L’età dell’oro —
Il mio lavoro incomincia dalla nostra relazione con l’ambiente naturale e i suoi futuri incerti.
Parte dall’ambiente materiale, attraverso la scelta dei materiali con cui realizzo le opere; dall’ambiente emotivo interiore, da quello che mi turba e non riesco a formulare a parole.
L’opera diventa una sorta di gesto di attivismo silenzioso, un luogo dove seguire degli ideali di rispetto per ciò che mi circonda, di disperazione per come lo trattiamo e per la situazione assurda in cui ci troviamo. Un campo dove vivere davvero gli ideali che tutti conosciamo: assenza di gerarchia, atossicità, comunicazione non violenta, ascolto.
“L’età dell’oro è un mito di tutte le epoche, esprime in tutte le culture che, mentre oggi la vita umana è una lotta continua e nel mondo c’è il male, c’è stata invece un’epoca meravigliosa e beata, in cui gli esseri umani erano felici, non morivano, non si ammalavano e non dovevano lavorare.” (Da una lezione di Alessandro Barbero)
Chissà se c’è mai stato qualcosa di simile, sicuramente è ben lontana dal momento in cui ci troviamo. Eppure, noi privilegiati ancora abbiamo tutto quello che vogliamo.
Ho scelto di parlare di L’età dell’oro, un lavoro recente che mi sembra emblematico per la mia pratica.
Si tratta di tre grandi dipinti che formano un unico lavoro. Sono quadri bilaterali: su un lato sono composti da densi strati di argille crude, sabbie, paglia e fuliggine. Macchie di olio di lino che ho infuso con Artemisia vulgaris lasciano segni di unto che sembrano bagnati e un odore dolceamaro.
Questi paesaggi sono composti da parti di paesaggi diversi che si contaminano a vicenda: sabbia nera vulcanica della penisola sorrentina, sabbia bianca del passo del Lucomagno in Svizzera, argille spagnole, sabbia verde proveniente dal periodo Albiano, circa cento milioni di anni fa.
Penso alle idee di creolizzazione di Édouard Glissant, secondo cui la mescolanza porta a qualcosa di nuovo e completamente inaspettato.


“I can change through exchanging with others, without losing or diluting myself.”
Questi paesaggi aridi sono piuttosto viscerali ed emozionali per me. Parlano di sfumature minerali, neri che non sono neri ma pieni di riflessi, a guardarli bene. Grigi che, dal verdognolo, virano al rossastro passando per il bluastro. Terre arancioni e bianche che sento scomode.
Anche la scomodità è qualcosa che sento: da una parte è il tentativo di attirare l’attenzione tramite una tensione, dall’altra una condizione più politica e metaforica. Un senso di sentirsi fuori posto, in bilico, precario.
I materiali che raccolgo per me riverberano informazioni del luogo di provenienza, come per esempio il calore estremo in cui si è formata inizialmente la pietra vulcanica che uso: quella materia universale in cui tutto diventa uno, tutto si scioglie e si compone in una massa primordiale, ricca, fertile, viva in un altro modo da quello che intendiamo solitamente vivo. Per me questa materia vibra.
“Credo che gli incontri con la materia viva possano correggere le mie fantasie di dominio umano, mettere in luce la comune materialità di tutto ciò che è, mostrare una più ampia distribuzione dell’agentività e rimodellare la soggettività e i suoi interessi.” — Jane Bennett
Ci sono degli elementi di passaggio tra i due lati dei dipinti: pochi buchi che lascio nell’intonaco, attraverso cui filtra la luce, chiazze di olio che trapassano, tracce dell’altro lato.
Le cuciture, col tempo, sono diventate elementi di composizione. Servono a dare spazialità al dipinto, rompono il piano poco prospettico delle scene pittoriche.
Come la maggioranza degli elementi, nascono come necessità: mi trovavo con poca iuta per realizzare un lavoro grande. Non mi piace nascondere gli elementi di costruzione, così le cuciture sono diventate orizzonti, vene.
Sul verso i dipinti sono anche dipinti: le terre dall’altro lato passano attraverso le fessure della trama della iuta grezza creando nuovi paesaggi terrosi.
Su questi ho dipinto piante: crescono dal basso e scendono dall’alto. Immagino uno sguardo lisergico, di immersione, sono sullo stesso piano degli steli d’erba.


In alcuni spazi negativi lasciati dalle piante figurano dei corpi, nudi, con la pelle che tocca la terra e a tratti l’acqua. Volevo questi corpi spettrali, eterei, come se anche loro non fossero per sempre. Per me parlano di sensualità e anche un po’ di sessualità. Trovo aspetti simili tra l’energia di creazione artistica e quella sessuale.
I corpi vuoti sono come dei contenitori. Nel processo della pittura, il corpo maschile a sinistra si è quasi perso. Allo stesso modo, queste figure sono anche un po’ morenti: stanno scomparendo e ritornando terra.
Tra le pennellate lascio spazio e non copro mai completamente i fondi: sarebbe assurdo coprirli, vista la loro natura elaborata. Mi trovo così in una situazione in cui devo cercare una relazione d’insieme, dove non c’è gerarchia, non domina uno sull’altro.
Nel quadro a destra la pittura è ancora più rarefatta, lasciando spazio a misteri come la nebbia. Un caro amico mi dice che devo accettare questa leggerezza.
Il fatto che le mie pitture siano composte da terra per me trasforma gli spazi. Porta qualcosa dall’esterno all’interno. Cambia l’aria e il modo in cui viene riflessa la luce in uno spazio. Sono dei materiali che hanno qualcosa di vivo.
Le tecniche di intonaco le ho prese dall’edilizia: questo dà loro un aspetto crudo che mi interessa, una crudezza dovuta agli ingredienti e alla loro poca lavorazione. Sono grezzi: terre, sabbie e pezzetti di piante. Poco trasformati, in modo da non consumare troppa energia per realizzarli. Idealmente, per poterli riconsegnare alla terra. Nel linguaggio crudo ci trovo anche della sincerità e della trasparenza.
La frammentazione di queste immagini è lo specchio di un mondo che cade un po’ a pezzi. L’assurdità dell’età dell’oro capitalista finisce nel suo collasso, e la mia domanda è: cosa possiamo fare con le rovine? Non sarebbe più sensato un adattamento dei paradigmi estetici, e quindi vivere con le rovine, più visibili, sincere, trasformandole?
Cover: Enea Toldo, L’età dell’oro 1, 2 e 3 (2024), pigmenti, argille, oli, sabbie, fuliggine, paglia, calce, iuta, legno, 165 x 127 cm ciascuno


Ha collaborato Simona Squadrito
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.