraverso un meccanismo che non offre spazio a strampalataggini visionarie o surreali, ma questo nell’osservatore scatena delle reazioni dell’immaginario potentissime. Ed è proprio questa la forza delle sue opere.