SONO TRE ANNI CHE TI PENSO
“Le grand viveur” è un film d’archivio di 21 minuti. La storia di questo archivio è parte del film stesso. Mario Lorenzini è il cineamatore che ha filmato le immagini utilizzate nel film, messe a disposizione dall’associazione Superottimisti di Torino che si occupa della valorizzazione dei film di famiglia. Mario Lorenzini non era un professionista, ma un appassionato di super8. Era anche un Walser, faceva parte cioè di questa comunità montana al confine tra Piemonte e Svizzera. Viveva a Priami, che insieme a Rima San Giuseppe e Rimasco forma l’ultimo agglomerato di case prima del confine.
Ho cominciato a lavorare sui suoi film a inizio 2019. Sono passati tre anni.
Inizio 2019
Ho ritrovato i miei appunti di quando ancora non avevo cominciato a lavorare al montaggio del film. Sembrano scritti da un detective.
PROFILO CINEAMATORE: APPUNTI VARI SU STORIE ASCOLTATE
Ci teneva molto a montare, a creare lavori finiti, per poi organizzare proiezioni (quella della gita aziendale), restituzioni collettive. Non ha famiglia, è morto 6-7 anni fa. Ha una sorella ancora in vita che non sa nulla. Si chiamava Mario, Mario Lorenzini. Dalla fine degli anni ’70, oltre a sviluppare un problema di alcolismo, diventa una specie di uomo selvaggio, non ha più rapporti con nessuno, descritto come il burbero della comunità. Viveva a Priami, frazione di Rimasco, una borgata ancora abitata: di 25 case totali 20 sono abitate, 15 sono parenti. Il concetto di proprietà privata non è ancora arrivato. Era accettato dalla comunità, ma tutti parlavano male di lui. Mario muore d’inverno, di freddo, quando, ubriaco, tornando a casa inciampa e cade a terra. Lavorava alla Poli, una fabbrica. Era operaio. La cinepresa la compra a fine anni ’60 per documentare la vita quotidiana e gli eventi della comunità, non della sua famiglia, poiché non ne ha una. Quando Mario filmava non ci facevano tanto caso, era già considerato “strano”. Probabilmente lo stimolo di filmare gli arriva da Moretti, altro cineamatore che aveva iniziato a fare riprese già dagli anni ’50 su questi paesini di montagna. Mario era molto appassionato di caccia e pesca. Ci sono due personaggi ricorrenti, riprende sempre solo una parte della Valsesia: la sua. In particolare riprende le feste: la festa del tiro a segno, che si svolge tutti gli anni, ancora oggi, è la festa delle 5 comunità della Val Sernensa, parte bassa della Valsesia. Ogni anno si gira da un paese all’altro, ci si trova la mattina, c’è la gara individuale e poi quella del paese (tiro della bandiera). Esiste dalla fine dell’800, si fa sempre nella stessa maniera. Dopo la gara c’è il pranzo, poi la premiazione, poi (non si vede) la gente del posto apre le case e si gira a mangiare e bere. È il signor Tabacchi a sgozzare il maiale, Barbone, invece, è uno dei super appassionati di riprese, c’è anche Axerio (cognome Walser), la signora con la sigaretta è Carmelina, non sposata, boscaiola, mascolina. La coccarda simboleggia il paese. Moretti gira un documentario su questa festa 5 anni prima (“Le 5 coccarde” si chiama). Giulio è quello con il maglione giallo, è il responsabile boscaiolo. Tutti gli anni a questo pranzo si citano e si ricordano i morti dell’anno. Da questi paesini erano gli uomini che spesso emigravano per lavoro, rimanevano le donne a badare alla casa e alla terra.
INTERPRETARE IL FONDO: POSSIBILI LETTURE DEL MATERIALE
Ci sono tre sequenze che mi hanno colpito e mi hanno fatto interrogare su come il modo di filmare di Mario Lorenzini ci riveli qualcosa di lui. Una è la sequenza in cui fa dei ritratti ai suoi vicini di casa e alla postina. Quando inquadra le persone e queste guardano in camera, stacca. Penso in realtà sia un riflesso dovuto all’aderenza alle regole base del cinema (niente sguardi in macchina!) ma la sensazione che mi dà è che il cineamatore non riesca a reggere un confronto.
In qualche modo forse usare la cinepresa lo inserisce all’interno di un contesto sociale in cui altrimenti trova difficoltà. In questo senso mi piacciono molto quelle due scene in cui si mette in scena e si fa riprendere. È affezionato a quest’idea di ritratto, in qualche modo. Non posso far altro che pensare che i modi in cui decide di mostrarsi di fronte alla cinepresa sono quelli accettabili dalla comunità e quelli a cui Lorenzini, forse, non riusciva ad aderire pienamente. Mima di conquistare la vetta di una montagna, quando invece è in cima ad un cumulo di neve ammassata. Guarda verso l’orizzonte, è di profilo, è l’eroe romantico per eccellenza. Nella seconda invece balla con una donna, senza mai guardarla negli occhi, guarda invece fisso, muovendosi in maniera goffa e caricaturale, l’occhio della cinepresa.
Altra sequenza è quella dello zoom-in sulle gambe della collega, che compare già in altre situazioni e spesso ricompare in questa bobina. È chiaro che prova piacere nel riprenderla. La vediamo in mezzo ad altri due uomini, ride, scherza, Lorenzini non ascolta, è distratto dalle sue gambe, che vengono inquadrate sempre più da vicino, con uno zoom. Abbiamo chiamato questa scena “la scena della penetrazione”. Ancora una volta la vicinanza non è naturale ma mediata dall’apparecchio cinematografico, è meccanica.
FILM DI FAMIGLIA SENZA FAMIGLIA
Lorenzini riprende quasi sempre uomini intenti in attività tipiche del modo di vivere Walser. Quello che ne esce è un ritratto estremamente mascolino della vita di comunità. L’uomo a caccia, l’uomo che uccide, l’uomo che beve. Quasi sembra un’idealizzazione della vita dell’uomo di montagna: forte, isolato ed estremamente legato alla natura (raramente troviamo scene girate in interni). Le donne compaiono poco e la relazione con loro non viene comunque mai approfondita: sono accessorie. E lo dico senza giudizi. Questo modo di filmare mi ha subito colpito. Nel materiale di Lorenzini esistono delle tensioni, tra lui e le donne, e tra lui e gli altri. Gli unici momenti in cui la relazione sembra non metterlo a disagio è quando riprende con un’idea precisa del risultato finale, ne sono un bell’esempio i documentari sul pastore e sul pescatore. Ma questo è chiaro, la tensione cala quando il patto sociale tra Lorenzini e gli altri è esplicito. Il suo stile è a metà tra il documentario d’osservazione, all’apparenza oggettivo, e piccoli momenti in cui l’autore si svela.
Sarebbe interessante allora problematizzare la relazione del maschio tra uomini e donne e il maschio isolato. Alla fine, secondo me, queste immagini parlano di un uomo che non riesce ad aderire alle aspettative degli altri, ma cerca comunque di sentirsi come tutti.
INTENZIONI
L’idea di base da cui parto per lavorare su questo fondo è semplice, è restituire un’intenzione, quella del cineamatore, e mettermi, in qualche modo, a servizio delle immagini. Credo fortemente che le direzioni già ci siano, il mio lavoro è quello di ogni buon montatore: capirle e metterle in ordine, un gesto semplice. Approcciare questo materiale però presenta delle difficoltà. La prima di tutte è che le sue intenzioni già sono ordinate dal momento che la quasi totalità del fondo è montata, e sonorizzata da Lorenzini stesso. Mi viene da chiedere se dunque, è davvero necessario rimontare. Per questo forse la necessità di esplicitare dove avvengono i miei interventi mi sembra una strada da percorrere (magari con dei frame neri di stacco in mezzo…). Quello che posso fare è cambiare il punto di vista, rovesciarlo. Lorenzini montando si autocensura. La strada da prendere forse potrebbe essere quella di far uscire fuori chi sta dietro la cinepresa più che i soggetti ripresi dal cineamatore. A questo punto mi vengono dei dubbi che ancora non riesco a sciogliere.
Come faccio a far interrogare lo spettatore su chi tiene la cinepresa senza per forza dare la mia voce a queste domande? Magari basta un testo iniziale o finale che brevemente racconta di Lorenzini? Ma è necessario?
Non posso non essere condizionata dal modo in cui muore e da come si evolve la sua personalità dalle storie che ho sentito su di lui, dovrei dirlo?
RIFERIMENTI
La decadenza della mascolinità in Husbands di Cassavetes. Tensioni tra corpi in Pao Pao di Pier Vittorio Tondelli (“Quindi ti guardo ti guardo perché mi pare – dannazione – di non averlo fatto mai”) e in Beau Travail di Claire Denis.
Fine 2019
Sono stata in Valle, ho passato due giorni con gli abitanti di Priami, Rimasco e Rima. Ho bevuto, ho mangiato, ho cantato. Non ho scoperto niente su di lui, ma ho capito cosa voglio raccontare.
Si chiamava Mario
Mario Lorenzini
Era un Walser
un operaio
un cacciatore
un escursionista
e un cineamatore
Se dovessi descrivere dove si trova Rimasco,
il suo paese,
direi:
dove finiscono tutte le strade
Geograficamente
è dove finisce l’Italia
Compra la cinepresa a fine anni Sessanta
per documentare la sua comunità
non la sua famiglia
perché non ne ha una
O almeno
non una tradizionale
Mi hanno detto
che era uno strano
E per questo quando filmava
nessuno ci faceva caso
Il sogno del documentarista:
essere invisibile
Mi hanno detto che
in luoghi come questo
bisogna prendere sul serio
la neve
L’inverno è molto lungo qui
e condiziona tutto
Se arriva una valanga
come spesso accade
la strada viene sommersa
e il paese si ferma
Viene da chiedersi
con l’arroganza di chi vive in città
come faccia un uomo isolato quassù
ad appassionarsi di cinematografia
L’isolamento è una costante
ma almeno accomuna
Mi hanno detto
che questo è lui
Il suo ritratto non poteva che essere
in mezzo alla neve
Mario muore in inverno
di freddo
quando, ubriaco,
tornando a casa inciampa e cade a terra
Mario muore d’inverno
quando tornando a casa ubriaco
viene colto da un malore
La neve
prima o poi però
si scioglie
Mi immagino
in quanti gli avranno fatto la stessa domanda,
ancora oggi così ordinaria,
su quando avesse intenzione
di metter su famiglia
Da qualche parte ho letto:
il vero eroe si diverte da solo.
Non mi piace per niente
ma mi fa pensare a lui.
I suoi soggetti sono infallibili.
Quasi sempre uomini
forti
senza paura
la cui fatica si misura dalle mani.
Mi hanno detto che
dalla fine degli anni Settanta
complice forse l’alcolismo
diventa una specie di uomo selvaggio
senza legami o relazioni
Due mondi
le femmine
i maschi
Quattro piatti
ma cinque commensali
(Vuole farci dimenticare che c’è anche lui).
Come se
mettesse in scena
quello che gli altri
desiderano
Ma di sicuro
avrà desiderato
qualcosa
Ho imparato a capire
come lui guarda gli altri
e le altre
Ma come lo vedono gli altri?
E le altre?
gli uomini sono figli delle donne
Mi pare di sentire in lui
il senso di un’eterna solitudine
soprattutto in mezzo agli altri
eppure
un gusto vivissimo della vita e del piacere
Aprile 2020
Aspetto che il film venga proiettato al festival di documentario Visions Du Rèel. Sono emozionata perché l’ho sognato per tanto tempo. Mancano ancora venti giorni, che sembreranno quaranta, complice anche l’isolamento in cui viviamo da qualche mese a questa parte. Il festival chiede un video di presentazione per il film, visto che si farà tutto online e non potremmo dire le due parole canoniche prima della proiezione. Ci chiedono una “carte blanche”. Mi sento, per la prima volta, molto vicina agli e alle abitanti dei paesi isolati della Valsesia. Forse, un po’, comincio a capire Lorenzini.
Ho conosciuto Mario Lorenzini più di un anno fa quando mi hanno mostrato i suoi super 8. Tre ore scarse di materiale per lo più già montato in piccoli cortometraggi sulla vita di montagna nella comunità Walser piemontese. Poco materiale rispetto allo standard degli amatori anni 60 tipici accumulatori seriali.
Per me Mario era come Cassavetes aveva un’abilità straordinaria di raccontare la nevrosi dei corpi maschili e l’esclusione di quelli femminili. Era un regista non solo un amatore e per questo volevo rispettare e interpretare la sua idea di cinema. Allora un anno fa sono andata alla festa del suo paese: Priami. Un paese impervio e piuttosto buio, circondato da montagne bellissime. Isolato. La festa del paese consiste nell’aprire le proprie case agli altri paesani, offrire da mangiare e da bere (soprattutto da bere), e cantare e ballare insieme. Sono quasi venti giorni che è cominciata la quarantena a Milano e che ci hanno dato la regola che i corpi
devono stare a un metro di distanza l’uno dall’altro. Ci sono cascata, penso. Quei corpi che ballano vicini mi fanno venire la malinconia, e pensare che la promessa che mi ero fatta nell’affrontare il materiale d’archivio di Mario era stata “no nostalgia!”. Non farti fregare dalle belle inquadrature, dai colori della pellicola, dalle facce sorridenti: ricordati che dietro ci sono i fantasmi. Sembra passata una vita dalle immagini di Mario, ma anche da anno scorso. Quelle stesse immagini ora mi dicono tutt’altro. Mi dicono che a quelle feste si esagera col vino perché l’isolamento pesa. Che è bello toccarsi. Che Mario che era operaio aveva un contratto di lavoro migliore dei miei coetanei suoi colleghi. Questa romanticizzazione improvvisa delle immagini di Mario mi ha molto sorpresa. Non pensavo che per me ci potessero essere degli inediti in cose che avrò visto almeno un milione di volte. Per tutto questo tempo ho pensato a leggere il passato, a criticarlo, a dargli un senso per farlo finire in un corto di 20 minuti. Allora mi fermo. Per un momento mi concedo di pensare a quello da cui dovrò tornare quando questo isolamento sarà finito.
Come voglio che sia?
Novembre 2021
Ho letto un libro che mi è stato consigliato da un critico cinematografico che ha visto il film. Si chiama “Lettura di un’immagine” di Lalla Romano. Non so come mai non sia capitato prima tra le mie mani. È un libro che contiene le fotografie scattate dal padre dell’autrice tra il 1904 e il 1914, ognuna corredata da testi descrittivi molto brevi. Nella premessa dice:
In questo libro le immagini sono il testo e lo scritto un’illustrazione. […] Mio padre, come ogni altro artista, per quanto minore, faceva delle scelte: libere, in quanto non professionali, né sottoposte ad obblighi sociali; però appassionate, e in questo senso rivelatrici. […] Nell’ordinare per temi e in una progressione vagamente narrativa queste immagini, ho visto trasparire e prendere consistenza quasi un ritratto di mio padre; mentre mi ero accinta a una lettura esclusivamente visiva, come se le fotografie fossero senza autore. In realtà non c’è immagine che non sia in qualche modo una cifra del suo animo. […] Comunque considero emblematica (non privata) questa umbratile storia di mio padre: anche per questa ragione mi sono imposta i limiti che ho detto. Sapevo che in tal modo il mio discorso poteva risultare povero, il mio lessico ripetitivo: era un rischio che dovevo correre. Non ho sentito il bisogno di <<dissacrare>> il piccolo mondo antico che si intravede in questo reperto fotografico. Non perché il mondo di allora fosse in sé migliore del nostro; ma perché questa testimonianza particolare rispecchia un modo di vita civile ma schivo, appartato e, come ho detto, fraterno: non vulnerabile. […] Le immagini, col loro pathos, sono viste al presente: è chiaro come si debba intenderle. Ma ci può essere chi non riesce a prescindere dal fatto che ogni fotografia è un documento e come tale è datata. Costui non si appaga di un commento formale-psicologico; reclama il confronto, se non con le storie, con la Storia: altrimenti, egli pensa, viene a mancare la dimensione drammatica. Ebbene, proprio la lontananza nel tempo – come il linguaggio puro e sottratto all’aneddoto – vale a situare queste figure e le loro storie dimenticate in una prospettiva reale, ma non meno emblematica. Una prospettiva anzi tragica (e tuttavia pacificata): quella delle vite spente, o prossime a spegnersi.
È talmente perfetta come premessa, che il libro ora ha trovato posto sul ripiano superiore della mia libreria: in piedi, da solo, come fosse un totem.
Mario ha fatto il giro d’Italia in questo anno. Lo hanno conosciuto anche in altre nazioni e hanno provato a capirlo anche in altre lingue. Sono tre anni che ci penso e che cambio idea su di lui e su noi due, ma il film, per forza di cose, è rimasto e rimarrà sempre uguale. Io però ora, quando lo guardo, mi ricordo che ho voglia di ballare. (Rubo le parole a Daniela Zangrando)
Il film, da cui prende il titolo la mostra LE GRAND VIVEUR – a cura di Daniela Zangrando – è visibile al Museo Burel di Belluno fino all’11 dicembre
Per leggere gli altri interventi di I (never) explain
I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.
Hanno contribuito alla rubrica Zoe De Luca, Simona Squadrito e Irene Sofia Comi