Hard work soft dreams
Mi trasferisco a Milano nel 2019. Fin da subito, e in maniera piuttosto ossessiva, comincio a fotografare i materassi che vengono abbandonati sulle banchine delle strade. Tutto nasce da un’attrazione puramente formale, penso a questi oggetti totalmente devoti al riposo, materiali che hanno passato la propria intera esistenza supini e immobili nelle nostre camere da letto il cui unico sforzo richiesto è di farsi architettura della notte. Incontrarli per strada li rende giacigli stanchissimi esposti allo sguardo voyeuristico del mondo, dolci sudari di sconosciuti in attesa che l’Amsa li porti via. È materia bianca e intima, d’improvviso sputata nello spazio pubblico e costretta a posizioni scomode sull’asfalto.
Spesso penso al mio lavoro come a un gioco le cui regole consistono nel rintracciare le cicatrici e gli effetti collaterali di una città nevrotica. In questo senso, i materassi usati sono sinceri e spietati nel mostrarsi nudi, con le proprie geografie disegnate da macchie e aloni. Dermatiti di cotone.
Parallelamente inizio a lavorare alla mia tesi su Robert Smithson. In un testo pubblicato su Doppiozero scritto da Riccardo Venturi che titola ‘Roma, 15 ottobre 1969 / Robert Smithson: “Let Asphalt Flow!”’ leggo:
Mi rendo conto che sono attratto da tutto ciò che va verso il basso, che va nel senso contrario dell’elevazione della scultura classica o di Manhattan, ma questa è un’altra storia. Un’adesione incondizionata alla gravitas portata a un punto di non-ritorno, a un punto irreversibile, quello dell’entropia. Asphalt Rundown sarà una scultura che cade; l’ultimo capitolo di una storia della scultura cominciata con le Deposizioni; il mio omaggio estremo all’arte di Michelangelo.
Riccardo Venturi, Robert Smithson: “Let Asphalt Flow!”, pubblicato online su Doppiozero, 2019
Comincio a scuoiare con un taglierino i materassi ricavando così delle sorta di lenzuola che diventano drappi appesi al muro del mio studio. Sculture che cadono per usare le parole dell’articolo su Smithson. Trofei di caccia, una caccia a un tesoro che è sotto gli occhi di tutti. Sono monumenti alla vita vissuta, psicografie surrealiste.
Sono molto affezionato a quei lavori che nascono quasi da sé, in cui il mio intervento è minimo e impercettibile. Al principio di questo lavoro c’è un lungo processo di ricerca del materiale e di cambio di forma, ma una volta ottenuto il rettangolo di stoffa è come se tutto quello che si poteva fare sia stato fatto. In questo senso mi interessa stare dietro le quinte, fare il minimo indispensabile. Non penso sia un gesto di scarsa generosità, ha più a che vedere con lo sguardo, è come se lavorassi più con gli occhi che con le mani. Il mio lavoro è prima di tutto trovare e riconoscere dei materiali evocativi e in un secondo momento agire in sottrazione per mezzo di una serie di scelte e decisioni formali.
Il titolo Hard work soft dreams, come spesso accade nei miei lavori, nasce precedentemente alla realizzazione della opere. Mi interessa come il titolo evochi uno slogan tipico della retorica del capitalismo e del successo personale. Un invito al lavoro duro e a fare sogni morbidi.
Per leggere gli altri interventi di I (never) explain
I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.
Nelle precedenti pubblicazioni hanno collaborato Simona Squadrito, Zoe De Luca e Irene Sofia Comi