ATP DIARY

imaginarii raccontati da Francesco Stocchi – Fondazione Carriero, Milano

[nemus_slider id=”47291″] Inaugura il 15 settembre un nuovo luogo per la sperimentazione a Milano, la Fondazione Carriero in via Cino del Duca 4. L’esordio avviene con la mostra imaginarii, a cura di Francesco Stocchi, che ospita le opere di Gianni Colombo, Giorgio Griffa e Davide Balula. Situata nel centro storico della città, la Fondazione ha […]

[nemus_slider id=”47291″]

Inaugura il 15 settembre un nuovo luogo per la sperimentazione a Milano, la Fondazione Carriero in via Cino del Duca 4. L’esordio avviene con la mostra imaginarii, a cura di Francesco Stocchi, che ospita le opere di Gianni Colombo, Giorgio Griffa e Davide Balula. Situata nel centro storico della città, la Fondazione ha trovato sede in un palazzo antico – luogo che ha condizionato fortemente la proposta espositiva a cura di Stocchi -, che diventerà ‘teatro’ per promuovere e sostenere l’arte e gli artisti. Imprenditore e collezionista, Giorgio Carriero ha dato vita alla Fondazione con l’obbiettivo di creare un luogo di incontro e di riflessione, uno spazio “che possa crescere nel tempo e seguire strade diverse, sempre nel nome dell’arte e della condivisione”.

Segue una lunga conversazione con il curatore Francesco Stocchi, per approfondire il tema della mostra e capire come, lo ‘sfuggente’ spazio espositivo della Fondazione sia diventato il protagonista sostanziale dell’intera mostra.

Francesco Stocchi: Ho pensato al titolo “Imaginarii” – mutuato da una parola latina – perché da un’accezione classica alla mostra e coinvolge, concettualmente, una dimensione temporale essenziale per l’evoluzione dell’intero progetto.

ATP: Come è nata l’idea di mettere in relazione questi tre artisti e perché sono stati scelti? La selezione è nata dal dialogo che hai instaurato con la Fondazione?

FS: In realtà le scelte sono state fatte da me e sono il frutto di lunghe riflessioni sullo spazio che ospita la mostra. Lo spazio della Fondazione è molto particolare in quanto oscilla da una dimensione pubblica ad una fortemente privata. Anche per quanto riguarda le proprietà strutturali, vanno dal ‘cubo bianco’ ad ambienti molto caratterizzati come il terzo piano, dove sono presenti degli affreschi. E’ uno spazio che – volutamente – si allontana da una definizione. Prima era sede di alcuni uffici, di proprietà di Giorgio Carriero, e in seguito è stato ristrutturato da Gae Aulenti e adattato a spazio pubblico. L’ambiente abbraccia due palazzi, uno del ‘700 e uno del ‘500 – a Milano, appartenenti al XVI secolo, ce ne saranno solo 6-7 – quindi ha una dimensione abbastanza sfuggente: non appena cerchi di afferrarla, si sottrae, muta. Questa dimensione ‘sfuggente’ è anche la cifra identitaria della Fondazione stessa. Per sviluppare il progetto sono partito da questa dimensione. Mi ha da subito interessato la morfologia dei vari ambienti, mi hanno da subito posto una serie di difficoltà che dovevo affrontare e risolvere. È uno spazio che non si sviluppa in orizzontale, ma in verticale. Si sale su tre piani ed è assolutamente sconnesso; ogni sala e diversa dalle altre … è una sorta di rebus: ha tutto tranne che un’unitarietà. (…) La mia è stata una lettura – anche personale – della cifra identitaria della Fondazione stessa, che non si vuole caratterizzare con la figura del suo fondatore, Giorgio Carriero, o per la sua collezione, ma bensì vuole essere “definita” da una serie di eventi che ruotano attorno ai vari ambienti. Lo spazio suddiviso tra i vari piani è diventato il protagonista principale della Fondazione. Nella prima fase di lavoro e conoscenza, Carriero mi ha da subito detto che non era interessato a mostrare la sua collezione, non voleva un palcoscenico di ciò che ha ricercato e raccolto nel tempo, ma bensì voleva sviluppare dei progetti nuovi che non avessero relazione con la collezione: né come opere né come artisti. Se la dovessi definire, direi che la Fondazione Carriero è una kunsthalle.

ATP: Come hai fatto dialogare le opere di Gianni Colombo, Giorgio Griffa e Davide Balula, in relazione alla ‘sfuggevolezza’ dello spazio della Fondazione?

FS: Ci sono dei momenti – tre sale in particolare – in cui ogni artista ha una sua dimensione. Ognuno ha una sala a lui dedicata, dove si propongono dei progetti se non nuovi, innovativi. Nel caso di Griffa e Balula, abbiamo disegnato assieme le sale. Oltre a degli ambienti dedicati ai singoli artisti, ce ne sono altri di accordo. Ad esempio c’è una sala dove le opere di Griffa e Colombo – che erano amici ma non hanno mai avuto modo di collaborare assieme – sono in dialogo; abbiamo scelto sia opere dell’Archivio Colombo assieme ad alcune opere della Fondazione Carriero.

Gianni Colombo,   Spazio elastico,   ambiente,   1967-68 elastici fluorescenti,   motori elettrici,   lampada di wood cm 400x400x400 Archivio Gianni Colombo,   Milano
Gianni Colombo, Spazio elastico, ambiente, 1967-68 elastici fluorescenti, motori elettrici, lampada di wood cm 400x400x400 Archivio Gianni Colombo, Milano

ATP: C’è un tema che lega le diverse opere degli artisti?

FS: C’è una sala che presenta i tre artisti in dialogo attorno all’idea della linea. Ad esempio, abbiamo seguito come questo segno basilare si ‘ripercuote’ in modi assolutamente diversi nel lavoro di Colombo con strutturazioni dinamiche; nel lavoro di Griffa con una linea che rappresenta la temporalità – una linea infinita – e infine, nell’opera di Balula, la linea come gesto e che racchiude la temporalità rappresentandola. Mi riferisco a una serie di dipinti recenti che si chiama “Artificial Age Paintings”: l’artista, intorno ad un cerchio disegnato con una linea a mano, accelera artificialmente il tempo e sottopone la tela a delle ‘sciocche vessazioni temporali’; è come far invecchiare una tela di cinquecento anni in due giorni. Si torna sempre all’idea di linea che diventa il contenitore. (…) Ci sono vari momenti in cui si salta da fitti dialoghi tra le opere a sezioni monografiche a dialoghi a due.

ATP: In concreto, come hai sviluppato il percorso della mostra?

Ho cercato di rispettare il carattere irregolare dello spazio, il risultato ha dato vita a un percorso che definirei ‘organico’ e volutamente – e difficilmente – rappresentabile. È una mostra che si concentra più sull’esperienza diretta dello spettatore. Ho voluto, in particolare, sottolineare l’esperienza diretta di chi visita la mostra rispetto a una visione mediata o guidata.

ATP: Questo aspetto, d’altra parte, si trova in molta ricerca di Gianni Colombo, in cui è fondamentale l’interazione con lo spettatore. Quest’ultimo, mediante le sue percezioni, ha un ruolo attivo. Immagino che lo spazio espositivo, e le opere che contiene, inizi a ‘vivere’ solo nell’atto della fruizione delle opere. Forse è anche grazie al ruolo attivo del pubblico che possiamo definire lo spazio ‘sfuggente’ in quanto ognuno avrà e vivrà l’esperienza espositiva in maniera diversa e personale.

FS: Sono partito proprio dall’opera di Colombo per la dinamica del ‘palcoscenico’ che propone il suo lavoro, che si completa con la presenta dello spettatore. L’ho scelto anche per la sua notevole influenza sul lavoro delle ultime generazioni. Abbiamo invitato, per questo motivo, Céline Condorelli, Luca Trevisani e Gabriel Kuri, a scrivere nel catalogo un testo sull’opera di Colombo, essendo loro – ma non solo loro, ovviamente – interessati alla sua opera. Non volevamo dare una dimensione troppo storica alla sua ricerca, ma cercare di leggere il suo lavoro con un visione contemporanea; capire cosa rappresenta il suo lavoro oggi e se il suo approccio alla tecnologia è oramai obsoleto rispetto alla ricerche odierne. (…) Soprattutto per l’opera di Colombo ho cercato di insistere in una dimensione astorica, quindi, in relazione alla mostra ho cercato di mantenere uno sguardo assolutamente attuale.

ATP: In una risposta precedente, ti riferivi alla mostra come ‘spazio sfuggente’. Cosa intendi in concreto?

FS: In merito alla non rappresentabilità della mostra – ragionamento che mi interessa o meglio, a cui sto ragionando da un po’ di tempo – sto riflettendo su come i canali digitali e attraverso la tecnologia, i nuovi mezzi hanno fatto si che la visione e la concezione delle mostre sono decisamente cambiate. Oggi è inevitabile, soprattutto in ambito commerciale, vedere e fruire l’arte attraverso computer e tablet. Nelle fiere, ma anche in galleria, se una persona è interessata ad un particolare artista, riesce a esperirne l’opera mediante supporti digitale, alla stregua di una visione del vero. Come se le opere nello spazio reale, fossero l’indice di un inventario molto più ampio che le persone possono ‘assorbire’ virtualmente. Non voglio con questo mio ragionamento portare giudizi su questa condizione attuale. Certo che è risaputo che l’opera d’arte vive maggiormente attraverso la sua presentazione mediata dallo schermo che quella reale, tanto che siamo arrivati ad un punto in cui, nelle nuove generazioni di artisti, coscienti che il loro lavoro verrà prima visto su Instagram o via e-mail, e forse avrà un 5% di vita in un’esperienza diretta, compiono delle scelte fortemente condizionate da questo visibilità virtuale.

In una serie di mostre a cui ho lavorato negli ultimi tempi, ho cercato di tener presente questo stato di cose. Sto cercando di creare un percorso inverso, ragionare attraverso l’esperienza diretta e quindi di rappresentare ciò che è fortemente immediato. Da qui il mio interesse per progetti difficilmente ‘comunicabili’ o che trovano e constatano i propri limiti attraverso lo schermo. Anche la documentazione fotografica, spesso, si scontra con la sfuggevolezza dei progetti espositivi.

ATP: Per certi versi, opponi ‘resistenza’ a una tendenza inevitabile, ossia quella di fruite l’arte attraverso i social media o, più in generale attraverso smart-phone, computer e tablet.

FS: Quello che mi ha sempre affascinato dell’arte è il costante – ed endemico per la sua esistenza – continuo cambiamento delle regole. I grandi artisti, se ci pensiamo, sono quelli che hanno cambiato le regole, non quelli che le hanno seguite. Secondo questa regola, l’uscire dal protocollo, dentro al protocollo stesso, è sempre quello che mi ha affascinato nell’arte. (…) E’ interessante dunque ragionare su come è cambiato il modo di osservare l’arte, a partire proprio da come è fruita, e quanto questo cambiamento influenza la sua produzione e comprensione.

Le opere che sono esposte in Fondazione, sfuggono per molti versi alla cattura dell’occhio, a maggior ragione se è l’occhio fotografico. Hanno bisogno, dunque, di un’empatia diretta, di una visione reale per essere comprese. Per questa ragione, per documentare la mostra, il fotografo ha impiegato oltre tre giornate di lavoro. La mostra, per come abbiamo deciso di strutturarla, è decisamente complicata da fotografare.

Sala riunioni,   annessione dall’adiacente palazzo Visconti. - Fondazione Carriero,   Milano
Sala riunioni, annessione dall’adiacente palazzo Visconti. – Fondazione Carriero, Milano

ATP: Oltre alla proposta di opere storiche, sono stati realizzati anche molti lavori nuovi site specific. Quali nello specifico avete deciso di produrre?

FS: Per quanto riguarda Davide Balula, l’artista ha creato una sala avvalendosi di materiali che ha trovato a Milano. Non è, come romanticamente si potrebbe pensare, che ha girato per la città alla ricerca di materiale di scarto; era interessato a delle rocce, dei sassi che ha trovato in una cava. Ha lavorato disegnando lo spazio che gli era stato assegnato. Questa sua opera, che per grandezza si potrebbe definire centrale nel suo lavoro in mostra, è stata creata appositamente per la Fondazione.

Per quanto riguarda Giorgio Griffa, a seguito di numerosi incontri a Torino, abbiamo selezionato assieme un numero di tele molti recenti, del 2015, dove l’artista continua quella sua idea della costruzione di uno spazio pittorico intorno al numero infinito della sezione aurea, associando segni e numeri. Per la prima volta c’è un’opera dove crea un triunvirato tra disegni, disegni grafici di numeri e lettere. Un’opera che sono particolarmente felice che sia in mostra è una lavoro che abbiamo trovato in studio: una serie di cinque piccole opere incorniciate (una serie assolutamente anti-griffano) realizzate nel 2008. E’ una serie chiamata ‘Piccolo Dionisio’. Consistono in piccole garze o tessuto trasparente – simile a quelle che si utilizzano in ambito medico, in cui Griffa ha composto dei segni di acrilico ben colorati – che vengono sovrapposte e bloccate tra due vetri e incorniciate. È un lavoro che, mediante la cornice, ‘chiude’ lo spazio, diventano schermi che contengono lo spazio ‘infinito’ da sempre ricercato dall’artista. Griffa non le aveva mai esposte, erano dimenticate da oltre 10 anni nel suo studio. E’, dunque, non solo una serie inedita, è anche una ricerca assolutamente nuova nel suo percorso.

Per quanto riguarda Gianni Colombo, abbiamo selezionato una serie di opere, tra collezionisti privati e l’Archivio Colombo. Abbiamo voluto proporre due opere di Colombo, una che apre la mostra e una che la chiude. Alla fine del percorso abbiamo deciso di esporre l’opera tra le più note dell’artista – con la quale vinse un’edizione della Biennale di Venezia nel 1968 – “Lo Spazio Elastico”. Abbiamo ricostruito quest’opera creando un cubo di quattro metri per quattro; è una ricostruzione fedele fatta assieme all’Archivio Colombo e seguita da chi ha sempre lavorato con l’artista. All’inizio del percorso, invece, abbiamo voluto esporre la sua tesi di laurea. E’ un libro ‘pop-up’ costruito a mano e dedicato a Max Ernst. Colombo, in sede di laurea, presentò un film e un bellissimo libro dedicato al pittore surrealista. Entrambi sono visibili all’inizio della mostra; sono una sorta di opera oggetto che denota l’attenzione dell’artista verso il Surrealismo e il Dada. Ho ritenuto indicativo esporre questa tesi perché, sembra dare un taglio antitetico rispetto alla visione che si ha dell’opera di Colombo. In realtà abbiamo voluto seguire delle linee guida – e questa è un taglio seguito per l’opera di tutti e tre gli artisti – che non fossero tra le più canoniche nella lettura della loro ricerca. Sia per Colombo che per Griffa e Balula, abbiamo individuato delle linee guida dove combinano degli elementi propri del Surrealismo e del Minimalismo. Forse Colombo rappresenta l’esempio classico di sodalizio tra una logica surreale e quella minimalista.

ATP: Hai cercato dunque un taglio inedito, o poco conosciuto, per tutti e tre gli artisti?

FS: E’ interessante, a mio avviso, soprattutto quando si lavora con artisti storici, mostrare nuovi punti di vista e letture. Insisto sulla dimensione astorica della rappresentazione, soprattutto nell’opera di Colombo.

ATP: In merito al catalogo ‘composito’. Mi racconti come è nato il progetto cartaceo?

FS: L’opera tipografica presenta diversi aspetti: uno è un catalogo dove abbiamo cercato di fare uno studio abbastanza ‘solido’ sulla ricerca dei tre artisti. Presenta – questo per sottolineare quanto sia fondamentale l’esperienza ‘diretta’ nella mostra – le vedute della mostra, le immagini delle opere installate. Il catalogo ospita gli interventi di tre artisti, dove ragionano sull’opera di Colombo – Céline Condorelli, Gabriel Kuri e Luca Trevisani -; per Griffa, Gavin Delahunty (Senor curator del Dallas Museum of Art) ragiona da un punto di vista americano, o meglio, in una prospettiva di pittura americana; per Davide Balula, invece, abbiamo invitato lo scrittore ‘istrionico’ Adam Kleinman a esprimere una sua visione molto libera sull’opera dell’artista portoghese.

A lato, abbiamo usato il simbolo del foglio bianco, un A4, come ‘spazio’ parallelo alla mostra, dove gli artisti – Griffa e Balula – hanno ‘riempito’ questo spazio. La raccolta di questi fogli ha dato vita ad un libro d’artista che ha avuto uno sviluppo proprio rispetto al catalogo. E’ da pensare come un quaderno visivo dove Balula ha creato una sorta di spartito, mentre Griffa ha pensato a dei disegni inediti appositamente per questo progetto. Per Colombo sarà ripubblicato un catalogo del 1968 prodotto per la mostra che l’artista tenne alla Galleria L’Attico di Roma, con l’aggiunta di alcuni progetti inediti dell’opera Spazio elastico.

 

Davide Balula,   Artificially Aged painting (Wet,   Dry,   Wet,   Dry,  Wet,   Dry),   2014-15,   Lino pretrattato e cornice in legno,   diam cm 178
Davide Balula, Artificially Aged painting (Wet, Dry, Wet, Dry, Wet, Dry), 2014-15, Lino pretrattato e cornice in legno, diam cm 178
Primo piano Casa Parravicini - Fondazione Carriero,   Milano
Primo piano Casa Parravicini – Fondazione Carriero, Milano
JT_ATP-DIARY-250x500
ADV bianco