Nella mia storia recente, pensando agli ultimi anni, il mio stream creativo più importante è stato quello di circa un anno e mezzo fa, che ha portato alla realizzazione della mostra “Tutto infinito” che inaugurava gli spazi di OGR – Officine Grandi Riparazioni a Torino. Quella mostra e i miei lavori hanno sicuramente rappresentato uno scarto, che condiziona il mio lavoro fino a oggi e che è riuscito a sintetizzare due momenti del mio processo creativo contribuendo ad un mio cambiamento come individuo prima ancora che come artista con l’inizio di una serie di esperienze diverse anche a livello personale. All’interno di questo progetto-mostra specifico, scelgo di parlare di un’opera che ha particolare attinenza con la ricerca che porto avanti oggi, così come con una dimensione più personale. Mi riferisco a The Power Napper, una scansione 3D di un bimbo che dorme.
Una piccola introduzione d’insieme sulla mostra per me è fondamentale per capire lo spirito che caratterizza The Power Napper. Infatti, è arrivata nel momento in cui stavo instaurando un rapporto differente con l’idea di spiritualità laica, è nato in me un approccio più spirituale e meditativo; si trattava di una dimensione personale, quasi fosse il tentativo di sottrarsi a una dimensione mainstream. Parlo di una porzione privata e intima di come io vivo la ricerca. Quello spazio è immenso con cui misurarmi e la storia di quel luogo trasuda un’esperienza legata all’industria pesante dell’acciaio, facendomi pensare, a maggior ragione, al rapporto che noi abbiamo con il passaggio del tempo.
Tutto il lavoro è stato un ricostruire un sistema di segni, un organismo complesso ma che raccontasse di una dimensione altra nello spazio e nel tempo, così come nella percezione dell’uomo.
Così, con The Power Napper, è nato il desiderio di ridescrivere la nostra figura umana attraverso l’immagine di un uomo, questo perché vivo come “scollata” la nostra esistenza come corpo rispetto alla percezione del mondo attuale: grazie alla tecnologia esistiamo in verità con la stessa presenza, ma in una forma totalmente diversa, in cui lo spazio e il tempo si dividono. Si tratta di uno “scollamento” che ho sentito talmente forte da sentire l’urgenza di una ricostruzione di questa immagine.
Questo lavoro, con i relativi pensieri che porto avanti da una decina d’anni, mi ha portato ad avvicinarmi a forme propriamente umane nel mio lavoro. Non riesco ancora a rappresentare la figura in maniera totale, ma sento ora, al contrario di prima, l’esigenza di concentrarmi sulla figura umana, su una figura possibile.
C’è un’urgenza per l’essere umano di rappresentare se stesso, tramite l’arte e non solo, per abbattere l’immortalità e combattere un po’ questa paura della fine dell’esistenza. Esistono quindi, nella storia dell’arte, da quella antichissima fino ad ora, infinite rappresentazioni di questo desiderio. Mi sono quindi chiesto: “Cosa potrebbe succedere se nel 5000 d.C. rinvenissero delle opere senza connotazioni, senza contestualizzazione culturale e sociale o una scala di valore e di potere, ma fossero semplicemente dei segni del passaggio di qualcuno?”.
È chiaro che un futuro lontano è un paradosso, ma quello che ipotizzavo era un futuro di fiction, e le opere sono sempre fiction: The Power Napper rappresentava un approccio non canonico e non spontaneo, doveva raccontare un uomo, ma proiettato in un futuro lontano.
L’opera ha una forte relazione con il mio mondo privato. Esiste innanzitutto in due versioni, Black Rio e White Rio, una in marmo nero e una in marmo bianco, che esistono distintamente ma saranno per sempre collegate. L’opera è la rappresentazione di un bimbo che dorme, nello specifico è una scansione 3D di mio figlio che dorme, realizzata con una fresa a controllo numerico e passando quindi da uno stato di pura rappresentazione virtuale a una fisica.
Oltretutto le tecniche che usano le frese a controllo numerico, che lavorano con le scansioni 3D, lavorano proprio sul togliere, come avviene nella scultura più tradizionale: si parte dal blocco, il più possibile mirato e vicino alla forma che ti interessa, considerandone anche le venature. È davvero un approccio considerabile vicino alla scultura vera e propria, ma che al tempo stesso si avvicina a una dimensione più industriale e non empatica. È nella dimensione industriale e tecnologica di questo approccio che ritrovo il legame con lo spazio delle OGR.
Quello che ho cercato di fare con questa scultura è stato di cercare di infiltrarmi tra il soggetto e il processo. Partiamo dal soggetto: mio figlio che dormiva che, essendo stato scansionato, è stato pensato come un disegno e una forma in una posizione specifica, quella del sonno. Mettermi quindi a lavorare fisicamente, live sul corpo di mio figlio, pensando a quali forme potevano funzionare meglio, come fosse proprio una scultura, è stato per me un processo caldissimo, come rapporto “uomo a uomo”, ma anche fisico, tattile ed empatico.
Mio figlio, dunque, trasportato poi a un processo meccanico e freddo, che ha a che fare con la tecnologia contemporanea e che va a toccare limiti temporali che tendono verso il futuro. L’idea era quindi di rendere questo scambio il più forte possibile, di scaldarlo e renderlo il più energetico possibile. Questo è stato un processo nuovo che nel mio lavoro prima non esisteva, cercando di usare questa tecnologia in maniera più personale e più calda.
È stato importante scegliere cosa andavo a rappresentare: ho fatto un cambio di scala, il 25% più grande del normale. Non è una grande dimensione ma è tale da permettere di mettere il visitatore davanti a questo oggetto, di riconoscersi. È una misura intermedia, in disarmonia con entrambe le dimensioni, né la dimensione 1:1 umana né tantomeno la larga scala tipica della scultura che si confronta con la dimensione dell’intervento pubblico.
Quando sei molto vicino è evidente che sia più grande, ma non troppo; per me è stato importante cercare e trovare questa percentuale di differenza. Ci troviamo davanti a una scultura che non è pienamente te, ma non è totalmente “non te”.
Poi questo bambino è un’immagine, un bambino piccolo ma non troppo (ai tempi aveva 10 anni, quasi 11) e che quindi è in una fase della vita magica ma terrificante, una fase in cui il potenziale umano di evoluzione è altissimo, con spiragli di crescita infinitamente più ampi rispetto alla vita di un adulto.
Quello che mi ammaliava di questa situazione e che sempre mi è interessato (come accadeva nei primi lavori), era proprio svelare e scoprire la potenzialità della vita, questa energia carica che è al tempo stesso bella e spaventevole, in cui il limite tra bianco e nero, tra notte e giorno, tra bene e male è sottilissimo, in cui è un attimo che questa potenzialità deragli. Un momento intimo e vulnerabile, un’età in cui non hai la capacità dell’adulto di difenderti, sei più in balia del mondo. Al tempo stesso, si tratta della stessa condizione del sonno: un momento bello e terrificante, un momento di riposo che ti mette più paura, dove lo stato di coscienza e la dimensione dello spazio-tempo è assolutamente differente ma è anche un momento in cui sei potenzialmente totalmente scoperto, il tuo grado di vulnerabilità è altissimo.
Sei in una condizione altra di coscienza e di consapevolezza diversa: un dualismo terrificante che non si risolve ma che convive, che è rappresentato anche dai due marmi, era alla base di tutto il lavoro.
L’oggetto è poggiato su una base e una forma che rappresenta il 50% del lavoro nelle dimensioni, non è quindi meno importante. È una forma che racconta di un passato industriale, del rapporto con l’acciaio, con una materia che convive con un minerale sopra di lui, e, quindi, un pezzo di terra, un elemento naturale che viene poi sì plasmato, ma rimane pur sempre un minerale.
In qualche modo, racconta di echi legati al modernismo e all’arte del display, del disporre (pensiamo a Franco Albini e Carlo Scarpa) ma al di là di questa mia consapevolezza nelle citazioni, esso vuole essere un riferimento al nostro passato di esseri umani, recente ma al tempo stesso lontanissimo, che non succederà più. C’è in atto una rivoluzione estrema: connessione e scarto.
La dimensione spirituale, che aveva un peso in questo lavoro come nella mostra, intesa come approccio totalmente laico, si collega all’idea di quello che voglio definire corpo “portante”, che sottintende la presenza di altro: porta, sostiene, trasporta qualcos’altro, porta qualcosa che è in grado di trascendere la materia, qualcosa di immateriale che lo anima. Questa, da una parte, è l’idea dell’immortalità, pensando a riflessioni legate alla scienza (intelligenza artificiale, rapporto uomo-macchina) e il desiderio di affrontare un tema ma in modo pragmatico e scientifico); dall’altra, c’è una visione più spirituale, legata al desiderio naturale e innato di rappresentare se stesso, una linea temporale che tende all’infinito.
Non esiste più la soglia tra passato e futuro, scienza e spirito.
Ciò che trascende questo dualismo è l’opera d’arte, unico elemento capace di trasportarsi al di là di tutto, comprendendo tutto, liberando noi uomini dalla dipendenza della materia e dello spazio e del tempo.
Ha collaborato Irene Sofia Comi
Per leggere gli altri interventi di I (never) explain
I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.