Per quanto tempo l’uomo ha perseverato nell’errore prima di stabilire un significato delle azioni?
Nel 2017 ho realizzato l’opera “Qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos’altro”, la prima di una serie, con l’obiettivo di riflettere sui mutamenti antropici volontari ed involontari del paesaggio. Cercando di apprendere quelle che sono ed erano le pratiche costruttive architettoniche. Partendo dalle Alpi occidentali ho analizzato i tetti delle abitazioni che sono composti da “lose”, pietre sottili di grandi dimensioni, che servono ad isolare e sorreggere il peso delle nevicate. Ho riproposto questa tecnica costruttiva attraverso la documentazione fotografica dell’installazione scultorea, che al momento della sua esposizione non era più presente fisicamente nello spazio espositivo. Successivamente ho lavorato in modo analogo, ma con altri materiali e luoghi, come il travertino a Siena ed il tufo a Lecce.
Durante questo periodo di ricerca ho appreso molto sul paesaggio montano, l’anomalia che mi ha suggestionato maggiormente sono alcune incisioni su massi erratici che i locali figurano sempre con nomi come: pera del diavolo, delle masche, pietra del sacrificio o colatoi di sangue, spesso riconducibili a qualcosa di sinistro. Queste incisioni dapprima mi sembravano delle pittoresche azioni circoscritte alla noia di qualche valligiano (pastore?), o ai ragazzini che inventano il proprio gioco.
Nel 2019 leggendo il volume La Pietra e il Segno edito da Melli, scopro che il fenomeno dei petroglifi “annoiati” è in realtà una manifestazione archeologica mondiale. Queste incisioni rupestri sono degli incavi nella roccia, appartenenti al neolitico e paleolitico di cui non si ha una spiegazione certa ed univoca. Rimane chiaro l’intento di una modificazione del paesaggio da parte dell’uomo affondando le radici nel pensiero mitico, astratto, magico e artistico.
La fascinazione per l’ignoto può essere una buona motivazione per la ricerca artistica, ma non può restare lo scopo, questo potrebbe causare la perdita della coerenza e l’integrità dell’opera stessa.
Se in altre opere cerco di circoscrivere un inizio ed una fine per dare un limite all’atto creativo, qui mi sento libero di navigare nell’immensità del tempo e dello spazio. Mi percepisco come immerso in un archivio sconfinato di conoscenze immateriali a cui è possibile dare la propria speculazione, senza necessariamente comprenderne il significato, ma imparare a conoscerlo con la pratica del fare. Con tecniche differenti ripeto l’azione scultorea, questo mi aiuta ad avvicinarmi a qualcosa di universale, quando ancora non era la scrittura, ma la gestualità a unire le civiltà. Solo dopo tanto tempo riusciamo ad avere una visione così onnicomprensiva, e solo l’arte può abbracciare l’interdisciplinarità di questo inespresso potenziale umano.
E’ indubbio, come oggi anche nell’antichità si provasse stupore e meraviglia nell’atto artistico, la funzionalità porta sempre bellezza. Le mie opere devono avere una funzione che genera una forma estetica. Questo è ciò che ricerco nell’opera e che spero possano trasmettere tutti i miei lavori, anche solo a livello subliminale. Probabilmente figlio di un pensiero formato negli anni di lavoro e studi grafici, dove l’equilibrio estetico si consolida con la costruzione del significato.
La ricerca dei primi siti di interesse è cominciata con lunghe camminate nella pre montagna delle Alpi occidentali ed estese in tutta Italia. Inizialmente guidato da alcune segnalazioni di persone del territorio e successivamente con ricerche in archivi storici e scientifici. Le -coppelle- così sono chiamate queste forme grafiche incise, sono molto difficili da trovare, nascoste nel sottobosco o in alta montagna. In alcuni casi anche poco preservate e sepolte da sedimenti.
La fase di ricerca può durare anche giorni e la considero parte dell’opera stessa. Il momento di massima concentrazione e liberazione lo trovo nel camminare. Le finalità rendono questa semplice azione densa di frustrazione per la mancata scoperta, e proiezione su ciò che sarà una volta raggiunto l’obiettivo.
Dopo il ritrovamente inizia la fase di pulizia e messa in ordine della pietra, così scatto una fotografia come reperto documentaristico.
La seconda fotografia che completa formalmente il lavoro di immagine è eseguita di notte, accendendo il reperto con l’utilizzo di un bio combustibile, oppure riempiendo la cavità d’acqua e illuminando con una luce a 45° immortalando la riflessione che si irradia sulla pellicola fotografica. Questa speculazione visiva è il frutto della ripetizione gestuale di alcuni dei possibili utilizzi che ne veniva fatto anticamente.
Un’altra restituzione avviene sotto forma di frottage, ricalcando il rilievo dei massi incisi, utilizzando la medesima tecnica degli archeologi per registrare la conformazione del reperto. In questo modo ho la possibilità di restituire nell’opera anche la percezione spaziale e la dimensione in formato 1:1, che la fotografia per sua natura tende a falsare. Il risultato sono fogli di carta da spolvero molto generosi che strofino con terra recuperata localmente + pigmento scuro. Ancora una volta la mia azione cerca di simulare diverse attività, antiche o recenti, collegate al possibile utilizzo che è stato fatto di questi petroglifi. Senza dare spiegazioni o indizi, la carta dipinta mi proietta in una dimensione astratta. Le parti chiare, le coppelle, disegnano quelle scure, con un naturale equilibrio tra pieni-vuoti, dove l’assenza di materiale determina la presenza.
Vorrei fermarmi un momento prima, quando la lettura di queste opere dell’uomo si manifesta e mi lascia un senso di meravigliosa impotenza. Un po’ come quando passi davanti ad un paesaggio o ad un palazzo tutti i giorni e tutto sembra immutabile, poi quel giorno, la luce sembra diversa perchè è inizio Maggio, ed il solito luogo cambia. Cambia la percezione dell’ambiente, e in me resta quell’attimo indelebile che contribuirà a costruire l’immaginario inconscio.
Ha collaborato Simona Squadrito
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.
Hanno contribuito alla rubrica Zoe De Luca, Simona Squadrito e Irene Sofia Comi