I (never) explain #87 – Tomaso De Luca

ein reiner Morgen in Amerika (“Un limpido mattino in America”) racconta dello spazio interstiziale delle epoche storiche e dei giorni, nel quale troviamo i fantasmi, gli ospiti scomodi, le presenze che non vorremmo vedere, ma con cui necessariamente dobbiamo fare i conti.
17 Agosto 2020
Tomaso De Luca ein reiner Morgen in Amerika, 2016, vernice su lamina di alluminio, ferro, legno, alluminio, veduta dell’installazione, Monitor, Roma courtesy l’artista e Monitor, Rome, Lisbon, Pereto photo courtesy: Giorgio Benni

“Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e organizzi questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.”

(Larry McCaffery (1993), «A Conversation with David Foster Wallace». The Review of Contemporary Fiction).                                                                                              

Tomaso De Luca, ein reiner Morgen in Amerika, 2016, vernice su lamina di alluminio, ferro, legno, alluminio, veduta dell’installazione, Monitor, Roma courtesy l’artista e Monitor, Rome, Lisbon, Pereto – Photo courtesy: Giorgio Benni

Suono il campanello, ad aprirmi è un armadio. No, forse è un comò, anche se sembra più alto del normale. Dice qualcosa, ma non lo capisco. Qui in Amerika si parla il tedesco e io la lingua la conosco poco. Devo avere un’espressione sbigottita perché l’armadio capisce al volo la situazione e mi ripete la domanda stavolta in inglese. Benedetta lingua franca. Come Teseo con la testa della Gorgone alzo il braccio che regge le bottiglie di birra, mostrandole al mio inquisitore. Tintinnano, trasudanti, ammassate, sospese a mezz’aria nel loro involucro di plastica bianchiccia. L’armadio sorride, “Komm!” dice. Capisco che mi invita a entrare. 


Il pensiero di tutte le persone che non conosco a questa festa mi agita. Mi spaventa sempre un po’ entrare in un posto che non conosco, pieno di gente che non si conosce. Reggere il bicchiere di plastica tutta la sera, stare attento a non romperlo per la troppa tensione. Rovesciarsi il drink addosso. Rovesciarlo sul tappeto, sul divano, sul tavolino di vetro, sul cane, sul proprietario di casa, sul ragazzo che mi piace, sul nodo alla gola, sulla schiena curva, sulle scale ripide, sul palazzo che crolla. Dovrei tenere a freno la lingua, la voglia di fare a pezzi mamma e papà. Vorrei non bere ma l’agitazione è troppa. Bere serve a lenire la paura di venir scoperti a masturbarsi, di essere irriducibilmente adolescenti. Allontana dalla mente l’impressione, giustificata, che la Storia non esista. Mi fa ignorare la consapevolezza che senza di essa ci si deve arrangiare col solo concetto di vita. Quello si che di solito fa venire un groppo in gola. Devo stare composto, togliermi le scarpe quando entro? Forse è meglio essere un po’ sgarbato, ma cool. Fucking Cool. 


Mi tolgo le scarpe. Maledetto me ho un buco nei calzini! Contraggo le dita tentando di nasconderle sotto la pianta del piede. Dissimulo, malamente. Mi avvio frettolosamente verso la cucina per sistemare le birre nel frigorifero ma, per quanto ci provi, mi sforzi, il gigante bianco non si apre. Tutte le ante dei pensili e degli elettrodomestici a incasso sono sigillate. Non si apre nulla, né i cassetti né il rubinetto dell’acqua fredda. Niente. 
 Decido di appoggiare le birre sul bancone di marmo e andare via. Non le tolgo nemmeno dal sacchetto che le avvolge come il panneggio bagnato delle statue classiche esposte nei musei. Mentre lascio la cucina non mi volto a osservare la scultura fradicia e taciturna ma ne percepisco alle spalle la presenza inquietante. Samotracia, decapitata e senza braccia, non più alta di 33cl, eppure così monumentale, così immobile, così viva. 


La sala è piena di fumo, una nebbia acida che irrita immediatamente gli occhi. Sul divano di velluto marrone una lama circolare ascolta una gru che parla sguaiatamente. Non so se si tratti dell’animale o dell’argano. È l’ambiguità classica della parola “gru” che trae costantemente in inganno, a maggior ragione quando la luce nella stanza è fioca. A poca distanza un divo del cinema muto e un posacenere pieno di mozziconi sembrano spassarsela. C’è quella poetessa surrealista che mi sembra di conoscere, ma non credo si ricordi di me. Ho quasi voglia di sparire, di infilarmi sotto il tappeto persiano, sotto un qualunque oggetto Dada. Ho voglia di sprofondare tra i cuscini del divano occidentale-orientale, di chiudere gli occhi e diventare invisibile. Puff. 

E invece sono lì, scoperto, visibilissimo, alto e ossuto come un attaccapanni. Ce n’è uno vero di attaccapanni, per terra, che si spoglia e si dimena, accanto a una sedia rovesciata.


Imbarazzato corro al tavolo degli alcolici. Bevo, in fretta, due volte, senza ghiaccio. Mi devo calmare. Ma da cosa? C’è un gran baccano ma non è fastidioso. Nessuno è ostile, anzi, sembrano tutti molto amichevoli. È che sono preoccupato perché sembrano tutti taglienti, tutti armati, tutti così Moderni. Sembrano drammi psichici, allucinazioni formali ma, in fondo, buoni. Hanno quell’incertezza dolce dei rivoluzionari falliti, così pieni di vita. Gente che non ha pensato al capitale umano. Tschüss!                               

Alla fine del terzo bicchiere di gin non me ne frega più niente della calma o della quiete. Anzi, comincio a pensare finalmente che quelle sono cose borghesi e anguste. Faccio un tour guidato nel museo della devastazione del dialogo interiore? – Kaaaaaaarl! – sento gridare dall’altra parte della sala. Abbraccio il visone che mi guarda un po’ incredulo. È la fine del mondo, in sole quattro righe.”                                               

Tomaso De Luca, ein reiner Morgen in Amerika (Franz), 2016, varnish on aluminum, 113x39x61 cm courtesy l’artista e Monitor, Rome, Lisbon, Pereto – photo courtesy: Vittorio Landino

Se nel 1993 erano le tre del mattino, oggi con tutta probabilità sono le sei, e fuori sta già albeggiando. Nessuno degli ospiti se n’è ancora andato e il disastro si consuma sotto i nostri occhi inermi. La malinconia e l’ansia, in una strana oscillazione tra passato e futuro, ci inducono una leggera asfissia, e così ancora non ci fanno decidere se rimettere in ordine o abbandonarci al caos. Cominciamo a domandarci a cosa porti questa festa senza fine, cosa dia questo caos che ci ha sopraffatti, o quale sia l’autorità che dobbiamo imporre nuovamente. Siamo obbligati a riconsiderare il nuovo stato delle cose, il rovesciamento rivoluzionario è avvenuto, ma cos’è andato storto? Il party di fantasmi e trickster di Foster Wallace finisce male: i princìpi modernisti, imponenti e ingombranti come i mobili di famiglia, vengono sfasciati e vandalizzati. Non ci siamo resi conto però, prima che il disastro accadesse, che nelle mani dei nostri ospiti indesiderati quei princìpi si sono trasformati in armi taglienti, pericolose, leggerissime e terribilmente vive.(2020, Nota su ein reiner Morgen in Amerika)

ein reiner Morgen in Amerika (“Un limpido mattino in America”) racconta dello spazio interstiziale delle epoche storiche e dei giorni, nel quale troviamo i fantasmi, gli ospiti scomodi, le presenze che non vorremmo vedere, ma con cui necessariamente dobbiamo fare i conti.
Apparentemente ferito e precario, il Modernismo marcito di ein reiner Morgen in Amerika dimostra ancora il suo potere sovversivo, il suo superamento delle polarità o delle categorizzazioni, la sua incapacità sostanziale e programmatica di essere “spiegato”, ridotto in parti semplici, poiché funziona solo in un insieme.
Le sculture, che portano ognuna il nome di una persona, come gli invitati a una festa, si insediano nello stanze, occupano la casa. Paiono una giungla di piante da appartamento, o un paesaggio complesso che si sviluppa nello spazio di un posacenere pieno, decidono di essere ciò-che-non-si-dovrebbe-essere.
Questo mattino, che ci trova terribilmente affaticati, applica la sua qualità di purificazione alle cose, le rende nitide, sorprendentemente chiare. Ci fa rendere conto che nulla è andato storto nella rivoluzione, la rivoluzione deve essere “storta” dal principio. (2016, dal comunicato stampa di ein reiner Morgen in Amerika, Monitor Roma).

*Larry McCaffery (1993), «A Conversation with David Foster Wallace». The Review of Contemporary Fiction
(2020), Nota su ein reiner Morgen in Amerika
(2016), dal comunicato stampa di ein reiner Morgen in Amerika, Monitor Roma.

Tomaso De Luca, ein reiner Morgen in Amerika (Gus), 2016, oil on aluminum, 111x52x39 cm courtesy l’artista e Monitor, Rome, Lisbon, Pereto photo courtesy: Vittorio Landino
Tomaso De Luca, ein reiner Morgen in Amerika (Petrit, not feeling very well), 2016, oil on aluminum, 68x59x52 cm courtesy l’artista e Monitor, Rome, Lisbon, Pereto photo courtesy: Vittorio Landino

Ha collaborato alla rubrica Irene Sofia Comi

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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare.
Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.

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