L’avvento del video e delle sue tecnologie sempre in rapido cambiamento, hanno dato vita a nuove forme di espressione artistica. Lontana dal mero tentativo di documentazione, la video arte si è servita – e si serve tuttora – del medium per precise finalità espressive. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, periodo di prime sperimentazioni tra utilizzo di televisori, registratori e VHS, di cose ne sono cambiate parecchie, a partire dalla quantità di immagini in movimento che ci circondano ogni giorno. Come si inserisce dunque la video arte in questo contesto e qual è il suo rapporto con la sua stessa storia? Sono le domande che hanno dato vita a “La forma video. Tra cinema e arti visive dopo il digitale” di Milo Adami presentato alla sesta edizione di Ibrida Festival. Una ricerca che esplora gli ultimi trent’anni di sperimentazioni tra tecnologie di post-produzione, realtà virtuale, immersività dei videogiochi, web e piattaforme crossmediali, per immaginare una nuova metodologia di analisi e una nuova prospettiva storico-critica della nuova multi-visione. (leggi l’intervista ai direttori artistici Francesca Leoni e Davide Mastrangelo)
Un primo approccio può essere quello di considerare come con l’avvento del digitale i video artisti, e nel contesto delle piattaforme video tutti coloro che si ci mentano con il mezzo in forma espressiva più o meno consapevolmente, abbiano seguito due direzioni di ricerca: da una parte quella di confronto con il passato, tecnologico e contenutistico, dall’altra invece quella di utilizzo del video come forma di ritratto – e autoritratto – intimo.
Due tendenze che spesso si mescolano nella ricerca artistica di uno stesso artista come nel caso di Francesca Lolli alla quale è dedicato uno dei focus di Ibrida. Se nel found footage La santa e la puttana (2021) le immagini di vecchi film sono utilizzate per portare sullo schermo le problematiche della parità di genere (o meglio la sua inesistenza dati i dati statistici dai quali prende spunto il lavoro), la violenza degli stereotipi e del linguaggio maschile nella quotidianità, HR+ è il racconto – senza parole – della malattia, delle sue ombre e delle sue luci. In entrambi la Lolli rende evidente la capacità e la volontà del linguaggio video non di narrare, ma di condividere un’esperienza nella quale ciascuno può riflettere la propria. Eliminati il palcoscenico e la presenza dell’artista su questo, lo spettatore si trova a vivere il doppio ruolo di osservatore e di protagonista (talvolta sfociando, come nel caso di utilizzo di videocamera di sorveglianza, nel triplice ruolo di osservato, ndr). Due posizioni il cui confine viene messo in continua discussione generando così nuove possibilità non solo di fruizione, ma anche di spettacolo.
Dj Balli con il suo SBRANG GABBA GANG ad esempio trasforma la musica gabber in musica da ascoltare da seduti portando sul palco attraverso bordate di casse 4/4 e i visuals di Teresa Prati le sorprendenti coincidenze tra la prima sottocultura proveniente dall’Olanda e il Futurismo. Il risultato è un vero e proprio manifesto gabber-futurista nel quale grafica, video e musica si mescolano. Al pubblico non resta che osservare e partecipare, proprio come ad una serata futurista.
Si è immobili anche nel viaggio audiovisivo Tríptiko. A vision inspired by Hieronymus Bosch realizzato dallo studio Karmachina in collaborazione con la band Fernweh: trenta minuti durante i quali i personaggi e i paesaggi del Trittico del Giardino delle Delizie prendono vita grazie all’animazione digitale. Costruito come un vero e proprio spettacolo teatrale, Tríptiko è suddiviso in tre atti, durante i quali momenti più figurativi, dove maggiormente evidente è il rimando alle tavole di Bosch, si alternano ad altri più astratti, che evocano liberamente la natura visionaria e lisergica dell’opera del maestro fiammingo. Seguendo rispetto alle tavole originarie un andamento da sinistra verso destra, l’opera si apre con la Genesi con una mano divina sullo schermo che dà origine ai paesaggi, alla natura, ad animali fantastici e reali in un’atmosfera paradisiaca e luminosa, mentre il secondo atto è una grande festa caratterizzato dalla comparsa dell’uomo. A scandire il passaggio al terzo ed ultimo atto è un intermezzo ispirato all’opera Sette peccati capitali: la comparsa del peccato nell’uomo trasforma la festa in un evento sregolato e senza limiti, che porta l’uomo alla cacciata dall’Eden. L’opera si conclude con un momento infernale, popolato da mostri spaventosi e presenze inquietanti. Passato e contemporaneità si incontrano non solo sul piano visivo magistralmente lavorato dallo studio fondato da Rino Stefano Tagliaferro (al quale il Festival ha dedicato anche un incontro), ma anche su quello del suono attraverso la musica originale composta ed eseguita dal vivo dai Fernweh per la quale il trio spagnolo ha trovato in Josquin Desprez un punto di riferimento trasponendolo nel contemporaneo attraverso lo sviluppo o la frammentazione delle costruzioni melodiche e armoniche, l’elettronica, il sound design.
È un viaggio tra passato e presente attraverso la sperimentazione musicale anche quello di MUVIC (Andrea Lepri e Paolo Baldini) il cui sound, tra campionatori e strumenti, tra psichedelia ed elettronica, mescolato ad alterazioni video, trasforma il film Olympia diretto da Leni Riefenstahl nel 1938 in un gioco di ripetizioni visive. I movimenti degli atleti dei Giochi olimpici di Berlino 1936, le prime nella storia ad essere documentate, appaiono all’improvviso goffi a cavallo tra l’ironia della serie Disney Pippo e lo sport e i tentativi fotografici di documentazione del movimento di Muybridge. Sul palco invece il duo sembra mimetizzarsi, quasi nascondersi agli occhi dello spettatore, coperti interamente da tute nere a coprire anche i volti quasi a sottolineare che ciò che conta è il video, è l’esperienza di chi lo guarda, non la presenza dell’artista.
E se ciò che conta è l’immagine stessa, la sua capacità di raccontare, non importa che il corpo sia presente nella sua naturalezza, nella sua autenticità corporea. Il duo APOTROPIA tenta allora di indagare l’identità umana in tempi di digitalizzazione portando sullo schermo un personaggio interamente artificiale costruito in cinque atti a partire dalla dematerializzazione digitale dell’identità umana, delle sue maschere talvolta strumento sociale necessario talvolta gabbia. Un concerto audiovisivo nel quale i linguaggi della video arte e della video danza si intersecano con quelli della musica elettronica e del vjing nel tentativo – esplicito – di rispondere alla domanda “Chi sono io?”.
Che cos’è la video arte nell’era del hyperdigitale?