ATP DIARY

I (never) explain #105 | The Cool Couple

Way Out (2018). Tutti abbiamo un cassetto delle idee. È vero che spesso si riempie un cassetto per dimenticare il disordine, ma, a differenza di altri contenitori, è sempre lì pronto ad essere riaperto. Il nostro cassetto dei progetti, invece, è un sarcofago. Quando mettiamo da parte un’idea, si tratta spesso di un addio.  Parliamoci […]

Way Out (2018).

Tutti abbiamo un cassetto delle idee. È vero che spesso si riempie un cassetto per dimenticare il disordine, ma, a differenza di altri contenitori, è sempre lì pronto ad essere riaperto. Il nostro cassetto dei progetti, invece, è un sarcofago. Quando mettiamo da parte un’idea, si tratta spesso di un addio. 

Parliamoci chiaro: non è un cestino. Per i progetti cestinati abbiamo una sezione dedicata. Il nostro problema è che siamo un cocktail perfetto di smemoratezza e disorganizzazione, con un topping di ottimismo: stipiamo project proposals e illuminazioni nel nostro sarcofago convinti che prima o poi ci rivedremo, nell’arco di mesi o – perché no – di anni. Crediamo nella stagionatura. 

Questa, però, è la storia di un’idea che si è salvata. 

Concepita a Cosenza, maturata al Nord e presentata a Napoli, ci ha portati sull’orlo del breakdown. Appropriandoci indebitamente di un’espressione che non potremo mai impiegare con cognizione di causa: è stato un parto. Ma ne valeva la pena. 

Di solito, quando arriva l’estate, iniziamo a sentire il profumo di vacanze: giugno e luglio sono lo sprint finale in vista del meritato riposo. Ad agosto, si sa, spariscono tutti. Inevitabilmente, finisci per credere anche tu di essere parte della grande moria estiva e di anno in anno assapori il piacere di attivare l’OOO (Out Of Office, ma anche una forma peculiare di Object Oriented Ontology, che si interroga sull’effimera durata di uno spritz da asporto rispetto al suo bicchiere di plastica). Tuttavia, la realtà ci tiene sempre a ribadire chi tiene in mano l’agenda di The Cool Couple.

Nel 2018 lo ha fatto coinvolgendoci in un progetto di Unseen Amsterdam e Fujifilm. Era iniziato tutto ad aprile, ai primi di luglio gli Olandesi erano già andati e tornati dalle ferie, e a noi restava la consapevolezza che ci avrebbe atteso un agosto di sangue e sudore. Poi, quando è arrivata la telefonata di Alberta Romano che ci invitava a BocsArt, un progetto di residenza d’artista curato da Giacinto di Pietrantonio, ce la siamo messa via una volta per tutte. 

Così, a metà luglio eravamo a Cosenza, dove abbiamo trascorso tre settimane insieme a curatori e artisti, mentre lavoravamo a diverse cose: l’idea per la mostra finale di BocsArt, l’installazione per Unseen e una serie di proposte per alcuni bandi.

Tra una polpetta fritta e la declinazione dell’ennesimo invito ad andare al mare, stavamo abbozzando una riflessione sulla fine della privacy, mettendo finalmente insieme l’IoT, l’economia del terrore, la fiducia nelle immagini, la meme culture, il vecchio adagio di Bauman sulla smaterializzazione del potere, la differenza con cui i boomer e i millennial condividono le proprie vite online e via dicendo. 

Alla fine, abbiamo condensato tutto in una domanda: è ancora possibile sparire, diventare invisibili?

II

L’invisibilità è un superpotere. Forse è per questo che è così ambita. 

Nel mondo pre-Covid, l’impiego di maschere era (ed è tuttora) regolato dalla legge. C’è una frase, che si sente spesso quando si parla della profilazione che va a braccetto coi big data: “Che problema c’è, io non ho nulla da nascondere.” Abbiamo interiorizzato così tanto l’abitudine ad esibire che ci stiamo dimenticando del contrario. 

Da questa serie di ragionamenti era nata in pochi giorni un’idea: non aveva ancora un titolo, ma sapevamo che si sarebbe trattato di un’opera con una forma aderente ai principi del design in domotica – a sua volta ispirato a quello dei giocattoli: niente spigoli, superfici piacevoli al tatto, colori vivaci o collegati a sensazioni positive – e che al suo interno celava un dispositivo in grado di produrre un campo di invisibilità. Qualcosa che potesse farci sparire dai radar. 

Fortunatamente la tecnologia di cui avevamo bisogno esisteva già: ci serviva un jammer, noto anche come disturbatore di frequenze. Esistono jammer grandi quanto un pacchetto di sigarette, solitamente impiegati dai ladri di automobili per interferire con il segnale della chiusura centralizzata; molte banche o multinazionali impiegano una rete di disturbatori per proteggere il contenuto di alcuni meeting o i segreti industriali; l’esercito dispone di jammer di grandi dimensioni, montati sul tettuccio dei mezzi fuoristrada, in grado di “silenziare” la rete nel raggio di chilometri. Si dice che durante il G8 di Roma ne siano stati usati parecchi, supposizione nata dalle numerose testimonianze di cittadini della capitale che lamentavano un totale blackout delle telecomunicazioni nei quartieri in cui erano passati i convogli con i capi di stato.

In sostanza, un jammer vi ripiomba negli anni ’90, quando non avevate Internet, era ancora presto per il Nokia 3210, e per uscire bastava dire agli amici “ci vediamo in piazzetta alle quattro” e tutti miracolosamente arrivavano puntuali. E con questo salutiamo le elucubrazioni per dare un caloroso benvenuto ai problemi pratici. 

Come si può dedurre da quanto sopra, il jammer non è una tecnologia per tutti: se Googlate “comprare jammer”, venite rimandati a diversi fornitori, alcuni dei quali vi sorprenderanno per la quantità e la qualità dei prodotti. Però, gli stessi rivenditori ci tengono a SOTTOLINEARE E RIPETERE PIÙ VOLTE A CARATTERI CUBITALI, IN GRASSETTO E COLORI ACCESI SU TUTTE LE PAGINE DEL LORO CATALOGO ONLINE che, in Unione Europea, i disturbatori di frequenze sono illegali. 

Era un bel paradosso: cataloghi pieni di foto, pagine e pagine di prodotti, ma inspiegabilmente tutti gli stock sempre esauriti. E sotto alla scritta “sold out”, il solito disclaimer sull’illegalità di quello che vendevano. 

L’acquisto del jammer di preannunciava più complicato di quanto immaginavamo.

Ma quando, poco tempo dopo, abbiamo appreso che il bando a cui avevamo candidato la nostra proposta di scultura-involucro-user-friendly non era andato in porto, i problemi di rifornimento nei magazzini dei venditori di jammer hanno smesso di preoccuparci. 

Peccato. 

Avevamo anche trovato un titolo: Way Out

Amen. Abbiamo seppellito l’idea e ce ne siamo serenamente dimenticati, lasciando il suo rinvenimento a qualche futuro dottorando presso un’istituzione universitaria di secondaria importanza, curiosamente interessato alla nostra carriera; o ai famosi archeologi dei secoli a venire, i quali potrebbero forse darle spazio nei coffee break dell’accesissimo dibattito per stabilire se Antropocene è la definizione corretta per la nostra epoca.

III

Appena arrivati a BocsArt, per prima cosa abbiamo preso in prestito una panca dalla zona mensa e l’abbiamo piazzata davanti al nostro studio, cioè sul bordo della pista ciclabile di Cosenza. Questa mossa, oltre a ridurre i posti a sedere a pranzo e a cena aumentando la promiscuità e lo scambio di idee, ha creato un punto di incontro. Tra i frequentatori più assidui del nostro temporary office, oltre ai runner cosentini sorpresi dall’insolita presenza di un’ombreggiata possibilità di riposo, ci sono state in particolare due persone: Luca Loreti e il suo branco di cani randagi e Alberta, la quale, essendosi presa la responsabilità di invitarci, verificava periodicamente i nostri livelli di produttività.

Oltre a discutere il progetto per la mostra di fine residenza, approfittavamo della sua presenza per condividere il work in progress sugli altri fronti: Unseen e l’allora bando-che-non-sarebbe-andato-in-porto.

Alberta era rimasta particolarmente affascinata da quest’ultima idea e, quando meno ce l’aspettavamo, ha ripescato Way Out dall’oblio.

Infatti, dopo BocsArt, avevamo trascorso Agosto facendo la spola tra Milano e Amsterdam, per terminare Time Travel Stuff,il progetto per Unseen e Fujifilm, che sarebbe andato in mostra a fine settembre. Quella data marcava, nei nostri piani, la fine dell’anno. Un po’ in controtendenza col tradizionale calendario dell’arte, pensavamo di meritarci un break. 

Nell’ottica della tregua, avevamo fatto progetti: Simone, ad esempio, prevedeva di trasferirsi un paio di mesi in Veneto per far operare il suo cane e seguirne la riabilitazione. 

Ed era proprio Simone che, il penultimo giorno di Unseen, riceveva una telefonata di Alberta, che dribblava i convenevoli per rivolgergli due domande a gamba tesa: tempistiche e costi di produzione della scultura di cui discutevamo a BocsArt. Simone, che negli anni si è guadagnato una certa credibilità come quello preciso di The Cool Couple, aveva un certo margine con il bluff: rassicurando Alberta su budget e tempistiche, aveva appreso che forse c’era una mostra in ballo. 

Ed eccoci lì, come il mitico Zahi Hawass in collegamento da Giza, ad esumare Way Out.

IV

Qualche giorno più tardi, Alberta confermava tutto ed elargiva un po’ di dettagli: noi, Giulio Scalisi ed Eva Papamargariti, da Umberto di Marino. Opening: seconda metà di Dicembre. Avevamo appena rimesso piede in Italia ed eravamo già carichissimi.

Simone sarebbe partito a breve per il Veneto e abbiamo approfittato dei pochi giorni in cui eravamo ancora entrambi a Milano per definire i dettagli dell’installazione: dopo le prime riunioni era chiaro che Way Out non doveva consistere solo della scultura, ma anche dei riferimenti agli articoli del Codice Penale che regolamentano l’impiego dei jammer in Italia.

La legge comprende i jammer tra i dispositivi che causano l’interruzione delle comunicazioni, dedicando tre articoli del Codice Penale al tema: in soldoni, se acquisti, possiedi o attivi un disturbatore di frequenze, ti fai da uno a quattro anni di carcere. Insomma, non si scherza. In un mondo sempre più cablato, del resto, non poteva essere altrimenti.

DEL CODICE PENALE Cognizione interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni
o conversazioni telegrafiche o telefoniche.
Chiunque fraudolentemente, prende cognizione di una comunicazione o di una conversazione, telefoniche o telegrafiche, tra altre persone o comunque a lui non dirette, ovvero le interrompe o le impedisce è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la stessa pena si applica a chiunque rivela, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, in tutto o in parte, il contenuto delle comunicazioni o delle conversazioni indicate nella prima parte di questo articolo.
I delitti sono punibili a querela della persona offesa; tuttavia si procede d’ufficio e la pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è commesso in danno di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio, ovvero da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato.
Articolo così sostituito dall’articolo 2 della l.8/4/1974 n. 98. 

ART. 340
DEL CODICE PENALE Interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità.
Chiunque, fuori dei casi previsti da particolari disposizioni di legge, cagiona una interruzione o turba la regolarità di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità, è punito con la reclusione fino a un anno.
I capi, promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni. 

ART617 BIS
DEL CODICE PENALE Installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche.
Chiunque, fuori dei casi consentiti dalla legge, installa apparati, strumenti, parti di apparati o di strumenti al fine di intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni tele- grafiche o telefoniche tra le altre persone è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è commesso in danno di un pubblico ufficiale nell’esercizio o a causa delle sue funzioni ovvero da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato.
Articolo aggiunto dall’articolo 3 della l. 8/4/1974 n. 98. 

Se però la legge non vi spaventa, ad aggravare il tutto circolano diverse leggende metropolitane secondo le quali un jammer di media potenza potrebbe causare il blocco di un peace-maker. Quando si dice l’arte che colpisce il pubblico.

Nonostante tutto, la convinzione che il jammer andasse procurato non vacillava. E già ci vedevamo a scrivere la biografia dal carcere come dei novelli Fabrizio Corona, altro che Gramsci.

Simone alla fine era partito per il Veneto. Con grande anticipo sullo smart-working, avevamo optato per una divisione dei compiti: Simone al design delle stampe con i testi del Codice Penale e Niccolò a seguire la produzione della scultura. 

Il progetto prevedeva una serie di testi incorniciate e un piedistallo centrale con la scultura: una forma fluida realizzata in lamelle di alluminio anodizzato. All’interno di quest’ultima era previsto il famoso alloggiamento per il disturbatore di frequenze.

La gatta da pelare rimaneva sempre quella: come procurarci il jammer?

Numerose ricerche online e il parere di diversi avvocati ci avevano parzialmente rassicurato sul fatto che esistessero dei cavilli che ci consentivano di utilizzare un jammer all’interno di uno spazio privato (La famosa motivazione dell’opera d’arte ce l’hanno cassata subito). 

Tuttavia, l’acquisto e l’ingresso di questo dispositivo in Unione Europea restava un mistero. Sarebbe servito qualche miracolo, ma Natale sfortunatamente arrivava una settimana dopo l’opening. Ci trovavamo dunque davanti a un paradosso dal sapore Schrodingeriano: se ho il jammer posso usarlo, ma è vietato acquistarlo.

Più si protraeva questa impasse, più ci vedevamo immersi nelle profondità del deep web, tra trafficanti di organi, droga e armi. Non riuscivamo a toglierci di testa anche un’altra immagine: quella della prigione. Forse non ci stava aiutando leggere Suttree, di Cormac McCarthy: la storia di un uomo che vive ai margini della società americana degli anni ’50, un essere umano irrecuperabile, il cui futuro è stato irrimediabilmente compromesso dall’esperienza del carcere.

Per scacciare i brutti pensieri, cercavamo rifugio nella manualità. Eravamo ancora indecisi sulla forma definitiva dell’involucro in alluminio. Sicuramente era un volume fluido, ma l’andamento delle curve era materia di grandi discussioni. 

Una caratteristica distintiva del nostro modus operandi è una certa incapacità di gestire la produzione: quando il tempo stringe e bisogna prendere delle decisioni, consegnare dei bozzetti o chiudere un render, abbiamo la pessima abitudine di dare sfogo a delle idee totalmente illogiche e condannate già in partenza al fallimento. Nello specifico, ci eravamo convinti che dovevamo realizzare un modellino in scala della forma finale, invece di un disegno. Ci dicevamo che avrebbe agevolato gli architetti con cui avremmo collaborato per produrre il modello 3D per il taglio dell’alluminio. Dopo una serie di frustranti serate a modellare del DiDo e aver prodotto una discreta collezione di palline dalla vaga forma di sassi, siamo repentinamente tornati al disegno. 

Nel frattempo, perseguitati dagli incubi, ci chiedevamo come recuperare il jammer. Avevamo scritto mail e compilato form online senza successo, finché un’azienda di San Marino ci ha risposto. Ci aspettavamo chiamate da numeri cifrati, comunicazioni in codice, appuntamenti di persona nelle aree di sosta in autostrada, pacchetti dimenticati distrattamente sopra ai cestini dei rifiuti. 

Forse avevamo visto troppi film. Perché sono bastate una chat di Whatsapp e qualche telefonata. I referenti in azienda erano generosissimi nelle risposte, pronti a risolvere ogni dubbio e fornirci tutti i dettagli di cui avevamo bisogno. Discutevamo di settaggi e optional, come ad esempio l’alimentatore per l’accendisigari della macchina. Metti che un giorno devi trasportare materiale particolarmente – ehm – “sensibile”.

Ormai il nostro stadio di paranoia su una scala da uno a dieci era già verso il sette e mezzo e quando ci telefonavamo internamente a The Cool Couple ci ricordavamo sempre di salutare eventuali agenti dell’antiterrorismo in ascolto. Perché ci era venuto il dubbio. Un legittimo dubbio. E se si fosse trattato di un’esca? Quale trappola migliore di un commesso diligente che ti fa spiattellare tutto quello che serve alla legge per inchiodarti con le spalle al muro? 

V

La paranoia sette e mezzo, quasi otto, man mano che le settimane passavano, contribuiva ad accrescere una più generale ansia da deadline/prestazione. 

L’opening si avvicinava inesorabile. Avevamo già i biglietti dei treni per andare a Napoli. In galleria c’erano già le stampe incorniciate con i testi del Codice Penale e un bellissimo piedistallo in ciliegio. Ma ancora nessuna news sul fronte scultura. La produzione dell’involucro in alluminio subiva continui ritardi e il jammer era tutta una questione di fede:secondo quanto ci avevano riferito dalla ditta, il disturbatore partiva da Hong Kong, passava per un magazzino a Dubai e da lì sarebbe entrato in Italia. 

Ma potevamo davvero fidarci? E poi? Mettiamo anche che riuscivi a farlo entrare nel paese. Poi? Mica ti poteva arrivare per posta. Impossibile, dai. Al giorno d’oggi! Ci lamentiamo che viviamo in una società dell’iper-sorveglianza, abbiamo accarezzato così tante volte la cupola del Panopticon che è diventata lucida come il seno destro della Giulietta di Verona. E porta anche fortuna. Ma mettiamoci pure i telefoni che ci ascoltano. Gli hacker, il phishing, e tutte le paranoie possibili e immaginabili.

E invece…Oltre ai server dell’INPS, ci sono altre falle nel sistema. 

Infatti, il pacco con il jammer avrebbe viaggiato con corriere TNT e sarebbe arrivato a destinazione in cinque giorni lavorativi a partire dalla data del pagamento. Ovviamente con bonifico. A questo punto non avevamo più scuse. Dovevamo fare il passo e comprarlo. Per scaricarci un po’ di responsabilità e avere delle attenuanti nel caso di un’eventuale processo, abbiamo deciso di far recapitare il pacco direttamente in galleria. 

Ci restavano solo l’ansia e la finalizzazione dell’involucro. Gli architetti avevano prodotto i disegni tecnici. La riabilitazione del cane di Simone procedeva speditamente. Eravamo ormai alla fine della prima metà di dicembre e la mostra avrebbe aperto pochi giorni dopo. Dovevamo mandare in produzione l’involucro di alluminio.

E poteva farlo solo Niccolò.

Non che questo compito fosse semplice: era un paio di mesi che venivamo rimbalzati da diverse aziende che per le modeste dimensioni della commessa, rifiutavano il lavoro. Del resto, se sei abituato a lavorare su scala industriale, ottanta lamelle di alluminio da due millimetri di spessore per un diametro di qualche decina di centimetri sono più un costo che un guadagno. 

Alla fine Niccolò aveva trovato un tizio in Brianza che customizzava corpi per chitarre elettriche e si vantava di aver realizzato alcuni modelli in lamine metalliche. Le chitarre facevano letteralmente cagare, ma la tecnica era esattamente ciò di cui avevamo bisogno. Niccolò lo aveva contattato e, con grandi difficoltà, aveva fissato un appuntamento per la lavorazione. 

Quello di cui non ci eravamo sincerati, come al solito, era la mera fisicità delle cose. La sera prima del viaggio per Napoli, Niccolò è andato a ritirare l’involucro e si è ritrovato a decine di chili di alluminio da caricare in macchina. Mettiamoci pure una serie di coincidenze: siamo a Dicembre, in Brianza, di sera. Fa freddo. Aggiungiamoci anche che come ti consegnano le lamelle ti chiudono fuori dalla ditta perché devono andare a casa. Nessuno si offre di aiutarti. E ti trovi in un parcheggio deserto e buio. Per Niccolò non era un bel momento. 

Arrivato a Milano a sera inoltrata. Niccolò si era dovuto ingegnare per imballare tutto. Chiuso in garage alle dieci di sera doveva costruire una scatola grande abbastanza per tutte le lamine, ma non troppo ingombrante perché la mattina successiva bisognava caricarla in treno. E, prima ancora, raggiungere i binari. Dopo diverse elucubrazioni, Niccolò si era arrangiato con una combinazione di carrellino, scatolone tenuto insieme da molto nastro da pacchi e borsa blu dell’Ikea. Imballare tutto era un’operazione piuttosto lenta: ogni lastra andava meticolosamente incartata per evitare che si graffiasse. Mentre avvolgeva l’ennesimo pezzo di alluminio, Niccolò si è tagliato un indice. Sarà stata la stanchezza, la fame, la distrazione data dall’insieme delle cose, non c’era tempo di interrogarsi sulle cause. Il dito sanguinava copiosamente. In più il garage non brillava per pulizia. Mentre la sera diventava notte e una metà di The Cool Couple dormiva a trecentocinquanta chilometri di distanza ignara di tutto, Niccolò stringeva i denti e terminava di imballare tutto. 

Alle quattro del mattino, col dubbio di aver contratto il tetano, si recava infine in pronto soccorso, per fare dietro-front di fronte alla fila chilometrica.

VII

La stazione di Portogruaro, alle 9.30 del 15 dicembre era inondata dal sole. Simone, in attesa di prendere il treno per Napoli, era seduto su una panchina, il borsone a fianco, e si godeva il bel tempo.

Dall’altro lato della Padania, Niccolò e il nostro assistente di allora – mitico Cris – trascinavano uno scatolone dal peso specifico di discreto interesse per qualche fisico teorico attraverso la Stazione Centrale, per issarlo sul Frecciarossa Milano-Napoli.

Una volta a bordo, finalmente, sentivamo allentarsi la tensione.

Allo stress che avevamo accumulato nei mesi precedenti iniziava a sostituirsi l’eccitazione per l’opening, la curiosità di vedere finalmente il frutto di tutto questo lavoro. Il jammer si trovava già a Napoli da giorni, era stato testato e funzionava. Era già arrivato anche Giulio Scalisi, che è sempre un passo avanti a noi.

Alberta, nei due mesi precedenti, aveva seguito tutti gli sviluppi di Way Out. Ci sentivamo spessissimo. La nostra chat di gruppo era un coacervo di messaggi, audiomessaggi e meme. Uno degli aspetti più belli di lavorare con Alberta è che ci tiene alla tua salute mentale. Si è sempre sincerata che fossimo sereni. Non ci è riuscita, ma lasciateci spezzare una lancia in suo favore: siamo pazienti particolarmente difficili.

Durante il viaggio in treno ci stavamo scrivendo con lei – le solite frasi di rito: tutto bene, come sta andando il viaggio, come procede l’allestimento di Eva e Giulio in galleria…

A un certo punto, Alberta ha smesso di rispondere. Un attimo prima ci scrivevamo e poi era scomparsa.

Poco male, avevamo pensato. Ci dormiamo su. 

Era però ritornata all’improvviso, con un messaggio che ci aveva fatto rizzare i peli sulla schiena. E diceva più o meno questo: “Scusate ragazzi, piccolo imprevisto. Umberto (di Marino) e Giosuè sono stati convocati d’urgenza in questura. Non so perché, ma dicono che non è nulla di grave.”

Non avevamo finito di leggere il messaggio che le stavamo già telefonando. Ma il telefono squillava a vuoto. Le avevamo scritto in chat. Silenzio di tomba.

Un collasso mentale più tardi, ci siamo telefonati, tra The Cool Couple.

Sussurrando – non era il caso che gli altri passeggeri del treno carpissero il contenuto della conversazione – cercavamo di rassicurarci a vicenda: vuoi che proprio adesso sia venuto fuori che la galleria ha un jammer? Vedi che non dovevano testarlo senza di noi? Magari ci voleva qualche giorno perché la segnalazione della dogana arrivasse in questura. Forse gli avvocati si sono sbagliati. Se devono inculare qualcuno, quel qualcuno siamo noi. Dai, ma vuoi proprio che vada così male? Al massimo scriviamo la nostra biografia. Se siamo in prigione possiamo disdire l’affitto a Milano.

Da Alberta, intanto, silenzio stampa.

Ve la ricordate la scala della paranoia di cui parlavamo prima? Ecco. Anche noi ce l’eravamo ormai dimenticata.

A un certo punto avevamo pensato di chiamare a casa. Pronunciare le classiche frasi di circostanza: “Mamma, sai che ti voglio bene. Non te lo dico spesso, però è così.” “Potrei avere dei problemi con la giustizia.” “Non volevo che finisse così.” “Non preoccupatevi, me la caverò.”

Eravamo quasi a metà strada, stavamo attraversando la bassa Toscana, quando Alberta ci ha mandato una foto.

E niente, ci caschiamo sempre.

Photo Credits: Gianluigi Gargiulo

Ha collaborato Simona Squadrito

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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.