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I (never) explain #143 — Jonatah Manno

Artista selezionato da Simona Squadrito* A thousand thousand slimy things IIIJonatah Manno Lungo quella porzione di costa, l’acqua mescolata al sale era spesso quieta e silenziosa. Una combinazione di correnti marine, mitigate dalla forza di Coriolis, rendeva la superficie di quei luoghi imperturbabile e simile al vetro. Il grecale giungendo a banchi morbidi da nord-est, […]

Pic. Sebastian Spiegelhauer

Artista selezionato da Simona Squadrito*

A thousand thousand slimy things III
Jonatah Manno

Lungo quella porzione di costa, l’acqua mescolata al sale era spesso quieta e silenziosa. Una combinazione di correnti marine, mitigate dalla forza di Coriolis, rendeva la superficie di quei luoghi imperturbabile e simile al vetro. Il grecale giungendo a banchi morbidi da nord-est, spingeva le onde basse e costanti verso la battigia e le faceva rotolare spumeggiando sulla riva.
Il primo sole del pomeriggio gettava un’ombra obliqua sulla sabbia, rendendola grigia.
Le nuvole, simili a continenti, accendevano e spegnevano l’acqua del mare al loro passaggio.
È curioso osservare la sintonia provvisoria che tale fenomeno infonde nell’individuo, il quale dispone desideri differenti e spesso in conflitto fra loro, a seconda che siano concepiti all’umidità dell’ombra o all’entropia della luce.
La falesia si alzava decisa sull’arenile, le fasce diagonali che la percorrevano lungo tutta la facciata come nervi scoperti, mostravano strie di calcare e arenaria. Lo stesso disegno torniva due grandi faraglioni di roccia, che affioravano dall’acqua come sopravvissuti all’erosione degli agenti esogeni, testimoni del trascorrere di un tempo inconcepibile.
L’intermittenza della luce consentiva di scorgere i confini dell’ombra sulla riva soltanto per pochi minuti. Il punto di vista correva dal mare verso la terra e gli strati compresi nel campo visivo erano: acqua, sabbia, roccia, cielo.
Il vuoto del tunnel di cemento compensava il rombare di aerei lontani, la cui presenza restava indistinguibile se non per il rumore.
A cinquanta metri dal bagnasciuga, torreggiava una struttura cementizia a pianta quadrata ed aperta su due lati; sbucava per tre metri dall’acqua e si immergeva per il resto della sua altezza.
Sul lato est, una fessura larga come una porta ed alta quanto la superficie del muro, tale da dividerlo, guardava lì dove nasceva il sole. Sul lato opposto, ad ovest, un’apertura uguale era collegata ai lati da un corridoio più basso costituito da due muretti paralleli dello stesso spessore.
Due binari di cemento non arringavano il mare e lo lasciavano scorrere in mezzo come un tappeto mobile che conduceva alla parte che si faceva più scura, concretamente sotto terra.
Il costone collegava, con una semplicità che allora mi parve morbosa, il quadrato di cemento con il sottosuolo della costa.
L’ambulacro scoperto si fondeva con la pietra naturale, coagulandosi in modo azzardato e risolvendosi formalmente come introduzione al buio. Una galleria sostenuta da cemento a grossi grani mischiato a pietrame e da architravi di ferro che l’azione chimica del sale aveva arrugginito velocemente. La vista non andava oltre due o tre metri dal varco. L’udito invece registrava frequenze oltre i 2kHz, cogliendo i bassi che le onde producevano battendo sulle pareti irregolari dell’antro. Una grande cassa di risonanza che compensava la consistenza della sabbia asciutta.
Dentro il buio, fuori la luce.

Pic. Sebastian Spiegelhauer
Jonatah Manno, A thousand thousand slimy things III, 2016, Bricks, glass, chemistry glassware, sea water, PVC tarp, spray colors, rusted steel fences, Variable dimensions – installation view at Cripta 747, 2016. Pic. Sebastiano Pellion Di Persano

Una parata di uomini che cavalcano coccodrilli, in fila, lentamente si mostra uno dopo l’altro. Il primo uomo è albino e nudo, è solo ricoperto da una patina trasparente e giallastra che luccica al torcersi ondeggiante del coccodrillo che monta. A seguire tutti gli altri hanno un oggetto che stringono in bocca, come a volerlo consegnare ad un oracolo malsano: il secondo morde una statuetta in marmo della vergine Maria, la tiene in bocca dalla parte della base e lo sforzo continuo non gli consente di trattenere la bava che gli cola sottile in due rivoli di saliva ai lati della bocca serrata.
Il terzo, magro e sudato sotto il sole, morde quello che sembra essere lo snodo a “elle” di un lavandino, il quarto morde un libro marrone e il quinto un teschio di un animale, che si può distinguere essere appartenuto a un grosso roditore. Chiude la fila una donna incinta.
Sfilano lentamente ed i grossi rettili sembrano calmi e ammaestrati per il loro compito, le teste ondeggiano ritmicamente e indifferenti.
Non c’è nessuno che assiste a questa scena, tutto intorno terra rossa e pochi alberi dal tronco basso.
Sullo sfondo un complesso di edifici costruiti di recente: villette a schiera circoscritte da un recinto di anonimi muri bianchi che cingono casette tutte uguali, si direbbe un villaggio turistico.
In una stanza umida, disabitata d’inverno, decorata da macchie di muffa e salmastro, sul pavimento in ceramica industriale la testa in bronzo di Giano Bifronte.
Quella notte dormii nello studio legale che tanti anni fa era appartenuto a mio nonno. Negli anni ’90 avevo già vissuto in quelle stanze e anche se oggi si presentavano strutturalmente diverse, le conoscevo a fondo.
Era ormai da molto tempo che quel luogo appariva cadente e abbandonato a sé stesso. I muri di pietra sfarinavano polvere gialla. L’intonaco del soffitto, caduto a chiazze sul pavimento, rendeva gli spazi diafani e stantii. Costretto a passare lì la notte, mi accasciai su una branda polverosa in quella che un tempo era stata la sala d’attesa dei clienti dello studio. Sapevo che la stanza dove abitavo parassitariamente il periodo del liceo, dove una volta si trovava il mio letto, aveva il tetto sfondato, per cui decisi di restarne lontano. Il caldo umido e appiccicoso mi svegliò durante la notte, e ad un orario imprecisato trascinai il mio corpo nella stanza con il soffitto crollato.
Steso sul letto a testa in su, mi ritrovai a guardare il grosso buco che si apriva sotto un cielo basso e metallico. Fu così che notai fogli e detriti orbitare nel cielo e tutt’intorno all’edificio, spinti dai venti d’estate in un vortice inquieto. Guardai dalla finestra e ammirai i fogli e i calcinacci trascinati in aria e sull’asfalto della grande piazza in cui era posto il palazzo, e più in là dove inizia la città nuova. Mi ci volle tutta la notte per capire che quei fogli, erano i documenti contenuti nei faldoni dell’archivio dello studio legale, che un tempo era stato di mio nonno. Atti e procure sparse per tutta la città, che il vento aveva strappato dallo studio attraverso le finestre sfondate.

Jonatah Manno, A thousand thousand slimy things III, 2016, Bricks, glass, chemistry glassware, sea water, PVC tarp, spray colors, rusted steel fences, Variable dimensions – installation view at Cripta 747, 2016. Pic. Sebastiano Pellion Di Persano (dettagli)

Ha collaborato Simona Squadrito*
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.

Hanno contribuito alla rubrica Zoe De Luca, Simona Squadrito e Irene Sofia Comi