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E’ un viaggio immaginario quello che ci propone Gianni Caravaggio nella sua personale alla galleria kaufmann repetto di Milano. Citando il romanzo di Novalis, I discepoli di Sais – da qui il titolo della mostra Sais – l’artista struttura la mostra in quattro tappe (o interrogazioni) sul rapporto tra natura e l’uomo. Due le visioni che entrano in tensione, quella oggettiva, regolata dalle leggi scientifiche e quella soggettiva, dominata da una prospettiva poetica e arbitraria. Da questa dicotomia nascono quattro nuove sculture e una serie di disegni.
Segue l’intervista con l’artista —
ATP: Partiamo dalla suggestiva citazione, come incipit, per capire alcuni dei temi che tratti con la tua mostra. Citi Novalis, “I discepoli di Sais”. Cosa pensi dell’impenetrabilità – affine – tra la l’esistenza umana e la natura? Ci sono corrispondenze o analogie secondo il tuo punto di vista?
Gianni Caravaggio: La natura è un mistero per noi come noi siamo un mistero a noi stessi. L’analogia paradossale con la natura è la sensazione di tale mistero. Tale mistero ci da un senso di impenetrabilità se ne vogliamo indagare la causa o il suo carattere oggettivo, insomma, noi stessi ci rendiamo impenetrabili quando chiediamo spiegazioni senza valutare i nostri sentimenti, le nostre sensazioni e intuizioni che ci mettono in un dialogo più profondo rispetto ad un indagine fattuale. Credo che la nostra civiltà stia sopravvalutando la cultura dei fatti; mi viene in mente l’esempio dato da Wittgenstein nel Tractatus quando definisce l’io come un puntino su un cerchio molto ampio. Quello che è diventato irritante della circostanza attuale è l’impressione che la cultura dei fatti sia diventato motivo d’intrattenimento svuotato da qualsiasi potenziale d’interiorità. Come nel libro di Novalis anche la mia mostra è Sais, ovvero il luogo in cui oltre alla visione oggettiva e scientifica della natura si pone la domanda della sua esperienza estetica e sentimentale. Una rieducazione sentimentale dove il sentimento è una porta di accesso non un’espressione narcisistica.
ATP: Sembra che una possibile soluzione tra il mistero che lega l’uomo e la natura sia avverabile grazie al loro incontro nello spazio dell’immaginazione. Per essere concreti, come elabori, nelle tue opere, il colloquio tra l’uomo e la natura?
GC: Nello spazio dell’immaginazione si dissolve la differenza fattiva tra io e l’altro. Mentre nella cultura pragmatica dei fatti vi è necessaria tale distinzione per poter definire la distanza del soggetto che misura e manipola l’oggetto, nella spazio dell’immaginazione l’altro, la natura, viene incontro al io e riecheggia in lui mentre qualcosa dell’io riecheggia nella natura. Sono accenni e sensazione ad iniziare questo spazio che si svolge poi tutto nel pensiero e quindi continua a persistere oltre la presenza concreta dell’accenno, ovvero dell’opera. Non è tanto la fotografia di un paesaggio innevato come sua citazione figurativa che ne determina la sua immagine ma la memoria legata alla neve che la sta ricoprendo, le cose che si velano, il sole che la scioglie e la compatta e il paesaggio che nel tempo riappare sotto il velo e le mie sensazioni. Più che nella nostra cultura la neve ha formato molto sia l’immaginario poetico germanico sia quello nipponico. Il mio lavoro “il sole che avvolge un paesaggio innevato” da un lato evoca pittoricamente un paesaggio innevato dall’altro si sta formando e compattando scultoreamente attraverso il filo giallo che lo avvolge e che rappresenta il percorso del sole. Lo spazio dell’immagine consiste sopratutto anche già dai fenomeni che si sono poeticamente già depositate in noi prima di noi e ai quali reagiamo con un’inaspettata e sorprendente familiarità. Tale familiarità misteriosa scioglie quella sensazione di alienazione con il mondo che preoccupa le menti lucide dalla fine dell’800. Quella alienazione che è costituita da una chiara separazione tra soggetto e oggetto e che da un lato ha reso più efficace il pensiero scientifico ed economico ma dall’altro ha portato ad una crisi identitaria. Io sto insistendo sullo spazio della pura immaginazione dove l’oggetto se non è accenno evocativo e significativo non è nulla soprattutto non è un fatto e tantomeno un feticcio intrattenente.
ATP: “La visione che intendo presuppone uno sguardo naturalistico, ma ne va oltre. Essa costituisce una responsabilità ecologica ma non resta in superficie.” Mi racconti il nesso, se c’è, tra la tua ricerca e il problema odierno della poca sensibilità ecologica da parte dell’uomo contemporaneo?
GC: A mio avviso non basta stipulare un “contratto naturale” come sosteneva Michel Serres nel suo omonimo libro dove si include il terzo dimenticato, la natura, rispetto al “Contratto sociale” di Rousseau. Serres fa l’esempio della nave dove i marinai oltre a mettersi d’accordo tra di loro devono tenere conto anche del mare per non affogare. Alla luce odierna la necessità di una responsabilità ecologica per la sopravvivenza dell’essere umano su questo pianeta è diventato palese e quindi il pensiero di Michel Serres oggi si rivela più attuale che mai. Tale pensiero però è fondato su un carattere legislativo, contrattuale. In questo senso la natura è considerata contrattualmente perché conviene per un bene utilitaristico ma non per un senso di identità e di intima familiarità. Tale responsabilità contrattuale è una scelta pragmatica ma non considera il problema alla radice, ovvero il problema dell’alienazione. E se si ha in mente la riflessione di Hannah Arendt in cui è proprio l’alienazione dell’uomo da se stesso a portare al “la banalità del male” tutto ciò mostra una certa priorità. Fare attenzione alla natura, separare i rifiuti, ecc. è utile ed etico ma non risolve l’alienazione che ne sta alla base del problema perché non si espone rispetto all’intima connessione dell’identità tra uomo e natura. Senza esperire questa intima connessione tra uomo e natura e quindi dell’essere umano che scopre se stesso si genera una relazione utilitaristica con la natura sia per sfruttarla sia per proteggerla. Ho sempre avuto la sensazione che quando nell’arte degli ultimi decenni ma anche nella comprensione in generale si riflette sulla questione dell’identità era innegabile una certa impressione di narcisismo della misura umana. La differenza radicale vi si trova in un certo pensiero del romanticismo tedesco come quello di Novalis che ci porta a una definizione di natura come abisso incommensurabile in cui si definisce l’intima identità umana. Tale relazione si rivela come una relazione di umiltà meravigliata e di poesia. Penso che solo la relazione poetica possa risolvere l’alienazione umana. Noi siamo una sorta di paradosso; siamo la contemplazione più grande di noi. Nel “monaco sul mare” di C.D. Friedrich la natura è tanto più potente, dominante e quasi ostile, eppure il monaco sente in lei un’umile familiarità.
ATP: Sempre nel testo che accompagna la mostra, sembri ritrovarti nel pensiero di Novalis: “la natura come abisso incommensurabile in cui si definisce l’intima identità umana”. Hai vissuto personalmente un’esperienza di immersione-comprensione nella natura mediante “una relazione di umiltà meravigliata”?
GC: I miei lavori sono i frutti di tale relazione. Possono essere più o meno riusciti o suggestivi ma sono identici nel loro principio. Tale esperienza meravigliata però non è necessariamente un momento-evento spettacolare che ci travolge come spettatori ma è sopratutto costituito da momenti e osservazioni silenziosi che si depositano sensibilmente in noi e a volte affiorano anche solo dalla memoria per rivelarsi come un’esperienza essenziale.
ATP: In merito alle opere in mostra, mi racconti come nasce il lavoro “Fasi lunari che deviano lo spazio”?
GC: Questo lavoro come anche “Il sole che avvolge un paesaggio innevato” è una conseguenza naturale dell’opera “L’orizzonte si posa su una nuvola mentre il sole l’attraversa”. Esso nasce da una forma cilindrica che è tagliata in quattro spicchi differenti. Ogni spicchio è una fase lunare. In un certo senso è l’immagine del tempo. Per essere più preciso dovrei sottolineare che il concetto di immagine di per se è il tempo in atto in eterno. L’origine del tempo in senso mitico cosmogonico è rappresentato dalla divisione attuato dal taglio; Cronos taglia con la sua falce l’unita eterna formando l’ estensione temporale creando inizio e fine, cielo e terra. E così ho pensato anche a tagliare e suddividere le fasi lunari. Si può pensare anche all’origine del contare non come addizione ma come infinitesimale suddivisione di uno. I quattro spicchi che dispongo secondo il mio parere e la mia visione di quel determinato momento, deviano lo spazio che è rappresentato da un filo nero. Le fasi lunari deviano l’andamento rettilineo dello spazio in un percorso imprevisto. Quello che mi interessa particolarmente in questo lavoro è che la disposizione formale degli elementi sono delle gesta, si sente che sono stati disposti in questo o in quel modo e in questo senso sono significativi. Proprio per questo loro essere significativo che sfuggono dall’essere una cosa fissa nel presente per agire in un tempo di un futuro imminente del “sta per” come il “sta deviando” e in un passato appena accaduto del “è stato appena disposto” che insieme stanno accadendo in eterno. Ogni disposizione particolare evoca l’immagine di ogni possibile disposizione. Differente dalla successione del tempo cronologico, questo tempo dove tutto è uno, Plotino lo chiamava Aion – l’eternità. Detto ciò mi sono accorto che con questo lavoro stavo riguardando da vicino il mio lavoro “Giocami e giocami di nuovo” del 1996. Ora la differenza è un aumento del grado di soggettività che si esplica nella tensione tra il complemento linguistico (ovvero il titolo) e le gesti-forme che si uniscono sensibilmente nella pura immaginazione. In questo senso non ho tanto interesse per l’oggetto, l’objectum, che nella tautologia di se stesso sta tutto fuori dall’immaginazione.
Le fasi lunari, inoltre, sono una fusione in zinco. Lo zinco è un metallo che si usava nella preistoria per fare delle fusioni ma abbandonata nell’antichità per la sua scarsa lavorabilità. Questo destino non lo identifica come materiale scultorio classico e con la sua luce argento bluastro in un certo senso è fuori dal mondo come lo è la luna.
ATP: Nella scultura “Coppia con sentimenti antichi”, hai lavorato su concetti quali, dualità, unità originaria, infinito. Cosa racconta quest’opera di profondo?
GC: Questo lavoro semplicemente cerca di dare un’immagine del senso di coppia e in specifico del senso di sentirsi legati ad un altra persona. Cosa è una coppia? Cosa sente una coppia quando ha la coscienza di essere una coppia? E cosa significa avere la coscienza dell’essere coppia? Da una prospettiva odierna in cui il concetto di coppia è più un insieme labile ho pensato che il senso essenziale della coppia dovesse costituirsi in dei sentimenti antichi e originarie. In qualche modo si sente echeggiare l’esempio di Aristophane nel discorso sull’amore nel Simposio di Platone in cui egli immagina delle coppie a forma di sfere che godono già di perse di una felicità originaria. Ma per una disgrazia divina esse sono stati divisi e condannati ad ricercarsi per la sentita mancanza della parte ignota. Si rivela il problema di un dualismo anche nella più sentita unità. In concreto, le parti semi cilindriche di Coppia con sentimenti antichi si appoggiano di schiena, girati dopo una presunta divisione avvenuta in origine. Il taglio di filo di ferro avvenuto sull’argilla fresca testimonia questa divisione, ma con uno sguardo più attento i tagli non coincidono l’uno con l’altro e così anziché suggerire solo la figura circolare accenna il segno del infinito. Quella che lega questa coppia in modo profondo è da un lato una nostalgia dell’unità originaria divisa e al contempo dall’altro lato una melanconia creata dalla parte ignota e infinita. La dualità non indica solamente l’unità originaria ma anche l’infinito come parte ignota per cui l’altro rimane sempre un mistero. Tale coppia con sentimenti antichi non poteva essere che di terra che è il materiale di espressione scultorea più remota.
ATP: In mostra ci sono anche dei disegni, “Un altro giorno di pioggia”. Come nasce l’idea di associare una pozzanghera con il passare del tempo o metterla in dialogo con lo stato d’animo – probabilmente melanconico – associabile ad un giorno di pioggia?
GC: In questi disegni si coniugano due punti di vista ossia quello di un cielo evocato attraverso la libertà di segni spontanei di grafite o carboncino e la superficie di una pozzanghera, suggerita dai cerchi concentrici che si formano con le gocce di pioggia, sulla quale il cielo si specchia. Questi disegni coniugano anche l’ambiguità tra una semplice constatazione di fatto del sommarsi dei giorni di pioggia con lo stato d’animo che potrebbe esserne implicato. Nelle lingue italiana come in tutte le lingue romane, “tempo” denota il tempo cronologico ma anche il tempo meteorologico. La meteoropatia è lo stato d’animo legato alle condizioni del tempo, ovvero a qualcosa che viene dall’alto ed è più grande di noi.