«Integrazione è solo quando uno straniero segna un goal
Non lo pensi davvero, l’importante è che ci scrivi un post»
Guè e Salmo, Lunedì blu
«Oggi che tutti lottiamo così tanto per difendere le nostre identità
Abbiamo perso di vista quella collettiva
L’abbiamo frammentata»
Marracash, Cosplayer
Lavoro in un’équipe integrata per il Ministero della Pubblica Istruzione e in particolare mi occupo dell’inserimento scolastico dei minori appena arrivati a Milano, non ancora italofoni e bambini con background migratorio. Il rapporto con le famiglie, le loro storie e narrazioni, così come un punto di vista particolare sulla multiculturalità è entrato prepotentemente a far parte anche della mia ricerca artistica. Negli ultimi anni i concetti di “creolo”, “seconda generazione” e “métissage”, soprattutto in riferimento alla mutazione sociale, all’alterità nella costruzione di nuove identità e al relativo senso di indeterminazione personale e collettiva, hanno ispirato gran parte della mia ricerca.
Kyoko sulle Alpi è una reinterpretazione cyborg del classico “tableau vivant” che nasce dall’analisi delle circostanze esterne, rese plasticamente nel ritratto di una giovane donna orientale, lanciata verso un futuro futuribile e in divenire. La descrizione di un personaggio è un’operazione narrativa e Kyoko sulle Alpi è la sintesi di considerazioni nate dall’osservazione di alcune delle ragazze di seconda generazione che ho avuto modo di conoscere anche nei loro sentimenti altalenanti.
Attraverso la definizione del titolo ho cercato di interpretare quell’equivoco che spesso si crea quando un occidentale scambia, frettolosamente e ingenuamente, una persona cinese per giapponese e viceversa.
Kyoko è un nome giapponese che letteralmente significa “ragazza della città” o anche “specchio” ed io ho voluto attribuirlo all’opera per sottolineare quel tipo di confusione che si genera quando si mescolano, generalizzando, le diverse culture ed etnie asiatiche.
Quando ho realizzato quest’opera, nel 2015, sentivo forte il senso di smarrimento di coloro che, arrivando nel nostro territorio, cercavano un nuovo modo di vivere con uno sguardo, però, sempre radicato al passato. Le lavoratrici extracomunitarie, ad esempio, curve dietro le vetrine dei loro negozietti, mentre ascoltavano frequenze radiofoniche nella loro lingua madre, mi trasmettevano un senso di tristezza e di solitudine.
Oggi invece credo che il desiderio di intersecarsi e creare reti con le comunità locali si è fatto forte e chiaro e ha permesso una stabile e più serena convivenza nel rispetto di tutte le tradizioni e nelle modalità di relazione, anche lavorative.
A sottolineare questa considerazione ho notato, inoltre, che nella scelta del nome dei propri figli, molti genitori attribuiscono volentieri un nome tipicamente italiano e sovente legato alla nostra tradizione religiosa, come a voler evidenziare un profondo senso di gratitudine per il Paese che li ha ospitati. Mi ha commosso il desiderio di alcuni bambini che, per sentirsi ancora di più accettati nel loro contesto sociale, hanno “adottato” un nome italiano che spesso sostituisce del tutto il nome conferito alla nascita.
Un altro elemento presente nel titolo sono le Alpi. Ho dato ulteriore forza propulsiva all’opera “vestendola” con una blusa di tessuto acrilico, inappropriata se si decide di scalare monti e massicci, gli stessi che si possono intravedere da Milano quando il cielo è limpido come per esempio il Monviso, la montagna più alta delle Alpi Cozie.
L’opera è nera, di un colore intenso e carico che richiama materiali nobili come l’ossidiana e l’onice. La superficie in resina è riflettente e vibra quando è colpita dai fasci di luce. Delinea l’umore e il senso di smarrimento e di estraniazione dalle proprie origini di un’adolescente di seconda generazione che, decontestualizzata, vive con la propria famiglia di origine in una grande metropoli come Milano. La metropoli si tramuta costantemente in luoghi ibridi dove la centralità abbraccia, scontrandosi, la periferia e viceversa così come la dicotomia tra biotico e abiotico, come le opposizioni cognitive, il naturale e l’artificiale o il relativismo e l’universalismo.
Kyoko sulle Alpi è cupa proprio come la sensazione di trovarsi in bilico tra due mondi differenti ed opposti, in una condizione di pendolarismo perenne dove però i tratti etnici della cultura di origine sembrano non scomparire del tutto, ma piuttosto tendono a rigenerarsi con linguaggi inediti dando vita a nuove modalità di integrazione.
I suoi seni, assemblati sul torace, ricordano le protesi in silicone e sono esibiti a esaltare ancora di più la figura femminile anche se tecnicamente e volutamente la loro resa finale risulta essere fredda e distante dalla naturale conformazione che appartiene ad un caldo corpo umano. Citando Donna Haraway che ha indicato il cyborg come una figurazione che riproduce la ridefinizione dei confini tra i soggetti, i loro corpi e il mondo esterno offrendo nuove possibilità per un universo post-gendered, anche Kyoko sulle Alpi è libera da qualsiasi vincolo interpretativo.
Altro elemento preponderante nell’opera sono i capelli. Ricordo di aver comprato le extensions in via Paolo Sarpi, la Chinatown di Milano, scegliendole perché nel mio immaginario infantile esistevano solo cinesine con capelli neri, lunghi, lisci e lucidissimi (e con la frangia). Da piccola ero attratta e giocavo spesso con un puntaspilli made in China che prendevo dalla scatola dei bottoni di mia nonna; la sua forma era circolare con tanti pupazzetti cuciti intorno ad una mezza sfera ricoperta di seta. Questi bebè cinesini avevano tutti una lunga codina di filo nero raccolta in cima alla testa e questa rappresentazione didascalica dell’Oriente mi ha sempre incuriosita. In Kyoko nelle Alpi aver, quindi, attorcigliato le extensions in modo del tutto casuale ha voluto rimandare all’osservatore un’umanizzazione del personaggio che in modo sbarazzino e quotidiano vive la propria realtà.
Lucia Leuci *
Milano, 29 novembre 2022
Ha collaborato Simona Squadrito*
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.
Hanno contribuito alla rubrica Zoe De Luca, Simona Squadrito e Irene Sofia Comi