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Giovanni Copelli e la semantica della pittura

Intervista di Sonia D’Alto — “Myth is the facts of the mind made manifest in a fiction of matter.”Maya Deren Un’intervista a Giovanni Copelli, di cui si è recentemente conclusa la  personale Amor Sacro, Union Pacific Gallery a Londra e di cui ha da pochi giorni riaperto la personale A Cavallo (Monumenti Equestri e Altre […]

Giovanni Copelli, A Cavallo (Monumenti Equesti e altre Pitture). Exhibition view, Operativa 2020
Giovanni Copelli, A Cavallo (Monumenti Equesti e altre Pitture). Exhibition view, Operativa 2020 Foto di Sebastiano Luciano

Intervista di Sonia D’Alto —

“Myth is the facts of the mind made manifest in a fiction of matter.”
Maya Deren

Un’intervista a Giovanni Copelli, di cui si è recentemente conclusa la  personale Amor Sacro, Union Pacific Gallery a Londra e di cui ha da pochi giorni riaperto la personale A Cavallo (Monumenti Equestri e Altre Pitture), a Operativa (Roma).  

Sonia D’Alto:. L’eros, l’erotico sono spesso presenti nel tuo lavoro. Penso in quanto energia per il cambiamento personale e sovrapersonale. Trascendenza dei corpi che è propria anche dell’iconografia cristiana del martirio. Penso a Martire, esposto nella mostra di Londra. Ci racconti di questo immaginario e di come si meticcia nella tua pittura?

Giovanni Copelli. L’eros per me è una materia prima da cui partire o un’energia, come la definisci, che è una definizione che mi piace molto. La mia lettura del mondo di immagini nel quale gravitiamo è filtrata da un profondo interesse per l’erotico. L’eros esprime la vita, l’attrazione irrazionale, il panico. Penso che sia proprio del gesto artistico trascendere il corpo, e con la pittura cerco di superare il corpo per arrivare a un’immagine che rivela qualcos’altro. Mi interessa molto l’iconografia del martirio cristiano perché nelle figure dell’ecce homo o di San Sebastiano, la sofferenza è indissolubilmente unita alla rappresentazione sensuale del corporeo e permette una proiezione erotica che si presta a equivoci che non ritrovo in nessun’altra tradizione artistica. Il senso di una mostra come Amor Sacro nasce da questo tipo di interesse: volevo trovare un modo di incanalare l’elemento erotico che caratterizza l’immaginario cattolico in una serie di quadri. Mi interessa molto il grado di importanza che viene attribuito nella cultura cattolica all’incarnazione come elemento mitologico che esprime il dio, qualcosa di ereditato dalla paganità, ma reso ancora più vivido dalla Chiesa. Il corpo nel pensiero cristiano è la prigione che separa l’uomo dal ricongiungimento con il divino ma è anche il mezzo attraverso cui avviene una redenzione personale. Nell’immaginario cattolico c’è questa visione del corpo come un luogo di perdizione, la cui materialità è da superare con atti di mortificazione, ma allo stesso tempo questa dimensione di conflitto non disconosce ma anzi rafforza l’idea che il corpo possiede una sua sacralità. Nel riconoscere che il corpo è un mezzo che viene agito dall’anima, si manifesta la possibilità di una scelta di condotta che può condurre alla santità, come è evidenziato dalla credenza dell’incorruttibilità dei corpi imbalsamati che ritroviamo nelle chiese, testimoni della santità delle anime che li abitavano. In molta arte questa attenzione per il corpo sacralizzato apre uno spiraglio di indagine omoerotica. L’elemento del martirio si è prestato naturalmente a rappresentare la condizione dell’omosessuale in conflitto con la propria identità, costretto a vivere in una dimensione di prigionia.  L’opera d’arte sacra cerca di redimere l’impudicizia dello sguardo, ribadendo la sacralità dell’oggetto del desiderio.
Laddove nell’arte romana la sessualità è oltremodo esplicita, avendo come protagonisti gli stessi dei, la dottrina cristiana ripudia questa divinità sessuata, pur fondandosi sul dogma di un dio incarnato. Nell’immaginario cattolico emergono cosi innumerevoli sensibilità che riportano il corpo all’eros e questa è la manifestazione di un fuoco della paganità che cova sotto la cenere, il germe di un possibile ricongiungimento del divino con la sessualità. Questi corpi sono legati, torturati, sanguinanti e trafitti di frecce. San Sebastiano è una fantasia erotica, l’espressione del desiderio di un sesso abitato da dinamiche di sottomissione e feticismo.

Giovanni Copelli, Monumento Equestre I, 200x140cm, olio su lino, 2019-2020. Foto di Sebastiano Luciano – exibition view, Operativa 2020
Giovanni Copelli, Monumento Equestre II, 200x140cm, olio e acrilico su lino, 2020. Foto di Sebastiano Luciano

S:D La tua è una pittura figurativa. Si avvale del meccanismo di ripetizione della storia dell’arte, del suo dispositivo ripetitivo e performativo. La messa in scena di una forma e di un contenuto. Nel tuo lavoro la forma non rende obsoleto il contenuto, ma nell’utilizzare una semanticità ondeggiante se ne riappropria per reincantare una narrazione. Forse è anche la forza del mito e degli anacronismi della storia dell’arte, che tu interpreti nel tuo lavoro..

GC: Credo che una forza propria della pittura figurativa sia quella di sfuggire continuamente a interpretazioni sulla letteralità delle immagini, la pittura non comunica a un livello narrativo. Io utilizzo quelli che possono essere interpretati come dei temi narrativi, la “storia di San Sebastiano”, ad esempio, ma che sono in realtà dei temi figurativi perché riguardano configurazioni di tipo estetico. Penso che la narrazione che scaturisce da un quadro è qualcosa di cui non ho controllo, perché nell’occhio dell’osservatore può tranquillamente risolversi nel contrario delle mie aspettative. Mi intriga la figurazione perché in essa si problematicizza il rapporto specificamente umano con le immagini. Come sai, diversi animali non si riconoscono allo specchio, laddove l’uomo che nello specchio vede un riflesso, è costretto a concedere a quel riflesso lo statuto di “immagine di qualcosa”. Così, le immagini che ritroviamo nei quadri figurativi, sono un riflesso della cosa rappresentata ma sono al tempo stesso una cosa nuova, una presenza. La potenza demiurgica del pittore che crea forme, non si limita all’illusione del rappresentare né all’illustrazione, rivelando semmai una nuova dimensione di esistenza. Occorre chiarirsi sullo statuto di ciò che tradizionalmente chiamiamo “contenuto”. Dal mio punto di vista, il concetto, nei termini della rappresentazione, coincide necessariamente con un carattere essenziale, potremmo dire un valore platonico, e che pertanto così inteso nei termini della tua domanda, coincide con un piano parallelo di esistenza innervato da un processo di trasmissioni di immagini prodotte dalle nostre coscienze.

SD: Entrambe le mostre, la personale di Roma e quella di Londra, presentano opere la cui narrazione figurativa attinge a un universo molteplice e dettagliato. L’ambiguità è forse uno dei suoi aspetti più interessanti in queste figurazioni. Sembrano racconti ammonitori, spesso incarnati da singoli personaggi, i quali svelano la coesistenza delle cose e le loro contraddizioni intrinseche, nel tempo e nello spazio. Sono narrazioni costruite con personaggi canonici dell’iconografia occidentale, che diventano quasi personaggi fantastici, ispessiti nella loro superficie mitica e incapaci ad aderire pienamente al tempo “presente”.

GC: Io effettivamente non penso al tempo cercando una collocazione passato/presente/ futuro. Il presente nel lavoro mi sfugge, perché realizzando oggetti mi trovo sempre a esaminare dei lasciti, delle cose che ho fatto nel passato, eppure guardando le mie opere mi rendo conto che in esse sopravvive un orizzonte di eventi indipendente dal mio, che poi è quello che succede quando guardo i quadri degli altri pittori.
Non penso che i quadri abbiano un tempo, perché nemmeno l’invecchiare della materia della pittura o il cambiare dello stile influiscono veramente nel rendere un’immagine obsoleta: la temporalità interna o essenziale degli eventi suscitati dalla rappresentazione non può che essere l’eternità del presente.  
Nelle civiltà antiche si dava un collegamento fra l’eternità e la dimensione temporale di cui le immagini si facevano carico, e questo perché fondamentalmente il tempo non era concepito secondo una temporalità lineare e progressiva. Oggi ogni immagine pone in sé un problema, perché il nostro tempo è come incrinato nel rapporto tra l’eternità e ciò che chiamiamo contemporaneo. Parliamo del nostro passato per mezzo di una disciplina, la storia, e viviamo un presente proiettato indefinitamente al futuro senza alcuna promessa escatologica. Io stesso mi chiedo cosa mi appartiene delle figure che rappresento, e di cosa in fondo sono costituite: di qui la loro ambiguità, credo, e il loro carattere ammonitorio.

Giovanni Copelli , Studio di testa, 40x50cm olio su lino, 2020. Foto di Sebastiano Luciano – Operativa Roma
Giovanni Copelli, A Cavallo (Monumenti Equesti e altre Pitture). Exhibition view, Operativa 2020

SD: Studio di Testa, MMXX, Trionfo, tra i quadri in mostra a Roma. Oltre a un’iconografia della storia dell’arte rimandano a un immaginario cinematografico. Penso al mondo variegato e ricchissimo delle scenografie di Fellini e delle mitologie di Pasolini, le innumerevoli storie che si intrecciano, i tempi che si sovrappongono. Una complessità grottesca e senza misura, che spesso si manifesta nel cortocircuito tra il familiare  e non familiare. Penso anche a un cinema a noi più vicino.Alle immagini equivoche e poetiche di Pietro Marcello, alla fabulazione dei film di Alice Rohrwacher. In questa ricchezza e varietas visiva, si inseriscono anche Monumento Equestre I e Monumento Equestre II. Ci racconti di queste due opere?

GC: Quando è nato il cinema, per la sua specifica natura di occhio robotico, ha portato allo sviluppo di un dibattito sulla sua natura di mezzo realista per eccellenza e ha aperto una finestra ulteriore nel cercare di capire cosa significa per gli artisti contattare la realtà. In questo dibattito si sono sovrapposte delle posizioni, penso a Brecht e Benjamin che hanno condotto a disconoscere una certa idea modernista di cinema verità e che hanno portato agli esiti che vediamo in autori come Pasolini, Godard, Fellini e oggi Pietro Marcello o Pedro Costa. Il realismo di questo tipo non intende il medium del cinema come un semplice specchio e anzi afferma che una realtà può essere toccata solo nell’azione di trasfigurazione dello sguardo dell’autore. Quello che mi lega a questi autori di cinema credo sia il ricercare un approccio che pone enfasi sul fatto che le immagini si filtrano attraverso l’espressione, la cultura e la sensibilità dell’autore, agendo anche attraverso pratiche sperimentali tese a far esplodere il senso di certe configurazioni estetiche, da qui ad esempio si spiega come mai si assiste in questo approccio a un dover rendere delle immagini così rielaborate e sovraccaricate: alle immagini viene affidato un contesto rituale. Se penso a Fellini o Pasolini, ai quali sono molto legato, penso che in essi si ritrovi la manifestazione di un’identità segnata dal rapporto con la stratificazione culturale tipicamente italiana. Io condivido con loro un mondo culturale, geografico, ed estetico, in cui risuona l’interesse per l’antico, la storia dell’arte e il folklore. La ricostruzione così trasfigurata della Roma antica di Fellini nel Satyricon credo sia una descrizione che si avvicina a una Roma “verosimile”. In questa rappresentazione, l’esperienza del presente che vive nella coscienza dell’autore viene proiettata sulle figure che provengono dal passato al fine di riattivarne una carica ancestrale.
Nella mia pittura cerco di arrivare a un risultato simile: non sono citazioni ma riattivazioni di figure ancestrali. I monumenti equestri che ho presentato a Roma riprendono molto esplicitamente quelli realizzati nel Quattrocento da Donatello o Paolo Uccello, che a loro volta si rifanno al modello romano. Le mie realizzazioni suggeriscono mimeticamente quelle immagini, ma non sono copie coerenti ma agiscono per mezzo dell’analogia. Si tratta di strutturare forme di origine eterogenea che si danno nell’incrocio tra la mia immaginazione e l’immaginario depositato nella tradizione iconografica nel contesto più ampio possibile. Penso all’artista come agente che dispone dell’immagine per riflettere su di sé e restituire un’immagine nella speranza di dire qualche cosa di reale. I quadri, quelli riusciti almeno, sono per come li intendo, immagini di immagini ed è proprio in questo che si rivela la loro necessità.

Giovanni Copelli, Autoritratto con camicia rossa, 50×60, olio su lino, 2020 – Amor Sacro, Exhibition view, Union Pacific, 2020
Giovanni Copelli, Amor Sacro, 60x80cm, olio su lino, 2020 – Amor Sacro, Exhibition view, Union Pacific, 2020