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Ogni giovedì a Villa Medici, l’ Accademia di Francia a Roma, c’è Questions d’art, una serie di appuntamenti dedicati alla creatività contemporanea. Il 31 marzo alle 19 è stata inaugurata l’installazione di Nico Vascellari, uno degli artisti invitati dal curatore Pier Paolo Pancotto. Sono state allestite tutte e due le sale del Padiglione di Ferdinando de’ Medici, costruito nel XVI secolo e decorato da Jacopo Zucchi. La più piccola, la Stanza dell’Aurora, ha un soffitto allegorico con vedute grottesche. Nella più grande, la Stanza degli Uccelli, è dipinto un pergolato di piante pieno di animali. Specie diverse mischiate insieme, un mondo edenico che diventa esso stesso fiore, reticolato a forma di camelia. Vascellari innesta le sue opere su questi rami dorati, animando le stanze con piccole sculture ferine, realizzate con la tecnica della fusione del bronzo. Sotto a una volta piena di topi estinti, cigni neri, ogni tipo di volatile, becchi legati, ruote di pavone, galli che beccano uva, regnano le sue statuette. Alcune sdraiate a terra, orizzontali, attorcigliate a rami unici, una sorta di spiedo, o delle fionde. Altre verticali, figure che sembrano animali assemblati, ruvidi, quasi mummificati, con bordi irregolari, come cotti, appoggiati su altri rami, sempre in bronzo. Una donnola-scoiattolo che potrebbe essere anche un gatto carbonizzato si arrampica su rami inesistenti, inceneriti. Le zampe posteriori poggiano salde sui rami, diventano rami, ma la trasformazione non è mai completa. Gli animali restano tali, la forma non è soppressa. È svilita, smagrita, quasi bruciacchiata, ma resta narrativa.
Le stanze antiche sono il luogo adatto ad accogliere la storia di queste figure che riprendono vita in un gioco fantasmatico, diventando racconto a più tempi. La forma dei cadaverini ossuti, infatti, è superata dalla fase successiva alla morte e alla decomposizione: quella degli spettri, delle ombre che si muovono in continuazione. Lo strumento che muove le sculture, che porta questi corpi a nuova vita è l’asta a T, una croce spezzata, una leva, una bacchetta magica. Due luci intermittenti, posizionate sulle estremità superiori della T, girano perfettamente bilanciate, hanno il potere di ridare vita all’ambiente. Le ombre si allungano da una parte e dall’altra e gli animali diventano quello che sono, fantasmi che dialogano con il giardino arcaico. Ogni scultura si muove in ogni direzione, con una lentezza peculiare. L’equilibrio delle luci unifica tutto, muove in blocco, come una danza di cui si conoscono bene i passi, ed è per questo che l’installazione di Vascellari non è inquietante ma commemorativa. Sono fantasmi di animali amici, casalinghi, demoni del focolare di cui si impara a conoscere l’andatura. “L’atto d’amore di ricordare un morto è l’atto d’amore più disinteressato, libero e fedele” scrive Kierkegaard.
Uccellini, gatti, cani, piccoli animali fusi insieme. Accompagnati dai loro versi, da una base sonora, intermittente anche questa. A volte li riusciamo a sentire, altre no, una polifonia di condensazioni: è il bello dell’apparizione. L’unico elemento di dissonanza, troppo umano e quindi straniante è la parte inferiore delle mura, coperta con drappi di tessuto persiano del Quattrocento: l’ermesino di Ormuz rende l’atmosfera mossa, radicale, aperta al futuro. Chiude il ballo delle ombre, sempre uguale, in circolo, e apre all’azione del tempo lineare. È come se spostando un po’ la seta leggera, dal colore dell’incarnato, potessimo davvero entrare nel giardino. E gli animali, invece, potessero uscire dallo stesso giardino che è proprio lì, al di là, e che ci separa.
Testo di Valeria Montebello