PAINTING, 2019 – studio D1.14 – HISK (Ghent, BE).
Nel mese di Gennaio 2019, all’interno della residenza presso THE HISK a Ghent (BE), mi trasferii nello studio di un collega scultore che aveva terminato il programma di ricerca. Lo avevo visto prima che lo svuotasse ed ero rimasta impressionata, soprattutto dalla quantità di verde che dominava lo spazio. Pieter aveva un piccolo angolo cottura ricavato con legno di recupero, un soppalco costruito da lui, sculture organiche su ogni piano, ed un numero incalcolato di piante, principalmente tropicali, a foglia larga, e grandi piante grasse che si confondevano fra le opere. Al momento del mio ingresso però – una volta entrata nella stanza svuotata, il pavimento grigio si rivelava nella sua freddezza – ovviamente non riconoscevo nulla, il soppalco improvvisamente mi appariva meno solido, ma soprattutto scoprii che le pareti erano interamente ricoperte di polistirolo!
Nonostante ciò era uno spazio bellissimo, il trittico di grandi finestre centinate che si affacciavano sul cortile della LeopoldKazerne ricordava l’abside di una cattedrale, gli infissi consumati rivelavano i diversi passaggi di vernice sul legno, i vetri con residui di scotch disegnavano improvvise partiture ocra, integrando l’avorio freddo della vernice, ingrigita dalla polvere, e fissata dal sole.
Avevo solo un mese per trasformare quello spazio nel mio spazio, lo studio era infatti temporaneo, HISK si stava per trasferire definitivamente all’interno dello stesso palazzo nell’ala adiacente.
Decisi così di considerare quel tempo, un mese, e quel luogo temporaneo di lavoro, come un’occasione per realizzare un’opera site-specific, sperimentando e cercando di accogliere le suggestioni che il luogo stesso mi offriva.
Come primo gesto iniziai a fare pulizia: un atto di cura e simultaneamente un modo per prendere tempo, pensando a come intervenire ed interagire con gli elementi esistenti.
Divenne chiaro dopo qualche giorno che l’intuizione iniziale si stava orientando verso la realizzazione di un’opera di natura pittorica.
L’azione successiva fu la rimozione di parte dei pannelli di polistirolo, dettata da un sentimento repulsivo verso il materiale, e dalla convinzione che fosse uno strato isolante sovrapposto all’intonaco per ottimizzare il riscaldamento. Questa impropria coltre bianca invece custodiva sotto di sè uno strato di cemento, dall’apparenza friabile, scandito da impronte di piastrelle appartenute ad almeno due vite prima di quel luogo. Fu sorprendente scoprire le tracce della ‘griglia’ nei ‘moduli’ verticali, pensai ad essi come a delle forme che conservano la stessa massa (uno dei 12 principi dell’animazione cinematografica) e che ad ogni ripetizione mutano con un piccolo margine di errore.
Le piastrelle in ceramica erano ancora parzialmente visibili, rettangoli di colore verde Veronese chiaro, in alcuni punti rotte, a tratti lasciavano intravedere una geometria di mattoni.
Inoltre, la colla utilizzata per fissare i pannelli di polistirolo, molto probabilmente poliuretanica, appariva addirittura di vari colori, probabilmente avanzi di magazzino, in toni pastello di verde, arancione e giallo: ne leggevo le tracce qua e là tra il cemento.
Questo fatto mi sembrò curioso e mi diede l’impressione di essere sulla strada giusta: mi sembrava interessante dare valore a quella delicatezza non voluta, facendola riemergere protagonista. Infatti, per attivare il mio processo non parto mai dalla cosiddetta ‘pagina bianca’, o dalla materia in sé.
Avevo dunque già scoperto una serie di elementi cromatici che pensavo di campionare ed utilizzare per una ‘ricostruzione’; a questo si univa il fatto che il cemento, probabilmente miscelato in tempi diversi e con quantità di sabbia differente, assumesse sfumature diverse nelle varie aree risultando talvolta più caldo, talvolta tendente all’azzurro.
La prima regola che decisi di impormi fu proprio il campionamento delle cromie già presenti, e la loro ‘espansione’ per velature ad imitazione pittorica, senza intenti rappresentativi ma assecondando le tracce esistenti e ‘forzandone’ i limiti.
Una di queste forzature fu ad esempio la ‘saturazione’ dei vari campioni di grigio del cemento, che interpretai come una ‘caricatura’ del colore di partenza. (Anziché accordarmi con l’offerta tonale dei grigi, avviai un percorso d’indagine volto ad individuarne il timbro di appartenenza).
Un altro ruolo importante fu giocato proprio dal polistirolo.
Il pregiudizio iniziale fu presto superato, cosicché riuscii a considerare il materiale in modo diverso, individuandone le potenzialità; pensai a come anticamente, una volta passata la moda o superato il linguaggio dell’epoca, si usasse ricoprire l’affresco con uno strato di intonaco per rinnovare la pittura. Per la buona riuscita di questa operazione, la superficie affrescata veniva colpita con il martello al fine di produrre dei buchi, che permettevano al nuovo intonaco di aggrapparsi alla malta sottostante, occultando così l’affresco precedente.
[ Trovo interessante l’idea che queste erosioni, nonostante la natura ‘violenta’ e unicamente pratica, si rendano portatrici di un pensiero di transizione, e incarnino la connessione tra il nuovo e l’antico. Credo di aver sperimentato la prima esperienza di questo tipo nella Chiesa di Santa Caterina a Villavecchia in Villanova Mvì (CN), il mio paese natale, un edificio particolarmente stratificato la cui storia si legge attraverso ben sei fasi di costruzione e attraversa almeno cinque secoli. Il Cristo che sorregge la croce nell’ingresso principale, attorniato dai simboli della Passione, si presenta punteggiato di buchi bianchi, che formano un nuovo ritmo giustapposto all’immagine principale. Essendo il frutto di un gesto estemporaneo è possibile addirittura immaginare come siano stati fatti, in quale ordine, quale postura fu utilizzata e il grado di energia applicata; in alcuni punti si potrebbe quasi fantasticare su come la persona afferrasse il martello ].
Queste riflessioni mi portarono a decidere di non rimuovere completamente i pannelli.
Lo scavo parziale di questi ultimi divenne così parte integrante del processo, e l’ utilizzo del martello in senso ritmico – utilizzato al pari di un gesto pittorico – contribuì con lo stesso peso delle velature di gesso e pigmenti, cemento e calce, alla formazione dell’opera in senso compositivo.
Un altro elemento che mi interessava era attivare l’inclusione di piccoli oggetti nel gesso pigmentato, memore dell’esperienza scultorea già sperimentata negli anni.
Una delle regole, fra le altre da me predisposte, fu dunque di introdurre una selezione di elementi (plastica, ceramica, frammenti di oggetti -ecc.) in continuità pittorica con la superficie dipinta. Se nel mio processo scultoreo i frammenti, le loro forme e cromie sono spesso gli attivatori della ‘ricostruzione’, in PAINTING è stata la materialità del cemento nelle sue qualità tattili e la gamma cromatica messa a disposizione dallo ‘scavo’ a guidarmi nella scelta degli oggetti da integrare, invertendo il passaggio e giungendo a un risultato dalla genesi ambigua.
A posteriori posso dire che si tratta del primo lavoro in cui mi sono davvero confrontata con la dimensione pittorica, da sempre insita nel mio operare in scultura, e la prima opera in cui ho affrontato il problema compositivo su larga scala.
Il lavoro, in seguito allo smantellamento dovuto alla ristrutturazione degli spazi, vive nelle riproduzioni fotografiche dell’insieme e dei dettagli, che ho cercato di conservare insieme a piccoli frammenti di polistirolo, come residuo dell’azione e come memoria dell’intervento, ma ancora aperti ad un possibile futuro sviluppo.
PAINTING, 2019
Intervento site-specific
Cemento, polistirolo, oggetti e frammenti in plastica, ceramica, legno, alluminio, colla poliuretanica, pigmenti
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Le dieci pratiche artistiche scelte per questa sezione di I (never) explain sono eterogenee eppure collegate da uno specifico approccio; ognuna di esse si sviluppa tramite l’ascolto di materiali e medium, intendendoli nella loro accezione più organica, autonoma, viva. Ognuna di queste opere è il risultato di una pratica fondamentalmente alchemica, poiché definita da gesti e stratificazioni, procedendo per addizione e sottrazione, manipolando la materia fino a trasmutarla in microcosmi personali.
A cura di Zoë De Luca
Per leggere gli altri interventi di I (never) explain
I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.
Dall’apertura della rubrica, tra i curatori invitati a selezionare gli artisti: Simona Squadito, Irene Sofia Comi