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Il Padiglione Italia di Milovan Farronato

Testo di Antonio Grulli — Credo sia importante iniziare dicendo che poche persone come Milovan Farronato meritavano di curare un Padiglione Italiano alla Biennale di Venezia. Era giusto che avesse la sua edizione. Lo dico perché Milovan aveva già diretto quello che per molti anni è stato l’unico vero Padiglione Italiano esistente, e non attivo […]

Neither Nor The challenge to the Labyrinth – Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro – Italian Pavilion at the Biennale Arte 2019 – Photography Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti – Courtesy DGAAP-MiBAC

Testo di Antonio Grulli —

Credo sia importante iniziare dicendo che poche persone come Milovan Farronato meritavano di curare un Padiglione Italiano alla Biennale di Venezia. Era giusto che avesse la sua edizione. Lo dico perché Milovan aveva già diretto quello che per molti anni è stato l’unico vero Padiglione Italiano esistente, e non attivo solo qualche mese ogni due anni, ovvero lo spazio Viafarini di Milano. Sotto la sua direzione, quel luogo era diventato uno spazio di incontro, di scambio, di crescita di tutto il sistema italiano dell’arte, e non solo per gli artisti più giovani, a cui per vocazione quel luogo sarebbe orientato. Ci incontravamo tutti lì, era una tappa fondamentale, sia per chi viveva a Milano sia per chi passava da fuori come me. Non si andava solo per le mostre, ma anche per gli incontri, i dibattiti, le feste. Vi si passava anche solo se di passaggio a Milano, e capitava sempre di guardare un portfolio o fare la conoscenza di un nuovo artista emergente o incrociarne qualcuno delle generazioni precedenti che non si aveva ancora avuto la fortuna di incontrare.
Milovan ha aiutato la transizione da un sistema italiano troppo stretto a una scena artistica più ampia e sfaccettata, facendo circolare le informazioni e i contatti, aumentandone la complessità e permettendo il reinserimento della pittura che per molti anni era stata un linguaggio di serie B, anche se oggi sembra difficile pensarlo. Le premesse erano quindi interessanti, e ho aspettato con curiosità di vedere il risultato del suo lavoro.

La mostra è composta di tre artisti. Sono figure con cui Milovan lavora da molti anni, con cui ha condiviso molte avventure riuscendo a creare un forte dialogo e una vera intesa intellettuale. Penso che questo modo di lavorare sia cruciale oggi, in anni in cui i curatori dedicano pochissimo tempo agli artisti e alle loro opere essendo troppo impegnati a barcamenarsi in un mondo dell’arte sempre alla ricerca di nuovi nomi caldi, con dinamiche e tempi a volte più veloci di quelli della moda.

E il risultato di questa sua attitudine è evidente. Né altra Né questa – La sfida al labirinto è una mostra bella e coinvolgente. Forse la tematica non spicca per originalità, ma Milovan è riuscito a declinarla in una chiave personale molto intrigante. E soprattutto l’idea del labirinto si è rilevata geniale in chiave allestitiva. Ricorderemo questi dedali e diventeranno un riferimento con cui dialogare o da cui prendere le distanze per i prossimi curatori.

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth – Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro – Italian Pavilion at the Biennale Arte 2019 – Photography Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti – Courtesy DGAAP-MiBAC
Neither Nor: The challenge to the Labyrinth – Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro – Italian Pavilion at the Biennale Arte 2019 – Photography Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti – Courtesy DGAAP-MiBAC

I grandi spazi del Padiglione Italiano sono così diventati un luogo in cui perdersi, lasciarsi andare, in cui si finisce presto per concentrarsi sui dettagli delle opere piuttosto che assecondare l’ansia, che spesso ci invade nel visitare una mostra, di dover per forza vedere tutte le opere. Questo diviene quindi uno spazio in cui l’abbandono e la possibilità di perdere qualcosa diventano un valore aggiunto, in una mostra che – forse più del solito – è totalmente diversa per ognuno dei suoi spettatori, che smettono di essere un audience sotto controllo e diventano individui (con tutte le mancanze del caso). Mi sono dovuto impegnare con costanza per cercare di attraversare ogni corridoio e raggiungere ogni stanza, e ancora adesso non sono completamente sicuro di aver visto tutto. Ma in fin dei conti questo è quello che accade ogni giorno della nostra vita: la certezza di essere esaustivi e completamente efficaci non ci appartiene.

La metafora del labirinto è intrigante soprattutto rispetto a chi guarda l’opera. Il rapporto con il lavoro dell’artista non è mai pacifico. L’opera è davvero simile al Minotauro, e non è lì per farci stare meglio, al contrario. E’ quindi bellissimo girare per questi corridoi, in cui sono presenti delle opere che fungono da annuncio, e poi finalmente sfociare in una stanza dove si ha la sensazione di dover finalmente fare i conti con qualcosa di potenzialmente pericoloso. E l’opera d’arte, quando è davvero buona, porta sempre con sé un processo di destabilizzazione, di messa in crisi delle nostre sicurezze, di ribaltamento della nostra realtà. La radice di ogni opera d’arte sta in quella sacra “formido”, in quel terrore che è unito a qualcosa di religioso perché capace di svelare una verità assoluta.

Veniamo agli artisti e alle opere. Si tratta di un Padiglione italiano che diventa per il curatore anche una sorta di summa di anni di ricerca, scambio e dialogo con molti artisti. E questo emerge bene sia dal catalogo, in cui viene riconosciuto ad altri (Katharina Fritsch, Paulina Olowska, Mathilde Rosier, e molti altri) il loro essere stati parte di un percorso che ha portato Milovan sin qui, sia dalle collaborazioni che si innescheranno a corollario di questo padiglione lungo i mesi di apertura, come sarà ad esempio il film a cui sta lavorando Anna Franceschini. I tre artisti funzionano quindi quasi come una parte per il tutto, come delle metonimie, in una costellazione in cui molti sono i pianeti che da anni ormai hanno creato un disegno ben specifico.

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth – Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro – Italian Pavilion at the Biennale Arte 2019 – Photography Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti – Courtesy DGAAP-MiBAC

Milovan dunque lavora con Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro da moltissimi anni, e li ha proposti in momenti cruciali del suo percorso. Basti pensare alla riapertura, alcuni anni fa, di Viafarini all’interno della Fabbrica del Vapore in cui decise di puntare su Liliana, andando contro a ogni classica dinamica da curatore italiano che di solito propende per uno straniero, o per un giovane, o (quando i mezzi lo consentono) per un grande vecchio; mentre la scelta di un artista mid-career è sempre l’ultima delle soluzioni.

Enrico David è uno dei migliori artisti italiani di oggi. Forse lui non si riconoscerà minimamente in queste mie parole, ma non posso fare a meno di vederlo come il grande continuatore di una tradizione di artisti che dalla visionarietà delle pesche e dei colori di Crivelli, passando per Licini, arriva fino alla Transavanguardia, soprattutto nelle sfumature e nelle linee di Cucchi e Clemente.
Bene, anzi benissimo ha fatto Milovan a inserirlo in questo padiglione. Lo si sente nominare troppo poco in Italia. Viene visto quasi come uno straniero. E’ assurdo invece che una figura come lui non sia costantemente vista come un riferimento a cui guardare (o anche criticare, perché no) da parte della nostra scena. Scelte come questa permettono a figure come lui, finite purtroppo all’estero (in una diaspora che negli ultimi anni è stata troppo grande), di essere delle sorgenti di nuove forme, idee e sensazioni per gli artisti del nostro paese, esattamente come sono fonte di nuova vita gli artisti stranieri che da noi arrivano. La scelta è ricaduta nel suo caso soprattutto sulle sculture, e in minor parte su disegni e dipinti. Un po’ mi è dispiaciuto perché il mio amore per la sua produzione pittorica e di disegno rimane assoluta. Sono mescolate opere più recenti con opere degli anni passati, e il mix funziona molto bene. Si tratta sempre di lavori che richiedono attenzione, non sono immediati ed occorre abbandonarsi a loro, farsi infettare, coinvolgere. Spesso sono forme antropomorfe allungate, deformate in maniera stranamente fantasmatica e spirituale, come se fossero appena uscite dalla lampada di un genio. Altre volte hanno una struttura maggiormente rigida e totemica, e dei totem hanno anche l’austerità e l’impenetrabilità.

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth – Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro – Italian Pavilion at the Biennale Arte 2019 – Photography Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti – Courtesy DGAAP-MiBAC
Neither Nor The challenge to the Labyrinth – Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro – Italian Pavilion at the Biennale Arte 2019 – Photography Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti – Courtesy DGAAP-MiBAC

Chiara Fumai dei tre è l’artista di cui sono meno convinto. Ma è intrigante il modo in cui viene presentato il suo lavoro. Le sue opere sono quasi un collante per gli altri due artisti, che forse senza il suo apporto sarebbero stati troppo lontani. E’ un ponte che unisce le linee spirituali di David al piano di lotta politica, individuale e quotidiana, di Liliana Moro. Milovan decide in maniera coraggiosa di presentare insieme alle opere del passato un’opera che esisteva in forma progettuale, seppur molto avanzata, qui installata grazie anche all’aiuto dell’artista Micki Pellerano che aveva lavorato molto con Chiara. E’ interessante perché la pratica curatoriale può e deve essere vista come una pratica autoriale e quindi interpretativa a tutti gli effetti. E’ una “traduzione di un testo” (l’opera d’arte, che di per sé sarebbe inerte) proprio come avviene per il regista di teatro che può e deve prendersi delle libertà interpretative e di traduzione del testo su cui decide di lavorare. In questo caso poi le assenze e le lacune inevitabili in un’opera lasciata incompiuta, nel senso che solo l’esposizione avrebbe potuto sancire il suo essere definitivo (anche se il concetto di “definitivo” nell’arte contemporanea è ormai applicabile solo ad alcune opere, e plausibilmente questo potrebbe anche essere stato il suo vero aspetto finale), porta l’intervento del curatore su un piano analogo a quello del concetto di “restauro” definito da un musicista come Luciano Berio nel momento in cui prende delle opere di Schubert lasciate incompiute e “si permette” di completarle, a modo suo.

Liliana Moro è tra gli artisti di punta di una generazione dell’arte italiana estremamente peculiare, quella emersa negli anni novanta, che si caratterizzano forse anche per il loro rendersi inafferrabili e mai come li si vuole. E a tutt’oggi è bellissimo e rinfrescante notare questo loro essere scomodi e laterali, sempre, così lontani dalla compiacenza che impera ormai ovunque. I suoi oggetti e i suoi materiali sono duri e spigolosi, mai attraenti fino in fondo. Tranne forse la scultura in vetro, qui esposta, che richiama la spada nella roccia, in cui sia la spada sia la roccia sono fatte dello stesso fragilissimo materiale e nessun uomo unto dal signore verrà mai a tirarla fuori sancendo la sua autorevolezza. Ma è bellissimo anche il lavoro intitolato Salti, del 1997, dalle forme pure realizzate con piste per le macchinine che dialogano con disegni stilizzati e leggerissimi delle stesse forme. E non riesco a levarmi dalla testa il lampione a testa in giù di Capovolto (2015), perfetto per infilarsi come una falla del sistema in un presente fatto di una ricerca spasmodica della visibilità totale.

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth – Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro – Italian Pavilion at the Biennale Arte 2019 – Photography Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti – Courtesy DGAAP-MiBAC
Neither Nor: The challenge to the Labyrinth – Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro – Italian Pavilion at the Biennale Arte 2019 – Photography Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti – Courtesy DGAAP-MiBAC

Per tutti e tre vale quanto già detto per Enrico David: le opere portano a perdersi in loro, nei loro dettagli così come nelle atmosfere che sono in grado di creare. E ci si muove da una all’altra come seguendo un vero e proprio filo di Arianna, la signora degli inferi come ricorda Emanuele Trevi nel suo bellissimo testo in catalogo, che sembra visualizzarsi nelle scritture automatiche sulle pareti di Chiara Fumai, fatte di linee che ho sentito molto vicine a quelle di figure del passato come Henry Michaux. Bisogna allora lasciarsi andare in questa mostra, farsi guidare, fidandosi, rischiando. Vorrei rivederla senza nessuno; penso che i visitatori che andranno dopo l’inaugurazione ne guadagneranno.

Si tratta di un padiglione prepotentemente curatoriale. I tre artisti assieme sono forse in grado di racchiudere le molte facce del curatore stesso. Ma anche se a prima vista questo aspetto potrebbe apparire a loro discapito, le opere in realtà ne guadagnano perché sono davvero conosciute, amate e incarnate dal curatore in un ragionamento nuovo. Per assurdo Milovan avrebbe potuto fare lo stesso padiglione, con gli stessi artisti, anche se fosse stato invitato tra cinquant’anni a curarlo. Non potrei fare questo ragionamento per quasi nessuno dei miei colleghi, per i quali gli artisti troppo spesso finiscono per essere nomi intercambiabili. E questo ragionamento implica una fede assoluta nel confronto dei tre qui mostrati.

Ci tengo a concludere parlando del catalogo perché si tratta di una vera e propria sezione a parte del progetto, e non di un semplice libro. E’ stato realizzato da Humboldt Books. La casa editrice non si è limitata a stampare i materiali forniti impaginandoli, ma emerge come un vero e proprio interlocutore che ha anche prodotto molto del materiale al suo interno. I testi di Milovan sono molti e molto differenti tra loro. Ho amato, soprattutto per la sua capacità di coinvolgimento, quello che è quasi un racconto noir ovvero La casa labirinto e il ritrovamento del pugnale. Sono efficaci anche i momenti in cui appaiono i testi e le parole degli artisti, che come spesso accade riescono a proporre parole e frasi efficaci e concrete, senza perdere in poesia. Saranno delle testimonianze utili anche in futuro. Assieme a questi suggerisco la lettura del testo già citato di Emanuele Trevi, che rimane uno dei più grandi scrittori italiani e che ben conosce le tematiche e le radici da cui nasce questo padiglione.

Neither Nor: The challenge to the Labyrinth – Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro – Italian Pavilion at the Biennale Arte 2019 – Photography Delfino Sisto Legnani and Marco Cappelletti – Courtesy DGAAP-MiBAC