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Un atto contemplativo | Icônes a Punta della Dogana, Venezia

Per secoli ha avuto una funzione essenziale per le persone devote, in quanto veicolo della rappresentazione dei segni del mistero religioso. Le icone erano – e sono – un modo per rendere reale e vedere la portala del Signore. Punto di riferimento, le immagino sacre erano una finestra sul mistero e servivano per entrare in […]

Joseph Kosuth, Un oggetto chiuso in se stesso? (Adieux), Un objet fermé sur soi? (Adieux) / An Object Closed Upon Itself? (Adieux), 2022, © Joseph Kosuth, by SIAE 2023. Courtesy of the artist. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection
Philippe Parreno La Quinta Del Sordo, 2021 Color film, 5.1 sound mix Duration 38.36 min – Courtesy Esther Schipper. Gallery © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Per secoli ha avuto una funzione essenziale per le persone devote, in quanto veicolo della rappresentazione dei segni del mistero religioso. Le icone erano – e sono – un modo per rendere reale e vedere la portala del Signore. Punto di riferimento, le immagino sacre erano una finestra sul mistero e servivano per entrare in piena comunione con le figure divine. L’origine delle icone risale al IV secolo, quando la chiesa orientale si trovava ancora in unione con la chiesa occidentale. Antinaturalistiche per vocazione, le immagini veicolate dalle icone dovevano sottolineare la grandezza spirituale dei misteri religiosi, degli eventi e dei personaggi sacri. Come una tale ‘manifesto’ della sostanza divina può giungere fino ad oggi. Possiamo mutuare il senso profondo del concetto di icona e traslarlo all’arte contemporanea.
Colgono questa sfida Emma Lavigne, direttrice della Pinault Collection, e Bruno Racine, direttore e amministratore dele­gato di Palazzo Grassi, curatori della mostra Icônes, attualmente ospitata a Punta della Dogana (fino al 26 novembre): la mostra tesse inediti dialoghi tra artisti emblematici della Pinault Collection, tra cui David Hammons e Agnes Martin, Kimsooja e Chen Zhen, Danh Vo e Rudolf Stingel, Sherrie Levine e On Kawara, James Lee Byars e Francesco Lo Savio.
Questo ambizioso progetto ci invita ad una riflessione sul tema dell’icone e del statuto dell’immagine nella contemporaneità: Questa mostra è troppo vasta perché si possa comprendere la portata della sua ambizione. Ma le icone sono probabilmente per sempre sia le divine sorelle del diavolo sia le divine messag­gere della libertà”, scrive nell’approfondito saggio “Icone. I propositi dell’invisibile” – nel catalogo della mostra edito da Marsilio Editori – la filosofa Marie-José Mondzain. L’ambizione maggiore di una mostra che riprende il termine di icona, mira a restituire “il suo potere e i suoi diritti all’invisibile nel cuore del sensibile”. La filosofa parte proprio dal significato più triviale del termine icona, banalizzato dalle tecnologie della comunicazione visiva e dei suoi simboli utilizzati sugli schermi. L’icona, oggi, diventa simbolo della velocità e, direi, della volgarizzazione del linguaggio globalizzato. Probabilmente, il temine non è mai stato così lontano dalla sua originaria funzione.

Nel raccontare la mostra, Bruno Racine spiega: “Spesso, prima di entrare a Punta della Dogana faccio tappa nella Basilica della Madonna della Salute, dove è collocata, tra vistose decorazioni barocche una piccola icona bizantina che ritrae una Madonna con Bambino. Questi incontri, soprattutto a Venezia, mi hanno fatto riflettere. Questa città ha la particolarità di aver mantenuto il culto dell’icona, anche in un contesto culturale molto lontano nel tempo. Ho trovato questa relazione interessante da indagare in una prospettiva contemporanea. Con Emma Lavigne, abbiamo cercato di far sentire e capire l’equivalente contemporaneo dell’icona”. Il curatore sottolinea che il senso che hanno dato al termine ‘icona’, nella curatela della mostra, non è quello ‘mimetico’, bensì è da intende come un ‘segno’ che porta ad un altra realtà; una ‘finestra verso l’invisibile’  che, continua Racine, “invita alla meditazione e contemplazione. Seguendo questo principio abbiamo selezionato una lista di opere dalla Collezione Pinault, per immaginare un percorso che permette di condividere questa esperienza di pausa, silenzio. E’ una mostra che si vuole, principalmente, contemplativa.” 

(from left to right) Rudolf Stingel, Untitled, 2010, Pinault Collection © Rudolf Stingel. Courtesy of Gagosian Gallery; Danh Vo, Christmas (Rome), 2012, 2013, Pinault Collection; Rudolf Stingel, Untitled, 2009, Pinault Collection, Courtesy of the artist. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Caratterizza da una sezione di opere molto diverse tra loro, la base preponderante della scelta che ha guidato i due curatori è verso una forte impronta del Minimalismo Americano, che sollecita, a detta del curatore, una dimensione intima, sottolineata anche dalla scelta dell’immagine-guida della mostra che consiste nell’opera di Agnes Martin, Blue-Grey Composition, (1962): una forma organica disposta al centro del dipinto che ricorda un’apertura, come una crepa che conduce ad un al di là pittorico,  che suggerisce “esperienze silenziose prive di parole”. 
Strutturata come una lunga serie di ‘cappelle’, la mostra avvicenda diverse esperienze che potremmo considerare a tutti gli effetti trascendentali o spirituali che culminano nello spazio dedicato ad Roman Opalka. Lo spazio architettonico di forma ottagonale, che accoglie sette opere della serie OPALKA 1965 / 1 – ∞, è stato pensato dall’artista stesso come la rappresentazione spaziale dello «spazio-tempo di un’esistenza».
Ma molte sono le tappe particolarmente significative e intense, a partire proprio da una delle sale che apre la mostra, quella che ospita la Quinta del Sordo, opera video di Philippe Parenno. L’artista algerino si concentra e racconta in un modo fortemente espressionista il ciclo conosciuto come Pitture nere che Francisco Goya dipinse per quattro anni nelle mura di una casa di campagna dal 1819. L’opera video di Parreno, oscilla tra superficie e profondità, luce e ombra, suono e visione; tra gli spazi pittorici creati da Goya e le pareti delle stanze che essi ricoprivano in origine. Un’altra sala molto intensa è quella che ospita le opere di Agnes Martin e David Hammons. Come un alchimista David Hammons trasforma oggetti abbandonati, recuperati per strada, in potenti evocazioni dell’immaginario urbano, creando l’incontro tra riferimenti distanti provenienti tanto dalla storia della arte quanto dallo spazio cittadino. L’artista si serve del proprio corpo, vero e proprio leitmotiv della sua pratica, per rappresentare in maniera tangibile e diretta il corpo nero in una società americana che tende a renderlo invisibile. 
Un altro dialogo estremamente intenso è quello che si è creato tra le grandi opere a parete di Rudolf Stingel e Danh Vo. Il grande spazio situato al centro di Punta della Dogana, il Cube, ospita una grande installazione sospesa di Danh Vo: delle pezze di velluto decolorate dalla luce e dal tempo, provenienti dai musei del Vaticano, che preservano la traccia degli oggetti religiosi che erano stati poggiati sulla superficie di questi tessuti. Come pellicole fotosensibili, i tendaggi si caratterizzano per le presenze fantomatiche, che richiamo l’oggettistica sacra come crocifissi, calici, pissidi. Esposte nuovamente alla luce, queste tracce sono destinate a tornare nell’invisibilità. Anche le opere di Rudolf Stingel raccontano il misterioso e spesso inspiegabile atto della creazione delle immagini. Le superfici dei suoi dipinti, dove sono conservate le tracce di gesti diversi, oscillano tra leggerezza aerea e spessore della materia. 

Robert Ryman, Untitled, 2010, Pinault Collection, © Robert Ryman, by SIAE 2023. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection
Dineo Seshee Bopape, Mothabeng, 2022, Courtesy of the artist, Pirelli HangarBicocca and Sfeir-Semler Gallery Beirut · Hamburg. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Le impronte e le tracce di Danh Vo e Rudolf Stingel sono nuovi oggetti di devozione, offerti nella loro fragilità sospesa tra presenza e assenza. Anche nel dialogo tra le opere di Francesco Lo Savio e James Lee Byars si racconta di riflessione sulla luce e dematerializzazione dell’opera. Il monolite cilindrico di Lee Byars, rivestito di foglia d’oro, è un monumento dedicato all’umanità e alla sua crescita spirituale, così come nelle forme essenziali e pure dei suoi quadri Lo Savio cerca di sma­terializzare lo spazio della tela interessandosi alla luce, alla struttura e alla vibrazione. 
Tra le più intense e toccanti, la ‘cappella’ dedicata all’opera di Robert Ryman, non ammette confronti con nessun altro artista. Chiuso dentro ad una semplice stanza allungata, le sono esposte una serie di sue opere eseguite tra il 2010 e il 2011. 
“Non penso neanche di dipingere dei quadri bianchi. Il bianco è solo un mezzo per esporre altri elementi della pittura. […] Il bianco permette ad altre cose di diventare visibili”8. L’opera è connaturata al suo ambiente, alla sua luce, e trasforma la pittura in un’esperienza “di illuminazioni, incanto, benessere, precisione”. Le opere esposte mostrano un quadrato impreciso di pittura a olio che fluttua su un più grande quadrato di cotone teso su un telaio. La vernice bianca emerge da uno sfondo colorato che assorbe la luce.

“Abbiamo sempre voluto cercare, nella Pinault Collection, delle opere che avessero un senso profondo, più legato alla storia dell’icona. Ovviamente non mancano riferimenti al cinema con degli estratti di Sergej Eisenstein e Andrej Tarkovskij. In molti artisti – basti pensare a Kandinsky e Malevic, creatori segnati dall’iconografia ortodossa – i segni non sono strettamente legati al loro significato. Pensiamo a Donald Judd in mostra con un’opera formate da quattro grandi scatole di acciaio corten appese al mure che disegnano una croce cava. Lui era un materialista, dunque il nesso tra la croce nel suo lavoro e il significato della croce non è così prossimo, anzi. L’opera è aperta a tutte le interpretazioni, non c’è una verità assoluta.” Spiega Racine, che cita altre opere esemplari, come 14 février 1990 di Michel Parmentier, installata in tutta la sua interezza: ben 16 metri. E’ la composizione più grande mai realizzata dall’artista ed è costituita da un insieme di 36 bande grigie intrecciate a carboncino. La ricerca di sobrietà formale che anima questo lavoro contribuisce al suo radicamento in un quasi silenzio, che l’artista descrive come “dipingere l’imperfezione, abbozzare la mancanza”. 
Al di là dei secoli trascorsi tra i pittori di icone bizantine e gli artisti contemporanei, una delle grandi questioni – temporali – che questa mostra si pone è quella di sollecitare gli artisti a confrontarsi con i tanti e complessi significati che il termine icona porta con sé.  “Che le opere siano luminose o cupe, silenziose o sonore, teatrali o austere, l’esposizione invita il visitatore a fermarsi davanti ad ognuna di esse, a osservarle andando al di là della loro materialità: pensiamo alle ‘cappelle’ di Robert Ryman, Roman Opalka o di Lee Ufan che costellano il percorso e che le installazioni di Lygia Papà e Joseph KOsuth, intensamente vibranti, vengono a completare.” 

(From left to right) Josef Albers, Study for Homage to the Square: Despite Mist, 1967-1968, Pinault Colletion, © The Josef and Anni Albers Foundation/SIAE 2023; works by Roman Opalka, Pinault Collection, © Roman Opalka, by SIAE 2023; Michel Parmentier, 14 février 1990, 1990, Pinault Collection, © Michel Parmentier, by SIAE 2023. AMP — Fonds Michel Parmentier, Bruxelles. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection