Luogo oscuro e misterioso, reale o immaginario, respingente e, al tempo, attraente. Parto della mente (labirintica) di Oscar Giaconia, Hoysteria – titolo della sua prima mostra personale ospitata alla Gamec di Bergamo dal 17 gennaio al 24 febbraio 2019 – è un luogo che potrebbe essere una sorta di limbo, un margine dove i pensieri e le ossessione dell’artista prendono corpo.
Nell’interviste che segue, Giaconia ci racconta da dove si srotolano le idee, i significati, le ‘immagini isteriche’ che, lo ammorbano e contagiano. Alla domanda se ci fosse una narrazione, una storia da seguire che si dipana tra le opere in mostra, risponde risoluto: “Non c’è nessuna narrazione, ma solo incubazione e assimilazione.”
Il dittico Master – Mother Board (2018), un doppio ritratto con effigi di profilo, di matrice numismatica, apre il percorso espositivo. Il nucleo centrale è rivestito dalla salpa, un derivato del cuoio che nasce dalla lavorazione di scarti di fibre di pelle di origine bovina (“È la trapunta, tessuto e imbottitura spettrale che trapassa, cuce e fodera i penultimi artifici. Provengo da una famiglia di pastori-pellettieri, avendola sempre avuta sotto gli occhi è come se non avessi mai realmente visto questo materiale.”), che ospita The Grinder (2015), macchie anamorfiche che si stagliano sullo sfondo chiaro.
Al centro dello spazio espositivo Calabiyau (2018): la ricostruzione in legno di una vecchia bettola o “capanno- corazza” che custodisce personaggi già presenti in forma embrionale nella mostra Green Room (BACO, 2016), quando l’artista è stato trasfigurato dal truccatore prostetico Vittorio Sodano in una serie di paradossali controfigure – Comandante, Disinfestatore, Monomane, Fisherman – destinate ad accavallarsi una sull’altra. In chiusura, se di tragitto vogliamo continuare a pensare, la proiezione di Sexual Clumsiness, un video in 16mm che mostra le frattaglie delle riprese della seduta di trucco prostetico: “Sexual Clumsiness è letteralmente un ri-piego video-pittorico inciampato tra pelli carte e pellicole.”
Elena Bordignon: Prima di entrare nel merito della tua ricerca (visionaria) vorrei che mi spiegassi cosa nasconde il titolo Hoysteria: un termine che definisci ‘parola valigia’. Perché ti interessa manifestare, fin dal titolo, un concetto che abbraccia più significati?
Oscar Giaconia: Parafrasando J. Lacan, non posso spiegarlo, ma solo dispiegarlo, srotolando cioè tutto quell’invisibile pregresso materiale e psichico ormai inabissato in qualche area del relitto della mia scatola cranica, nel tentativo palombaro di risalire alla scatola nera dell’opera.
Hoysteria è un agglutinamento di parole che si incidentano le une dentro le altre, come un tamponamento a catena tra macchine. Parola-valigia è un termine carrolliano (basti pensare a “La Caccia allo Snark”) dove il senso e non senso si duplicano in una galassia di particelle patogene.
È sia crasi sia crisi di nomi propriamente impropri, una messa in abisso di un contenitore di contenitori: ora osteria ospitale ed ostile, ora ostrica-corazza, ostetricamente in-difesa delle rovine degli immaginari che mi attraversano, oppure sacca uterina isterico-mimetica. Sono immagini isteriche che si imitano le une con le altre a suon di sbadigli. Il tentativo è quello perverso di giocare a fare il disinfestatore di me stesso, facendo proliferare senso e sensazione alla stregua di parassiti e molluschi contagiosi. Un disinfestatore sui generis, anomalo, eccentrico ed eretico, in quanto strenuo difensore dell’infestazione stessa. La disputa tra contenitore significante e contenuto significato, interni-esterni a questo sformato di parole, porta ad inevitabili battute d’arresto e derive aporetiche. Serve solo molto abbandono, quello tanto vagheggiato dai mistici, per intendere l’intraducibile buio di Hoysteria.
L’intraducibilità della traduzione, soprattutto del tradurre e tradire pittorico, è l’unica possibilità per avvicinarsi allo straniero che si è, preservando la sopravvivenza della falsificazione e dell’artificio come sola “traduzione plausibile”.
È la drammatica presa di coscienza che nasciamo già colonizzati dall’Altro ventriloquo che ci abita e ci parla. Non siamo quindi mai nostromi (inteso come nuestr-amo) di noi stessi.
EB: La mostra è abitata da molte figure: locandieri, falsari, vecchi nostromi, sentinelle spettri etc. Dove scovi, nelle tue ricerche, questi personaggi?
OG: Sono tutti specialisti senza specializzazione: fanno parte di una pantomima pittorica dove il soggetto e il rispettivo ruolo schizofrenizzano e si liquidano l’un l’altro. Questi guardiani e impostori mistificano, sono senza contenuto, svuotati, senza gruccia interna. Sono solo crisalidi che, come la confezione in pelle dello pshico-abito de “Il silenzio degli innocenti”, sopraggiungono a seconda della chiamata del proprio oscuro inquilino. La pelle diventa quindi un’entità lamellare, ultra plastica pari a quella produttiva dell’inconscio: modella, tappezza, congegna, imbottisce, cuce e scuce, riveste. I personaggi quindi non esistono, sono tutti escamotage, mc guffin mistico mimetici; come utensili dimessi di certa cultura materiale, servono solo per una singolare antropotecnica della sparizione. Sono parassiti, completamente in-esistenti finché non disinibiti dal rispettivo marker sensoriale. Stanno solo appostati in una perenne attesa senza aspettativa.
EB: Cosa condensi nelle loro effigie stratificate? Sono simulacri di presenze reali o nascono come prerogative di esseri fantastici?
OG: La stratificazione è uno stato mentale perennemente apocrifo, è una forma di duplice pentimento. L’imitazione, derivante da questa pratica sedimentativa, è la mia preparazione atletica. Fa parte di quella macchina pittorica che m’illudo d’essere e di cui sono in-volontariamente soggetto (Master) assoggettato (masterizzato). Si stratifica, si imita e ci si pente facendo da apprendista ai propri fantasmi primari.
EB: La mostra è strutturata come un racconto a più riprese: l’entrata, il contenitore-luogo espositivo rivestito di un derivato del cuoio, la salpa; i lavori-contenuto al centro dello spazio, Calabiyau (2018), e la ricostruzione in legno di una vecchia bettola… Tante opere che tracciano un percorso ben preciso. Mi racconti come lo hai concepito e che narrazione si sviluppa con esso?
OG: Hoysteria è un casotto, sia nel senso letterale del termine sia figurato. È insieme riparo e rimessa per guardiani notturni, e postribolo, bordello, congettura del bordo e dell’asse di legno che recinta e confina l’assenza di diegesi propria della zattera galleggiante (quadro-macchina). Non c’è nessuna narrazione, ma solo incubazione e assimilazione.
EB: Ho citato la salpa, un derivato del cuoio che nasce dalla lavorazione di scarti di fibre di pelle di origine bovina. Perché utilizzi questo materiale? Cosa ti affascina delle sue caratteristiche?
OG: La salpa è al contempo impostore, in quanto sosia della pelle e pastura, poiché impasto inorganico di pelle e colle sintetiche. Solitamente è supporto e interstrato invisibile ad appannaggio di materiali elettivamente degni di esser visti. La metto in gioco come materiale di riciclo insorto dal buio del proprio auto seppellimento. È la trapunta, tessuto e imbottitura spettrale che trapassa, cuce e fodera i penultimi artifici. Provengo da una famiglia di pastori-pellettieri, avendola sempre avuta sotto gli occhi è come se non avessi mai realmente visto questo materiale. Speculando intorno alla natura dei supporti in-organici, terreno di coltura innaturale delle mie deposizioni pittoriche, ecco il risveglio d’attenzione per la salpa. Lo stesso risveglio immanente che certi parassiti subiscono ogni qual volta l’eccitazione chimico sensoriale li riattiva disinibendoli dalla propria attesa senza aspettativa. La salpa, anche se stravista, semplicemente prima non esisteva.
EB: Hai collaborato con Vittorio Sodano per la tua “trasformazione”. Mi racconti la tua esperienza con la pratica del trucco prostetico?
OG: Truccare-dipingere sono catatoniche forme di “meditazione” e al contempo procedure contro-tecniche dello svuotamento tassidermico dell’immagine. Quando le si pratica non si pensa a nulla o, nel migliore dei casi, non si è nulla, nel senso che si esperisce fisicamente su di sé l’essenziale e vitale inutilità dell’arte: si è questo nulla solo facendolo! Mi riduco quindi tra stato di abbandono e atti “c(a)osmetici”, che nel tentativo paradossale di dis-farsi di sé (camuffamento-strato-velatura-occultamento), tendono spontaneamente a trattenere e insieme cancellare le tracce della propria mummificazione.
EB: Sempre in merito al trucco prostetico, c’è un lavoro in mostra – la proiezione di Sexual Clumsiness la cui traccia audio è stata composta da Steve Piccolo- che ne svela la processualità unendo il linguaggio della performance con quello pittorico. Come nasce questo video?
OG: L’insieme dei linguaggi decomposti e che co-abitano il polipaio pittorico che frequento sono impiegati in tutta una serie di atteggiamenti visivo-digestivi (come il commensalismo, l’inquilinismo, il parassitismo e mutualismo) comunemente osservabili nel regno animale e vegetale e che ritrovo spontaneamente nei suoi dintorni. La pittura diventa così un im-personale simbionte per simulacri: un fungo-muffa colonizzatore, una cieca ed espansiva lamella spugnosa che fluttua come spore nell’aria, avendo come fine ultimo quello di riprodursi per contagio-contatto.
Sexual Clumsiness è letteralmente un ri-piego video-pittorico inciampato tra pelli carte e pellicole. Riutilizzai le frattaglie video di una passata sessione di trasformazione prostetica con lo stesso piglio dello sfogliare il blocchetto di tessuti-campione dei tappezzieri. Avevo bisogno di utilizzare questo campionario come crudo défilé dermatologico e nient’altro. Solo trapianti astratti, nel senso di estratti, prelevati. La forma finale probabilmente fa il verso al tubo-colonna stilitica Calabiyau, deposta come relitto criptozoologico al centro di Hoysteria, ma qui in un bouquet di possibili vesti: ora fetta di prosciutto, ora grasso impasto dolciario, ora tubo-gioco caleidoscopico, in cui la pelle si fa pizzo e merletto, soffietto, fisarmonica e mantice inorganico. Insomma un insaccato in-secto di sessi e goffaggini sessuali tutte da snidare e isolare da vicino.
Oscar Giaconia – Hoysteria
A cura di Sara Fumagalli, Valentina Gervasoni
GAMeC, Spazio Zero
17 gennaio – 24 febbraio 2019