Esattamente un anno fa in Uruguay ho realizzato uno degli interventi a cui tengo di più: Para Ovejas.
La didascalia recitava così come segue:
PARA OVEJAS, 2022, alfalfa, avena chata, semitin, fardo, flores.
– Baa –
– Meeeh –
– Beeeh –
– Baaa –
– Baaaaaa!
Beeeeeh! –
(A fine-dining experience for sheep should not be described in human terms.)
“Abbandonato” è un punto di vista
Para Ovejas, ristorante stellato per pecore, nasce come molti dei miei interventi da un senso di disagio. In questo caso, disagio nei confronti del contesto in cui ero stato chiamato a intervenire.
L’installazione si trovava all’interno di una tapera abbandonata nel villaggio di Garzòn, nell’entroterra uruguayo dietro Punta del Este. Tapera è come vengono chiamate delle casette di un sol piano, generalmente in pietra o in adobe, che in un tempo precedente allo spopolamento dell’area furono bar, abitazioni, magazzini, etc.
Il lavoro si è svolto nell’ambito di un festival alla fine di un mese di residenza, e prima di partire per l’Uruguay avevo visto delle foto, pensato a dei lavori da portare, insomma quello che in genere si richiede all’artista per organizzarsi un po’. Ma sapevo di aver bisogno di arrivare lì, osservare il contesto e lasciare che fosse il luogo stesso a suggerirmi che cosa fare.
In questo caso, il suggerimento è arrivato da Florinda, la pecora della vicina di casa che viveva nella tapera durante le ore di sole.
Apprendere che quella tapera non era abbandonata, come invece sosteneva l’organizzazione del festival, è stato liberatorio perché mi ha permesso di allontanarmi totalmente dall’aspettativa di “realizzare” o portare delle opere al suo interno, lasciandomi spazio per agire come più mi piace, cioè creando spazio e spostando la prospettiva mia e di chi alla fine avrebbe visitato l’opera.
Il processo come pretesto
L’installazione di Para Ovejas risponde a un’esigenza profonda di esplorare e connettermi, attraverso il processo di realizzazione dell’opera, con il contesto geografico e sociale in cui mi trovavo, cioè il paesaggio del campo rurale uruguaiano.
Infatti, aprire un “ristorante” per ovini ha innanzitutto richiesto ricerca e dialogo con pastori e gauchos, per capire quali siano le merende preferite delle pecore: foglie di barbabietola, fiori di carota, mele, alfalfa secco, e altre leccornie.
Poi, assieme a Matilde Grue – la giovane chef danese in residenza con me e le altre artiste – siamo andati alla ricerca di una fattoria che coltivasse tutte queste erbe, iniziando una collaborazione con Aldana Gonzalez e il suo orto e creando dei “mazzi di cibo” molto speciali, che avrei poi assemblato e servito dal vivo, travestito da cuoco.
Infine, i fornitori di balle di fieno e di alfalfa secco, che servivano rispettivamente da pavimento e da dispensa del ristorante.
Per l’allestimento, ho cercato di coinvolgere tutti gli elementi che già caratterizzavano la tapera fin dal primo sopralluogo: dei disegni e dipinti murali bluastri, tracce sbiadite e misteriose di precedenti interventi, ed una serie di mobili e bancali affastellati qua e là.
Mi sono limitato a ridistribuire questi oggetti all’interno dello spazio, lasciando che i processi di allestimento e di fruizione da parte delle pecore svolgessero il loro corso.
I fornitori, ad esempio, hanno abbandonato le balle di alfalfa in maniera molto scultorea, sovraccaricando un divano già sfondato, o incastrando un blocco su una sedia di plastica – ho lasciato tutto così com’era, perchè su questi aspetti le pecore generalmente non si formalizzano.
La vera attivazione del lavoro, per me, non è avvenuta durante il festival, in divisa da cuoco a chiacchierare con i passanti (umani) e preparare assiètte per le pecore. Per me il lavoro ha iniziato ad esistere quando, qualche ora prima dell’inizio del festival, me ne sono allontanato e dopo poco è arrivata Florinda che – belando – ha sembrato gradire il servizio.
Allo stesso modo, il lavoro non si è concluso al termine del festival, bensì ha continuato ad esistere per tutta l’estate dando riposo e cibo agli animali.
L’intervento è stato minimale, sostanziale, recuperando invece di rimpiazzare.
Nonostante si sia creata una bella interazione tra umani e pecore, e nonostante camminare sul fieno sia oggettivamente divertente anche per le persone, pochissimi elementi dell’installazione erano lì per l’occhio dell’umano, anzi forse solo uno: la piccola tendina accostata alla finestra.
Benvenuti ad Agroland
Menzionavo prima la questione del contesto, di come il paesaggio e il contesto locale mi parlassero continuamente, quasi tormentandomi, con i loro contrasti nascosti ma enormi che esigevano ricerca e comprensione.
Credo che meriti di parlare un attimo di quello che ho trovato a Garzòn, perché in un qualche modo offre un punto di vista insolito sull’identità culturale italiana.
Circa 20 anni fa un petrolero argentino dal cognome italiano, Alejandro Bulgheroni, decise di comprare – attraverso differenti società – l’intera regione di Maldonado per trasformarla in Agroland, la “piccola Toscana in Uruguay” (testuali parole) e rendere il Tannat, rosso locale, un vitigno da milioni o miliardi di dollari come il Malbec in Argentina, grazie al granito degli scogli oceanici antichissimi che sbucano dal terreno anche a 60/70 chilometri dal mare.
Il paesaggio della regione è spettacolare, con un verde brillante che non ho mai visto in vita, dovuto a piante di origine marina che crescono proprio su quegli scogli.
Garzòn, poi, è un pueblo anni ‘40 molto bello, quasi totalmente abbandonato a causa di politiche post-industriali che lo hanno deliberatamente svuotato della sua economia, per cui ora conta circa 100 abitanti, qualche centinaio di mucche, cavalli e pecore, più un ristorante/hotel stellato Michelin dello chef-divinità argentino Francis Mallmann e 3 gallerie d’arte direttamente da Miami, che aprono solo in estate, specialmente in occasione del festival in cui artisti e performer da Montevideo e Buenos Aires vengono invitati a realizzare lavori all’interno delle taperas, che attirano la art crowd delle località vicine, dove l’arte contemporanea è già calamita per investimenti mastodontici e – parola-feticcio del luogo – rigenerazioni continue.
I gauchos e i rancheros locali, da piccoli agricoltori si sono trasformati in lavoratori regionali, regolarmente licenziati a fine stagione e riassunti poi alla bisogna. L’economia del grano, che dava da vivere a Garzòn, non si è mai ripresa dopo un grande incendio al mulino locale perché i suoi resti furono comprati da un ricco argentino con il gusto delle rovine, apposta per tenerlo in stato di disuso. Le torbiere di inizio ‘900 giacciono ancora inutilizzate e a volte collassano diventando piccole lagune. Tra i campi è iniziata una corsa alla vendita e specie autoctone di piante e di uccelli si scontrano con diaspore di piante ingegnerizzate provenienti da Agroland. Sulle colline, schiere di pale eoliche – di cui molte esauste e immobili – marcano i confini della regione e stravolgono con il loro campo elettromagnetico il volo di uccelli e insetti.
Il paesaggio come ideologia, l’ideologia come brand
Garzòn nel frattempo è diventato un place-brand presente su tutti i prodotti, un villaggio idealizzato capoluogo di questa campagna uruguayanatoscana in cui in realtà non crescono né viti né ulivi, ma in cui la presenza di colossi economici in chiave shabby-chic garantisce l’aspirazionalità di un “mulino bianco” locale che si regge su un mix di cibo stellato, bevande (tra cui i vini di“Bodega Garzòn”, azienda al 100% di proprietà di Agroland, i cui vigneti sono inaccessibili al pubblico),turismo e arte contemporanea. Perché tutto dentro o intorno a Garzòn, arte inclusa, è in un qualche modo di proprietà o emanazione della longa manus di Agroland.
Per me è stato naturale rispondere anche emotivamente a questo contesto così lontano dai miei valori, lavorando “per” le pecore e chiedendo loro di essermi complici in una satira di tutto il contesto in cui mi sarei dovuto inserire.
Aprire un ristorante mi ha immerso in un processo per cui solo esplorando e conoscendo il territorio ci sarebbe potuto essere il lavoro e contemporaneamente, per il visitatore, solo comprendendo il lavoro si poteva davvero cogliere la problematicità del territorio che stavano alimentando con la loro gita.
Nel corso di quest’anno tornerò in Uruguay, ospite in residenza di EAC Montevideo e dell’Istituto Italiano di Cultura per poter continuare la mia ricerca su Agroland.
Se si ricorda di me, sarà bello incontrare di nuovo Florinda e chiederle com’è andata.
Ha collaborato Simona Squadrito
Per leggere gli altri interventi di I (never) explain
I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.
Hanno contribuito alla rubrica Zoe De Luca, Simona Squadrito e Irene Sofia Comi