Il quarto cavaliere
Al piano terra della casa che si trova al numero civico 140 in Viale Europa a Villabate (Palermo), si trovava lo studio odontotecnico di mio padre, lo aveva costruito negli anni 90’, quando ancora abitava a casa con i miei nonni. L’ultima volta che sono tornato lì, lo studio era totalmente sommerso dal passaggio del tempo, dalla polvere e dai ricordi immobili che riecheggiavano in quella stanza. Un set scenografico, pronto a prendere vita da un momento all’altro.
Una cosa su tutte mi colpì, ovvero dei campioni dentali fatti di resina, che servivano a decidere la forma e il colore del nuovo dente da ricostruire. In poche parole, un archivio dell’ipotesi.
La fascinazione per tutto ciò che rimane, intatto o compromesso dal tempo, è una presenza cruciale nel mio lavoro, che da anni vede il tema della morte e di tutto ciò che ruota attorno ad essa, con un focus sui riti contemporanei del Sud Italia, come nucleo sostanziale della ricerca.
L’elemento dente inizia ad essere così una costante all’interno della mia ricerca visiva, assumendo un ruolo, via via sempre più presente e palese. Iniziai così col dipingerli e successivamente calcarli e modellarli.
Un oggetto che resiste alla morte carnale, capace di deperire in vita e marcire col tempo, ma rimanere in eterno all’interno di quella cavità intima e vitale.
Esso diventa così il tramite tra l’immagine e l’assenza di essa, il pieno e il vuoto, un ponte che collega l’imago all’oblio del ricordo.
Al tempo stesso infatti è un componente fondamentale, se non l’unico, che permette di riconoscere l’identità di corpi sfigurati, a causa di gravi incidenti mortali, grazie alla sua capacità di mantenere indenne il DNA.
Alla luce delle considerazioni fatte, mediante la produzione sono riuscito a sperimentare con quei modelli che avevo sottratto dal loro luogo d’origine e rielaborati sotto un’altra luce. Quegli oggetti sono diventati quasi un’ossessione, elementi che sempre più stavano entrando a gamba tesa nel mio lavoro.
Una serie di dentature calcate, in gesso e in cera, sono fisse sul tavolo del mio studio come una sorta di monito, un appunto, uno schizzo che segna e definisce una traccia. Assomigliano a dei ritrovamenti archeologici, delle porzioni/frammenti di corpi, potenzialmente deboli e fragili quanto duraturi e resistenti al tempo stesso.
Così ci ritroviamo davanti a Il quarto cavaliere, lavoro che matura un’ulteriore riflessione sull’elemento in questione, e lo vede esplicitato nel suo essere corporale. Ritorna ad avere uno dei suoi ruoli primordiali, ovvero quello di compiere una smorfia, di dolore o di gioia, sorridere e presentarsi al pubblico rispondendo ad un cheese, mostrando i denti.
Qui il riso, a volte dolce quanto forzato o comandato, diventa un ghigno, una smorfia beffarda rivolta alla catastrofe imminente che ci/la circonda.
Una resistenza alla fine e, al tempo stesso, un gesto derisorio verso gli spettatori tranquilli e ignari della fine prossima.
Si tratta di uno scheletro a cavallo, una delle rappresentazioni medievale della morte. Un’immagine che si palesa nel mio inconscio, il grande Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis, un portale metaforico – pensato funzionalmente da Carlo Scarpa come un vero e proprio elemento apribile/mobile – verso un universo misterioso ed attraente, dove la fine e la morte sovrastano l’intera sala. Un cavaliere che falcia tutt*, senza alcuna distinzione.
La rappresentazione della morte in quanto entità immortale, rappresentata nell’atto vitale di compiere un’azione, mi ha sempre affascinato.
Anche ne Il quarto cavaliere si può notare come la figura mortifera sprizzi una strana vitalità. Una scena rallentata e immobilizzata, un tempo dilungato e immobile, un fotogramma che congela la dinamicità sconvolgente dell’atto finale dove tutto però è stranamente tranquillo e pacato.
La morte è qui incorniciata da una natura poco selvaggia, regolare, che delimita il campo d’azione del cavaliere che, nel racconto apocalittico di Giovanni, siede su un cavallo di colore verde, metafora della malattia e della pestilenza. L’immagine rappresentata è tratta da uno dei monumentali arazzi medievali, di epoca angioina, dell’Apocalisse, conservati nel Castello di Angers (Francia).
La tela è stata concepita come se fosse una scultura, un montaggio cinematografico per sovrapposizione e intersecazione di elementi su un piano comune. Da una parte dei denti in resina, un ghigno beffardo, uno smile molto poco rassicurante, dall’altra una base pittorico-scultorea in argilla refrattaria nera, materiale ancestrale proveniente dalle regioni del Sud della Francia (Sète).
Cover: calchi in resina e cera, protesi dentali e provini cromatici, Villabate (PA), 2024. courtesy l’artista
Ha collaborato Simona Squadrito
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.