ATP DIARY

Good Horn, Good Brakes, Good Luck

[nemus_slider id=”48065″] Testo e intervista di Giulia Morucchio Programma di ricerca Guwahati 2011-2015 Fino al 22 novembre è possibile visitare alla Serra dei Giardini di Venezia GOOD HORN, GOOD BRAKES, GOOD LUCK, mostra che presenta i lavori realizzati da un...

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Testo e intervista di Giulia Morucchio

Programma di ricerca Guwahati 2011-2015

Fino al 22 novembre è possibile visitare alla Serra dei Giardini di Venezia GOOD HORN, GOOD BRAKES, GOOD LUCK, mostra che presenta i lavori realizzati da un gruppo di artisti italiani nel corso di un programma di ricerca condotto tra il 2011 e il 2015 nella città di Guwahati, capitale della regione dell’Assam, India. La collettiva è curata da Paolo Rosso, direttore artistico del progetto Microclima, che dal 2010 ha iniziato a interessarsi alla metropoli indiana quale luogo in cui avviare iniziative culturali che interagissero con la realtà fortemente disorientante del posto. Un collegamento, quello tra la città lagunare e la metropoli del subcontinente indiano, nato a seguito dell’incontro del curatore italiano con i Desire Machine Collective, che proprio a Guwahati hanno inaugurato una piattaforma di riflessione di pratiche ibride, tra arte, scienza, tecnologia ed ecologia (Periferry). 

Le residenze promosse da Rosso a partire dall’inverno del 2013 si sono svolte al di fuori del sistema istituzionale dell’arte, e si sono basate sullo studio del contesto urbano di Guwahati, della sua area limitrofa e delle sue peculiarità culturali. 

Agli artisti invitati – Mario Ciaramitaro, Martino Genchi, William West e Alessandra Messali nella prima edizione, ai quali si sono aggiunti nel febbraio scorso Matteo Stocco, Matteo Primiterra e Riccardo Banfi – non è stato chiesto di sfruttare il tempo di permanenza per produrre dei lavori ad hoc, quanto piuttosto di utilizzarlo per promuovere iniziative e scambi culturali con la popolazione locale. 

Il primo intervento avviato sul territorio dal gruppo italiano è stato Guwahati Bamboo Walkway di Paolo Rosso e William West, ovvero la costruzione di un pontile di bambù sulla riva nord del fiume Brahmaputra, sponda opposta a quella in cui estende la città di Guwahati. In mostra, una timeline raffigura le fasi del progetto, dai primi sopralluoghi nel sito, alla costruzione della passerella, avvenuta con l’aiuto di manodopera indiana.

Alla Serra sono esposte anche due fotografie di Riccardo Banfi, tratte dalla serie I found myself in Guwahati, personale diario visivo dell’esperienza: in Ecofestival 01, l’artista prosegue la propria ricerca legata alla cultura musicale, fotografando una manifestazione in cui musicisti locali si sono esibiti in componimenti tradizionali o in cover di brani hip hop, mentre in Leopardo, lo scatto immortala un maestoso felino in gabbia. La doppia installazione video Shatalol di Matteo Primiterra e Matteo Stocco riflette invece su alcune delle contraddizioni della città, in cui gli abitanti vivono il tragico dualismo generato dallo sviluppo incontrollato, contrapposto alle antiche tradizioni profondamente radicate nella loro cultura. L’opera Il Bramino dell’Assam di Alessandra Messali è la traduzione in lingua assamese dell’omonimo testo scritto nel 1911 da Emilio Salgari, e ambientato a Guwahati al tempo in cui l’India era parte dell’impero britannico. Nonostante sia conosciuto per i suoi racconti di avventura, ambientati in paesi esotici, il celebre scrittore italiano non viaggiò mai fuori dal nostro paese, e per le sue storie trasse spunto e si documentò solo attraverso letture straniere, giornali, riviste di viaggio ed enciclopedie. Questa curiosità ha portato l’artista a lavorare a uno spettacolo teatrale da mettere in scena in India, nel quale verranno evidenziate le incongruenze presenti tra testo e contesto. L’opera di Mario Ciaramitaro, è invece un intervento narrativo nello spazio pubblico. Il testo “A strange darkness came upon the world today. Those who are most blind now see.”, presente in mostra sotto forma di banner che sovrasta la porta principale della Serra, è pensato per essere inserito nel contesto urbano come parte di una storia più grande, espansa e rivisitata dalle persone di passaggio. Nelle sue diverse forme, dagli adesivi ai manifesti stradali, il frammento viaggerà in diverse città, diventando un portale narrativo tra luoghi e persone.

TWISTEDWHER di Martino Genchi è la variazione di un comune oggetto di arredo stradale; l’installazione è accompagnata da un testo ispirato dalle incongruenze della città. In pochi minuti siamo sull’infernale tangenziale di Kokata. Un incredibile ammasso compatto e mobile di auto, bici, risciò, uomini e donne appiedati, camion, animali, autobus e motociclette. Ai lati della strada scorre di tutto, negozi, case in costruzione, campi circondati da immensi cartelloni pubblicitari, che si stendono per metri e metri in una luminosa linea continua. Piccole capanne con venditori, gente che si lava nelle pozzanghere, bambini, cani e motorette parcheggiate. In un punto enormi tubi giacciono da chissà quanto tempo ai piedi di alberi neri. Tutto questo scorre accanto a noi alternandosi in una composizione contorta per più di un’ora di lineare illogicità. Tutto è immerso nello smog e i fari delle auto si proiettano come misteriosi riflettori teatrali e drammatici, nel controluce interminabile di sagome fluttuanti.”

L’atmosfera paradossale di Guwahati, già ben sintetizzata nel titolo della mostra (un augurio che viene fatto a chiunque si metta in viaggio nelle caotiche strade del paese), si coglie anche in GHY, libro autoprodotto che raccoglie una serie di racconti di fantascienza scritti dagli artisti stessi e suggeriti dal contesto, surreale quanto distopico, della città indiana. 

Exhibition view  - Allestimento Good horn,   good brakes,   good luck - photo credits Riccardo Banfi
Exhibition view – Allestimento Good horn, good brakes, good luck – photo credits Riccardo Banfi

ATP ha intervistato il curatore Paolo Rosso:

ATP: Come è nato il tuo desiderio di coinvolgere un gruppo di artisti italiani in un progetto di residenza in India e, in particolare, cosa ti ha affascinato della citt à di Guwahati?

Paolo Rosso: L’idea di sviluppare un progetto artistico in India è nata dopo una prima visita nel paese nel 2010. Mi trovavo in un Ashram a Rishikesh ma avevo voglia di esplorare il subcontinente, così ho fatto un po’ di ricerca sugli artisti locali ed ho scoperto il lavoro dei Desire Machine Collective. Li ho contattati e sono stato invitato a far loro visita a Guwahati, una città di un milione di abitanti, nel nord est dell’India. Arrivato in Assam sono rimasto fortemente colpito dalla multietnicità e dalla multiculturalità della regione: tibetani, cinesi, indonesiani, indiani. Ho scoperto che storicamente questa terra era considerata la porta verso il sud est asiatico e che i mercanti da sempre attraversano questa parte di valle del Brahamputra. Non solo questa è una zona di confine, ma essendoci anche numerose aree tribali limitrofe è stata a lungo luogo di guerriglie e attentati per rivendicare l’indipendenza dei diversi territori.   Questi elementi mi hanno affascinato molto soprattutto perché ho ritrovato in questa terra emergenze e questioni che considero primarie anche a livello globale.

Nel corso della mia visita i Desire Machine Collective mi hanno rivelato che l’anno successivo avrebbero rappresentato l’India alla Biennale di Venezia, e li ho invitati a Microclima (il progetto artistico che porto avanti dal 2010 presso la Serra dei Giardini di Venezia) a presentare Periferry, delle residenze multidisciplinari che si svolgono a bordo di un traghetto dismesso attraccato a Guwahati. Questo incontro ha alimentato il dialogo fra le due realtà e nel novembre 2011 ho effettuato un nuovo sopralluogo in India.

ATP: Dopo alcuni sopralluoghi hai deciso di coinvolgere un gruppo di artisti italiani e di portarli con te in Assam. Come hai strutturato questi periodi di residenza e quali finalit à ti eri posto? Come sei riuscito a finanziare l’operazione?

PR: Ho deciso di lavorare con giovani artisti conosciuti a Venezia, persone a me vicine, che stimo umanamente. Mi risulta difficile separare il lavoro dagli individui che l’hanno generato. Per me era interessante che provassero un’esperienza di questo tipo: l’India può essere un luogo molto difficile da affrontare per chi è cresciuto in un contesto occidentale, perché mette alla prova su molti piani, non solo riguardo alla mancanza di comfort ma anche rispetto a una diversa percezione della vita e della morte. Ho chiesto agli artisti di rimanere per un periodo di 50 giorni, per esplorare il contesto urbano ma senza richiedere la produzione di un’opera come necessaria. Mi interessava più che altro che cogliessero delle suggestioni che potessero influenzare, senza scadenze tassative, la loro ricerca personale. Il progetto fin dall’inizio è stato autofinanziato utilizzando introiti che avevo guadagnato lavorando. Questo ha reso lo sforzo impegnativo, ma allo stesso tempo mi ha dato piena libertà d’azione rispetto ai limiti che il rapporto con un’istituzione avrebbe potuto creare.

ATP:Gli artisti che hai coinvolto nella residenza a Guwahati hanno potuto lavorare con molta libert à, senza alcun vincolo di produrre necessariamente dei risultati. Come hanno sfruttato la loro permanenza lì e come pensi che quel contesto e l’autonomia che hai lasciato loro abbiano influenzato il loro percorso artistico?

 PR: Ciascun artista ha avuto modo di ripensare a sé e alla propria ricerca in relazione alla realtà disorientante che lo circondava. Benché ciascuno di loro abbia sfruttato la permanenza a proprio modo, credo che il filo conduttore dell’esperienza sia stato il mettersi in gioco e cercare di decifrare le piccole cose, i piccoli dettagli della realtà.  Ho richiesto agli artisti di impegnarsi nel trovare un taglio critico rispetto a ciò che trovavano di fronte, ma non ho preteso la produzione di un lavoro. A mio parere l’obbligo di realizzare un’opera porta a voler trasformare un’esperienza in qualcosa di ineluttabilmente tangibile, e l’angoscia creativa spesso ha il sopravvento. Per non far cadere l’esperienza in una solitaria gita culturale, ho proposto però di condividere dei momenti in cui ognuno esponesse le proprie impressioni e opinioni. Penso che occasioni come questa possano portare più autonomia intellettuale, aiutando gli artisti a vedere il proprio lavoro in una prospettiva allargata. In altre parole il fine ultimo di queste residenze dovrebbe essere contaminare la realtà, non renderla strumentale ad un discorso artistico-intellettuale.

ATP: Un altro momento della residenza in India è il progetto di costruzione di una passerella in bambù a Nord Guwahati. Nel 2012 hai presentato alla Serra dei Giardini il libro Bamboo Walkway che vede tra gli altri, anche i contributi degli artisti Indrani Baruah ed Emilio Fantin mentre l’anno scorso la costruzione è stata finalmente iniziata grazie all’aiuto di maestranze locali. Puoi spiegarmi le fasi di questo progetto? Come hanno reagito gli abitanti della citt à alla vostra proposta di intervenire sul paesaggio con la costruzione di un pontile?

PR: Il Guwahati Bamboo Walkway, è stato un primo progetto realizzato da me e William West, uno scultore inglese che mi ha accompagnato durante il primo sopralluogo in India: pensando all’idea di realizzare delle residenze, questa iniziativa voleva avere la funzione di chiave d’accesso al contesto locale per gli altri artisti coinvolti.  Il nostro interesse per questa costruzione è iniziato dalla scoperta, sulla riva opposta del fiume Brahmaputra, del villaggio di Anandanager, una zona rurale con resti archeologici e natura florida. Quest’area è vista in modo molto negativo dagli abitanti di Guwahati che la considerano retrograda e povera.
Abbiamo pensato che sarebbe stato bello cambiare il punto di vista delle persone che la visitavano, e di farlo in modo letterale. Abbiamo allora deciso di costruire una passerella che servisse per arrivare all’attracco dei traghetti di North Guwahati passando per il villaggio, ma che principalmente funzionasse come mezzo per potenziare la vista del possente greto del fiume, offrendo un luogo di contemplazione che potesse ridefinire la visione stessa di Anandanager. La costruzione del pontile ha rappresentato per noi anche uno strumento per persone di culture diverse di condividere le rispettive differenze e di portare avanti la tradizione legata al bambù, un materiale unico: con il termine Guwahati Bamboo Walkway non intendiamo quindi solo la passerella vera e propria, ma tutti gli eventi culturali e sociali da essa innescati.  Abbiamo lavorato al progetto dal 2011 ad oggi, essenzialmente per non far piovere dal cielo un opera magari non voluta. Il rischio di porsi come dei colonizzatori culturali è sempre presente e forse, a certi livelli, inevitabile. In un contesto che ha delle necessità primarie, bisogni basilari e valori differenti dai nostri, è molto difficile intervenire senza esercitare una forma di violenza culturale, anche perché un occidentale spesso è visto come portatore di benessere materiale e difficilmente il suo operato viene criticato: in questo luogo vige un capitalismo non regolato quindi, in modo contrario a Cuba dove ho iniziato il mio ultimo progetto, tutto è concesso. Credo che sia in un ambiente come questo che si evidenziano i limiti di un intervento artistico connesso alla sfera pubblica e che i fallimenti siano sempre in agguato. Dopo i sopralluoghi e i primi riscontri che mostravano le persone ben disposte ad accoglierci, abbiamo dedicato un anno al parlare del nostro progetto a livello locale e regionale ed a raccogliere critiche, un ulteriore anno a una prima fase costruttiva con i giovani del villaggio e altrettanto tempo alla costruzione vera e propria con l’aiuto di artigiani provenienti da Majuli, la seconda isola fluviale al mondo, distante 300 km da Guwahati. Questo perché gli artigiani dell’isola, arrivando da tribù sempre costrette ad affrontare allagamenti, portano avanti una tecnica ormai persa in un contesto urbano. L’inserimento di elementi esterni al villaggio è stato quindi un ulteriore lavoro da negoziare e far accettare.

ATP: Questa operazione evidenzia un aspetto importante nella tua pratica curatoriale, quello di voler creare connessioni tra realt à eterogenee e spesso totalmente divergenti tra loro…

PR: Mi interessa avere un impatto positivo sulla realtà, pur sapendo che questo tipo di pratica rischia di far sfuggire di mano i propri propositi e coinvolgere la vita stessa. Negli ultimi giorni abbiamo ricevuto una notizia tragica che ci sta facendo pensare molto: il 31 agosto Ajoy Das, il miglior collaboratore del Bamboo Walkway, è scomparso nelle acque del Brahamaputra, che sta vivendo un’ondata di piena straordinaria. Nessuno l’ha visto fare il bagno, solo i suoi vestiti sono stati ritrovati.   Ajoy incarna lo spirito migliore dell’iniziativa. Ha dimostrato di avere un’energia e una purezza uniche, pur avendo solo 16 anni ha manifestato dedizione e serietà eccezionali.  La tragedia della sua scomparsa ci porta a mettere in discussione tutto il nostro intervento, la sua mancanza è incolmabile.

ATP: Dopo il completamento del Bamboo Walkway e la residenza di quest’anno come intendi proseguire questa esperienza?

PR: In questo momento abbiamo una prima mostra alla Serra dei Giardini, che considero però solo una tappa all’interno di un percorso che intende essere più lungo e articolato, e auspicherei riuscisse a generare anche progetti in loco o momenti di scambio culturale tra i due paesi. Credo che sia arrivato il momento di rendere ancor più salda la nostra ricerca sul territorio indiano: mi auguro che gli artisti precedentemente coinvolti vogliano tornare anche quest’anno in Assam per proseguire la loro ricerca, ma spero anche di essere in grado di coinvolgere nuove personalità in questa esperienza.

Alessandra Messali - Il bramino dell'assam
Alessandra Messali – Il bramino dell’assam
Rosso West - Bamboo still da video
Rosso West – Bamboo still da video
Matteo Primiterra - Matteo Stocco Shatalol video  stills (2015)
Matteo Primiterra – Matteo Stocco Shatalol video stills (2015)