ATP DIARY

I Wish It Was Mine | Galleria Alberta Pane, Venezia

– Testo di Giulia Giacomelli – Una stanza santuario in cui i desideri prendono forma. I Wish It Was Mine è il titolo-mantra della mostra curata da Ivan Moudov (Sofia, 1975) ospitata negli spazi della Galleria Alberta Pane di Venezia fino al 29 luglio. La narrazione sottostante il progetto s’ispira dichiaratamente ad un film di […]

I Wish It Was Mine, Galleria Alberta Pane, Venezia, 2023, Exhibition view | Ph. Irene Fanizza

– Testo di Giulia Giacomelli

Una stanza santuario in cui i desideri prendono forma. I Wish It Was Mine è il titolo-mantra della mostra curata da Ivan Moudov (Sofia, 1975) ospitata negli spazi della Galleria Alberta Pane di Venezia fino al 29 luglio. La narrazione sottostante il progetto s’ispira dichiaratamente ad un film di Tarkovsky, Stalker, il cui nucleo centrale della trama ruota attorno all’attraversamento di una “Zona” da parte dei protagonisti ed è finalizzato al raggiungimento di un luogo mitico denominato “La Stanza”. In essa chiunque vi entri vedrà realizzati i suoi desideri terreni più reconditi. Come lo Stalker che conduce i suoi compagni attraverso la “Zona”, la mostra invita lo spettatore a esplorare i propri sogni e i propri desideri più nascosti, attraverso la creazione di uno spazio i cui confini della realtà sfumano ed è l’immaginazione ad imporsi. Attraverso una logica curatoriale autoriale, I Wish It Was Mine riflette inoltre il desiderio personale dell’artista-curatore di appropriarsi delle opere esposte come se le avesse realizzate in prima persona. La bramosia di possesso e la ricerca di identificazione con i lavori esposti sono filtrate da una riflessione critica che suggerisce come, in un mondo dominato dalle illusioni e dalle aspettative irrealistiche, sia importante interrogare la natura delle nostre ambizioni e cercare un significato più profondo al di là delle superfici apparentemente attraenti.

I Wish It Was Mine, Galleria Alberta Pane, Venezia, 2023, Exhibition view | Ph. Irene Fanizza

Al termine del lungo corridoio che conduce all’ingresso di questa dimensione surreale e mitica, Anri Sala (Tirana, 1974) con la sua opera Le jour de gloire est arrivé (2017) accoglie il visitatore al suono delle melodie impercettibili della Marsigliese e dell’Internazionale. I tre fotogrammi catturano alcuni istanti di Take Over, un’opera precedente in cui l’artista utilizza un meccanismo per far muovere automaticamente i tasti del pianoforte. Suonando le due musiche simbolo del rovesciamento di regimi autoritari e inneggianti a un desiderio di libertà, Sala riflette sull’evoluzione del loro significato costantemente assoggettato a logiche di riappropriazione e di appartenenza. La dichiarazione poetica di Moudov è esplicata fin dall’inizio del percorso espositivo attraverso The one minute stalker (2022): i 161 minuti di Stalker di Tarkovsky sono qui incapsulati in singoli frammenti di un minuto, alternati dallo stesso tempo di schermo buio. L’approccio di creare una serie di micro-azioni disposte in modo ordinato in una serie di file composte da piccole capsule temporali, sembra sfidare la tradizionale narrazione cinematografica, invitando chi guarda a ricomporre mentalmente l’asse spazio-temporale degli eventi narrati. L’esplorazione delle capacità immaginifico-percettive e l’immersione in un ambiente visivo che innesca sensazioni mentali e corporee relazionate al concetto di tempo sembra imporsi non solo come vademecum della singola opera, ma della mostra stessa. Infatti, con S’he, Ulay (Solingen, 1943 – Lubiana, 2020) sperimenta in prima persona la percezione del proprio sé come un oggetto permanentemente in costruzione, richiamando il suo corrispettivo storico duchampiano.

Selma Selman, Do Not Look Into Gypsy Eyes, 2016, Exhibition view, I Wish It Was Mine, Galleria Alberta Pane, Venezia, 2023 | Ph. Irene Fanizza

Il nodo del processo di appropriazione su cui poggia l’ideologia dell’intera mostra e che caratterizza molte delle opere esposte, è qui sbrogliato secondo due modalità decisamente complementari: sebbene il sé sia una proprietà indiscutibilmente appartenente ad ogni essere umano, viene qui riproposto seguendo una logica di possesso “a matrioska”.  È un re-enactment del ready made. Termina così il blocco delle opere propedeutiche alla restante parte della mostra, la quale è concentrata piuttosto sull’offerta di spunti di riflessione riguardanti i concetti già preannunciati di desiderio, identità e protesta. Una summa di questa triade è proposta da Selma Selman (Bosnia-Erzegovina, 1991) e dalle sue due opere video. In NO SPACE (2019) le dimensioni reali della sua persona e del pianeta terra sono invertite, affrontando in questo modo i concetti di spazio fisico e di appartenenza identitaria all’interno di una società contemporanea progressivamente in rimpicciolimento. “Non c’è spazio per nessuno tranne che per me” afferma parossisticamente Selman, criticando al contempo il capitalismo e le disuguaglianze in termini di affermazione del sé che questo comporta. Infatti, si può ipotizzare un proseguo ideale dell’opera in Do Not Look Into Gypsy Eyes (2016), in cui l’artista fa risuonare all’interno dello spazio una descrizione sul mantra associato alla donna “rom” – ipersessualizzata, esotica, erotica ed eccitante, ma anche pericolosa, volgare e seducente – appropriandosi di questa visione e perpetuando gli stereotipi che spesso caratterizzano la rappresentazione di questa comunità.

I Wish It Was Mine, Galleria Alberta Pane, Venezia, 2023, Exhibition view | Ph. Irene Fanizza

In dialogo con Selman si pone come contraltare il desiderio di appartenenza e di resilienza immaginativa espresso da Alban Muja (Kosovo, 1980) con la sua opera Above Everyone (2020 – in corso). Il progetto, ancora in evoluzione, si manifesta qui in una duplice forma: quella pittorica, attraverso un acquerello di un’installazione esposta a Manifesta XIV, e quella “scultorea”, utilizzando la vera tenda parasole della sua abitazione. Muja, come molti altri kosovari nel dopoguerra, ricostruisce la propria abitazione sopra un edificio preesistente, l’ex grande magazzino Gërmia, creando così una connessione diretta con la memoria e la storia del luogo. Queste “architetture parassitarie”, oltre a mettere in luce il collasso del sistema abitativo nelle città dell’ex Jugoslavia, sono una dichiarazione aperta di resistenza e di riappropriazione di uno spazio identitario, che può essere anch’esso altrettanto concreto quanto ideale. Con The Awning Muja sembra così invitare lo spettatore ad entrare nella sua stessa casa, creando un ponte tra il privato e il pubblico all’interno di un costante processo costruttivo di storia collettiva. Una storia collettiva che può essere letta da punti di vista ambivalenti, come nel caso di Untitled (same war time zone) (2016-2023) di Claire Fontane (identità creata nel 2004), artista che fa dell’appropriazione e della risemantizzazione la sua cifra stilistica.  Indissolubilmente connessa a Perfect Lovers di Felix Gonzalez-Torres, nell’installazione dell’artista francese si mette in evidenza una condizione apparente di sincronicità tra diverse zone geografiche coinvolte nella stessa guerra.

I Wish It Was Mine, Galleria Alberta Pane, Venezia, 2023, Exhibition view | Ph. Irene Fanizza

Tuttavia, l’illusoria uniformità offusca la diversità delle esperienze vissute all’interno della stessa “Zona” e propone di mettere in discussione le narrazioni semplificate, invitando l’osservatore a considerare le diverse prospettive ed esperienze all’interno della “Stanza” espositiva. L’uso di due orologi che scandiscono una temporalità oggettiva, che non corrisponde idealmente a quello interno allo spazio della galleria, aggiunge un ulteriore strato di ambiguità e soggettività alla mostra stessa. Tempo esterno e tempo interno, ma anche spazio esterno e spazio interno. È su questo piano che si muove l’opera di Miná Minov (Sofia, 1982) Observatory #3 (2008-2023).Una tv al di sotto di un’intercapedine di legno dal quale pende un filo e una maniglia metallica che se tirata muove l’albero sullo schermo, lo stesso albero che è possibile scorgere fuori dalla galleria. Un monito, dunque, o una definitiva presa di coscienza? La “Stanza” dei desideri non corrisponde alla realtà e affinché le fantasie che vi scaturiscono al suo interno possano prendere una forma, è necessaria un’azione deliberata e concreta. Come quella che Ulay mette in atto in There is a Criminal Touch to Art (1976), un’opera performativa documentata da una serie di fotografie in cui ruba il dipinto preferito di Hitler, Der arme Poet di Carl Spitzeg, dalla Neue National Galerie di Berlino.  “Era una specie di icona identitaria per la Germania” e sottraendola al potere delle istituzioni per collocarla nella casa di una famiglia turca nel quartiere di Kreuzberg, Ulay dà vita ad un processo di disgregazione identitaria e comunitaria.

Gelitin, Autumn Leaf – The Gelatin Flag, 2020, Exhibition view, I Wish It Was Mine, Galleria Alberta Pane, Venezia, 2023 | Ph. Irene Fanizza

Il quadro, che inizialmente rappresentava un simbolo di appartenenza nazionale e di un’ideologia dominante, viene ora inserito in un contesto culturale e sociale completamente diverso, provocando un conflitto tra le identità collettive e mettendo in luce la fluidità e la mutevolezza delle stesse. Con il furto all’interno di un’istituzione museale, Ulay sfida il sistema di potere esistente e ricrea uno spazio di resistenza e di ridefinizione del sé. Un intento che viene definitivamente sugellato dal collettivo viennese Gelitin (attivo dal 1993) con Autumn Leaf – The Gelatin Flag (2020). L’associazione tra le tre bandiere e le foglie autunnali evoca un senso di transitorietà e bellezza mutevole della natura, suggerendo un’idea di fluidità e movimento. Questo contrasta con il concetto tradizionale di bandiera come simbolo fisso di identità e appartenenza a un paese o a un’entità specifica, suggerendo piuttosto l’idea di una compartecipazione attiva nel ricrearne la propria versione personale. Si incorpora in questo senso la volontà di un desiderio che diventa possesso, ma il cui legame non risulta essere una verità aprioristica. I Wish It Was Mine si configura come una ricerca appassionata, ma anche un’attesa anelante di una concretizzazione che ha definitivamente preso forma al di fuori delle nostre menti esplicitando una pluralità di interpretazioni e di identificazioni introiettive, stimolate da una partecipazione aperta al processo di creazione ed appropriazione collettiva.

Ulay, S’he, 1973, Exhibition view, I Wish It Was Mine, Galleria Alberta Pane, Venezia, 2023 | Ph. Irene Fanizza
Selma Selman, No Space, 2019, Exhibition view, I Wish It Was Mine, Galleria Alberta Pane, Venezia, 2023 | Ph. Irene Fanizza