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🔥 Fuoco incrociato: Stefano Arienti e Ludovico Orombelli

La rubrica Fuoco Incrociato è un'occasione di confronto e scambio in forma di conversazione tra coppie di artist_ di diverse generazioni che vivono e/o lavorano a Milano.

La scelta delle coppie segue affinità elettive come dialoghi già esistenti, anche tra artist_che hanno intercettato in anni diversi la traiettoria di Archivio Viafarini, il cui patrimonio di portfolio custodito alla Fabbrica del Vapore è stato recentemente digitalizzato nel portale viafariniarchive.org.
La rubrica è co-curata dal curatore di Viafarini Giulio Verago e dalla curatrice indipendente Elena Bray. Ogni uscita parte da uno studio visit e dall’invito a ciascun_ artist_ a scegliere un lavoro dell_ altr_, come pretesto in forma di conversation piece – l’occasione per un confronto orizzontale sull’approccio di ciascuno alla costruzione dell’immagine e sulle dinamiche di relazione tra gli artisti nella città, sullo sfondo del grande cambiamento attraversato da Milano negli ultimi anni.
Seguirà un momento di restituzione finale del progetto nello studio di Stefano Arienti con l_ artist_ coinvolt_ nella rubrica Fuoco incrociato.
 Questo primo dialogo è la trascrizione parziale di una conversazione che risale al 2021. Nel frattempo, la pratica artistica di Orombelli è mutata, e il suo interesse è slittato da un approccio iconografico all’immagine ad un approccio iconologico. Attualmente è studente alla École Cantonale d’Art de Lausanne in cui sta portando avanti una ricerca olistica in forma di archivio sulle strutture e le immagini archetipe presenti nella tradizione occidentale.

Giulio:La prima questione attraverso cui vorrei facilitare la conversazione riguarda la scelta di questi lavori. Partiamo da Ludovico, cosa vuoi condividere con noi del dialogo avvenuto in questi mesi tra te e Stefano e perché hai scelto proprio quest’opera?

Ludovico: All’inizio, prima di andare a trovare Stefano in studio, avevo pensato di portare i lavori con la cerniera o gli stropicciati. Alla fine ho optato per l’Einstein innanzitutto per la presenza di una immagine iconica e poi perché il modo in cui Stefano l’ha trattata – con delle semplici cancellature che rimuovono l’inchiostro facendo emergere il materiale alla base – avvicina alla sua comprensione delle immagini in un universo di tecniche, forme e materia. Ed è un aspetto in cui mi ritrovo molto.

Giulio: Sì, l’idea dell’intervento minimo che tra l’altro è anche al centro della tua ricerca. Vuoi dire tu Stefano sull’approccio di Ludovico in quest’opera che ti ha colpito?

Stefano: Ho scelto questo lavoro di Ludovico che rappresenta in modo molto aperto e dichiarato una figura – un orsetto – che compare su una specie di trapunta. Mi piace l’idea che questi lavori che spesso sembrano delle cose astratte in realtà portano una immagine molto concreta. Ha un bel colore ed è un’opera che è a metà strada fra pittura e scultura: c’è un’immagine che è il rilievo dell’oggetto su cui Ludovico ha fatto l’intervento pittorico. Un intervento che somiglia anche alle tecniche del restauro, un lavoro complesso di strappo della pellicola pittorica che viene stesa sull’oggetto stesso. Alla fine quindi questa pellicola colorata si trasforma in una specie di oggetto in più, che ha la sua qualità autonoma completamente lontana e indipendente dal materiale di partenza.

Ludovico: Sì, esattamente, la mia è una reinterpretazione della tecnica del restauro, degli strappi degli affreschi. In generale, la mia pratica riscopre tecniche del passato, legate ad una cultura umanista, e le utilizza come principi di costruzione. Il mio approccio all’immagine è diverso da quello di Stefano, anche se condividiamo un’attenzione verso gli oggetti, i volumi e le forme che appartengono alla quotidianità, all’immaginario collettivo e alla sua iconografia. 

Stefano: Il mio è un lavoro vecchio, del ’94, si tratta della ripetizione di quattro volte lo stesso poster, con una faccia di Albert Einstein molto malamente stampata. Questo in realtà è un ritratto molto famoso ed è stato spesso utilizzato. In questo caso il poster prima di essere montato su tela, è stato cancellato con delle gomme – delle gomme normalissime – e l’inchiostro di stampa, depositato sulla carta patinata, si può rimuovere anche completamente; quando invece è rimosso parzialmente si crea una sfumatura che ridisegna i contorni o parte dell’immagine. Quindi è una tecnica di disegno in negativo e che assomiglia in qualche modo alla scultura. Quest’opera fa parte di un ciclo più ampio di lavori con immagini di Albert Einstein presentato proprio qui nel ’94 e mi fa piacere che Ludovico l’abbia selezionata.

Elena: Quindi, sottolineando gli aspetti di tangenza del vostro lavoro, possiamo dire che entrambi lavorate con rappresentazioni appartenenti ad un immaginario collettivo ed entrambi lavorate con delle forme che si relazionano a dei volumi/dei supporti, producendo opere a metà strada tra pittura e scultura. E’ chiaro dunque Ludovico perché hai cercato questo confronto proprio con Stefano, ma ti andrebbe di raccontare com’è nato esattamente il dialogo tra voi?

Ludovico: Il dialogo con Stefano è nato molto naturalmente, è capitato che gli chiedessi se potevo portare dei lavori in studio per un’opinione e da un incontro è nato l’altro. Dai consigli sul mio lavoro, abbiamo ripercorso la storia di un Novecento tutta incentrata sugli oggetti e sulla questione della riproducibilità dell’immagine. Particolare attenzione è andata a chi ha riverificato la storia dell’arte all’interno del proprio contesto presente, come han fatto alcuni artisti della pop italiana e dell’arte povera (per citare due esempi, i dipinti imbottiti di Cesare Tacchi e i monocromi di Schifano).

Giulio: Allargando al di là del riferimento preciso a questo lavoro e questo incontro, qual è stato il processo di costruzione del vostro sguardo durante il percorso formativo? Per esempio Stefano nel costruire il tuo vocabolario espressivo, quali sono stati dei momenti importanti, visto che sei stato uno dei protagonisti nel 1985 della ormai storica collettiva all’ex fabbrica Brown Boveri di Milano. Un’esperienza fondativa per una certa visione della città ma anche di un approccio aperto, sperimentale e collettivo all’arte…

Stefano: Ho avuto la fortuna di venire in contatto con dei bravissimi artisti, che fossero miei coetanei o degli artisti più anziani. La compagnia degli artisti, avere degli artisti come interlocutori, è fondamentale per riuscire ad apprendere qualcosa dell’arte e riuscire ad avere il coraggio e la costanza di fare la propria proposta artistica. Da questo punto di vista sono stato eccezionalmente fortunato ad arrivare a Milano in quegli anni e ad avere la curiosità di dedicarmi a scoprire cosa potevo e sapevo fare, magari talenti che neanche pensavo di avere e che scoprivo insieme ad altre persone. Spesso erano artisti addirittura più giovani di me o con meno esperienza di me, ma questo non è importante; è molto più importante l’attitudine comune che si riesce ad avere e la capacità di aprirsi ad una interlocuzione senza diaframmi e gerarchie. Ho lavorato al fianco di Amedeo Martegani, di Massimo Kaufman,o anche persone che non erano artisti in quegli anni. Persone che avessero voglia di guardare quello che facevo e che mi davano dei consigli e potevo intuire dal loro sguardo quali erano le possibilità del mio lavoro. L’incontro con Corrado Levi è stato importante da questo punto di vista anche per la grande disponibilità e la grande semplicità con cui rendeva disponibile le cose che conosceva, in modo molto diretto senza un filtro. Per quanto riguarda la mia formazione, non è avvenuta specificatamente nel campo dell’arte, mi sono laureato in Agraria. Da questo punto di vista quindi sono arrivato all’arte adulto, già con una grande attitudine e personalità sviluppata. Ho portato dentro il mondo dell’arte una sensibilità che avevo sviluppato in altri campi, in particolare ero interessato alla musica di quegli anni, fine ’70 inizio ‘80, un versante della musica pop rock, che si relazionava e si faceva influenzare dalle arti visive. Questo interesse mi ha dato la disposizione per avvicinarmi alle arti visive e da lì ho capito che la cultura è un reticolo, che bisogna cercare di raccogliere influenze che arrivano da tante direzioni, da tante discipline differenti.

Giulio: Invece, Ludovico, nel tuo caso la tua formazione è stata un’altra, ti sei perfezionato all’estero, sei stato nel Regno Unito e poi sei tornato in Italia. Vuoi anche tu condividere una panoramica sulla tua formazione? E come ti approcci alla costruzione collettiva di un processo di significato?

Ludovico: Ho frequentato il liceo classico a Milano, dopodiché mi sono spostato in Inghilterra per studiare alla Arts University Bournemouth dove ho ricercato un metodo che mettesse assieme ricerca teorica e sperimentazione pratica. In questo contesto – guidato dalla volontà di immergermi nella storia della cultura visuale a cui sono legato – mi sono avvicinato alla tradizione rinascimentale italiana. Quando ho terminato la triennale, per diverse ragioni, sono tornato in Italia e ho scoperto Milano e il suo sistema artistico. Sicuramente anche nel mio percorso è stato molto importante cercare spazi di condivisione e studi all’interno del quale si riesce a dialogare apertamente; anche per entrare in contatto, condivido con Stefano, con pratiche diverse dalla propria. Io mi reputo un pittore, però mi sono sempre confrontato con artisti che hanno punti di vista diversi dal mio e che magari utilizzano anche altri mezzi per esprimersi come la scultura, che ovviamente ha influenzato molto il mio lavoro, ma anche il suono e la performance. Ho trovato un’affinità che non riguarda tanto l’estetica del lavoro quanto la gestione della pratica.

Giulio: Che è anche il motivo per cui forse hai cercato questo dialogo proprio con Stefano. Stefano che cosa pensi dell’evoluzione del sistema dell’arte, visto che sei un testimone prezioso della storia di questa città. Quali sono, secondo te, le occasioni mancate e cosa invece dovremmo recuperare, di cosa dovremmo andare orgogliosi, rispetto a non solo una lettura critica, ma per una volta anche una lettura dei punti di forza di chi ha deciso di formarsi e di fare carriera qui nel nostro paese?

Stefano: l’Italia ha una tradizione culturale molto forte rispetto alle arti visive, da questo punto di vista è un territorio che ha grande vivacità. Un’altra caratteristica interessante del territorio italiano è che è policentrico, non c’è un centro solo in cui si accentra tutta la vita culturale, ma sia la produzione che il consumo avviene su tutto il territorio. Che non è provincialismo. Ecco questa è una caratteristica tipica del nostro territorio, era già così più di trent’anni fa quando io ho iniziato; la differenza grande è che all’epoca non esistevano le istituzioni che abbiamo adesso, c’ è stato un grande svecchiamento del mondo delle arti visive che allora era un po’ irregolare e in qualche modo marginale. Purtroppo manca una parte istituzionale soprattutto pubblica sulle collezioni, questo è un grandissimo punto di debolezza dell’Italia che non ha saputo costruire delle grandi collezioni pubbliche che raccontino e raccolgano quello che è stato fatto negli ultimi decenni. C’è una grande frammentarietà, è tutto molto acquoso, è difficile andare a documentarsi su quella che è l’esperienza recente. Mentre magari siamo più forniti su quello che è stato l’esperienza artistiche del primo 900, soprattutto per quanto riguarda quello che è successo negli ultimi cinquanta o sessant’anni è tutto molto frammentato…

Studio di Ludovico Orombelli a Viafarini.work, Corvetto

Giulio: E che cosa ti ha convinto a scegliere di restare in questa città, cosa di quegli anni ti ha ti ha ispirato, per esempio anche rispetto ai riti e alla socialità a Milano. Non parlo dell’evento, ma di cosa si situava tra un momento espositivo e l’altro.

Stefano: Io sono nato in provincia di Mantova, mi sono spostato dalla campagna alla città, sono venuto qua per studiare Agraria e mi sono fermato. Milano allora era una città più brutta e meno comoda di altre, ma ha avuto la possibilità di offrire qualche cosa in più alle persone giovani che venivano qui e che avevano la capacità di adattarsi. E non riguarda soltanto le arti visive, ma anche il mondo della pubblicità, del design, della moda, dell’architettura, insomma delle industrie culturali che sono qui cresciute tutte in pochissimi anni, e che crescevano già allora. E’ un po’ un peccato che per esempio non esistano in questa città grandi istituzioni pubbliche che raccolgono questa varietà di propositi culturali e di produzione. Forse l’alibi di avere una istituzione come la Triennale e avere ottime istituzioni private ha tolto alla città e al comune la responsabilità di darci invece strutture stabili, che possono testimoniare quello che è la tradizione culturale. Io ho grande affetto per Milano e mi considero milanese. Milano è una città con delle grandissime lacune, però le vedo come delle possibilità per il futuro di migliorarci e una ragione per continuare a stare qui con la volontà di fare ancora tante cose. Molti artisti incredibili, bravissimi, internazionali, sono andati nel mondo ma si sono formati qua; non è un caso che Rudolf Stingel o Maurizio Cattelan hanno passato degli anni in questa città, la loro presenza era importante. Anche Vanessa Beecroft o Francesco Vezzoli, per citarne degli altri. E’ anche bello che questi artisti vadano e vengano, evidentemente questo rapporto di affezione con questo luogo è possibile, è positivo e secondo me derivante dal fatto che qui non c’è solo l’arte, non c’è soltanto il soldo, ma tante altre cose interessanti. Noto che Milano nel corso del tempo è diventata un piccolo luogo dentro un territorio molto più ampio, che è quello della pianura, che oramai è una grande città diffusa. Ecco da questo punto di vista Milano dovrebbe ricordarsi che fa parte di un territorio più ampio e deve dialogare di più con le città intorno, con il deposito culturale.

Elena: Vorresti anche tu, Ludovico, condividere qualcosa del tuo rapporto con Milano e il suo sistema artistico; che distanza vedi rispetto a esperienze come quelle che ha descritto Stefano?

Ludovico: Condivido con Stefano l’idea che Milano sia un ottimo luogo in cui formarsi. Qui c’è una dimensione umana e intima, ma allo stesso tempo accadono tante cose. Ovviamente non quanto ne accadano a Londra, che però alla fine rischia di essere disorientante. A Milano è facile incontrare persone dedite alla propria pratica con cui condividere un percorso. Ho sempre ricercato una risposta collettiva da cui non sono mai stato deluso. Qui ci sono diversi mezzi che permettono agli artisti di affrontare il periodo di transizione dalla fine degli studi al momento di professionalizzazione. Io, ad esempio, sono tornato in Italia proprio perché ho trovato spazi e realtà in cui continuare a fare ricerca, come la residenza di Viafarini, dove ho trascorso un intero anno.

Giulio: Sì, infatti questo è il momento nel quale il supporto della città e del sistema dell’arte può fare veramente la differenza, proprio in quel passaggio che permette di chiarire non solo l’approccio rispetto al proprio lavoro ma anche agli obiettivi che ci si dà e il fatto che la città riesca a rispondere o meno a questo. C’è la percezione – penso sia condivisa – del ritorno di tante figure, che magari si sono formate all’estero. Per esempio giovani curatori che aprono nuovi spazi, che creano nuove iniziative. A volte sono nate e nascono per essere magari effimere, però anche in questo essere effimere c’è un valore.

Ludovico: Gli studi d’artista, gli artist-run space o gli spazi indipendenti aiutano l’artista ad esprimersi liberamente e senza vincoli dopo gli studi, che è una cosa molto importante, anche se poi c’è la percezione di un sistema più grande a far da sfondo che sembra imporre percorsi da seguire, oltre che di una velocità da sostenere che non consente agli artisti di ragionare lucidamente.

Giulio: Mi puoi fare un esempio di questo senso di minaccia immediato?

Ludovico: Sembra tutto molto confezionato, anche la relazione che c’è tra gli artisti e gli altri attori del sistema. Il rapporto passa spesso attraverso il digitale, delle prassi preimpostate, come strutturare in una certa maniera il curriculum, il portfolio… Poi sta a noi artisti riuscire a svincolarci dalle situazioni e sostenere una pratica che deve essere consistente e non guidata da strategie.

Elena: Concluderei questa intervista chiedendo a te, Stefano, che cosa pensi di ciò che ha appena condiviso Ludovico, visto che ti sei trovato dall’altra parte, hai avuto esperienze di docenza, dalle quali ti sei però ad un certo punto anche allontanato.

Stefano: Credo che la cornice istituzionale spesso protegga gli insegnanti e non gli studenti. C’è una dimensione di consumo anche in questo senso, che è la stessa forma di consumo che avviene nel consumo artistico. C’è la costruzione dei nuovi artisti che devono produrre della nuova arte che va consumata, e quindi c’è anche la costruzione delle scuole che servono per produrre questi nuovi artisti. Questa latente forma di omologazione è l’elemento che mi ha allontanato dall’insegnamento. Anche perché magari adesso diventa più utile costruirsi un percorso interdisciplinare, che non è soltanto quello professionale all’interno del mondo delle arti visive, ma professioni aperte e possibili che sono disposte su ambiti disciplinari anche paralleli. Per me è stimolante pensare che ci sono figure di artisti del passato o viventi che hanno questa facilità di lavoro su ambiti diversi e magari riescono a percorrere più professioni (come Bruno Munari o Corrado Levi anche se per lungo tempo sono stati penalizzati per il fatto di essere figure non incasellabili). Io sono riuscito a imparare una prima professione scoprendomi artista professionista tra la fine degli anni ‘80 e inizi ‘90, quando ho aperto la prima partita iva come artista visivo, vendendo le mie opere al collezionismo privato, che mi aveva individuato come possibile artista. E ho accettato questa investitura. Però ho anche accettato l’investitura di docente, io che non avevo fatto nessuno studio artistico. E come ho accettato questa seconda investitura, ho accettato anche la terza che è la possibilità di lavorare su progetti speciali, lavori su committenza, dove non lavoro da solo e sono in parallelo con altre persone che lavorano in altri ambiti. È una professione che avviene con l’intersezione di altre discipline, che hanno un’altra economia, un altro sistema. Si paga forse un po’ lo scotto di rimanere delle figure intermedie, guardate con sospetto, però con una maggiore libertà. Io questa libertà me la sono presa e la consiglio.

Studio di Stefano Arienti, Lambrate