ATP DIARY

🔥 Fuoco incrociato: Gianluca Brando e Gianni Caravaggio 

La rubrica Fuoco Incrociato è un'occasione di confronto e scambio in forma di conversazione tra coppie di artist_ di diverse generazioni che vivono e/o lavorano a Milano.

La scelta delle coppie segue affinità elettive come dialoghi già esistenti, anche tra artist_che hanno intercettato in anni diversi la traiettoria di Archivio Viafarini, il cui patrimonio di portfolio custodito alla Fabbrica del Vapore è stato recentemente digitalizzato nel portale viafariniarchive.org.
La rubrica Fuoco Incrociato è co-curata dal curatore di Viafarini Giulio Verago e dalla curatrice indipendente Elena Bray. Ogni uscita parte da uno studio visit e dall’invito a ciascun_ artist_ a scegliere un lavoro dell_ altr_, come pretesto in forma di conversation piece – l’occasione per un confronto orizzontale sull’approccio di ciascuno alla costruzione dell’immagine e sulle dinamiche di relazione tra gli artisti nella città, sullo sfondo del grande cambiamento attraversato da Milano negli ultimi anni.

Gianluca: Conosco Gianni ormai da diversi anni, e avevo già una certa familiarità con il suo lavoro ancora prima di trasferirmi a Milano, dove l’ho visto esposto, ad esempio, da Kaufmann-Repetto. Ho però avuto modo di approfondire davvero la sua ricerca in occasione della mostra curata da Elena Volpato nel 2023 alla GAM di Torino. L’ho visitata insieme a lui, e in quell’occasione ho potuto cogliere non solo la profondità poetica del suo lavoro, ma anche la sua generosità umana. Tra i tanti lavori esposti, uno che mi ha colpito in particolare è stato Alla luce del sole, in relazione a Quando nessuno mi vede. C’era un dialogo tra due elementi speculari, un rimando da una dimensione all’altra, da un “qui” a un “là”, tra una presenza e una distanza – una dinamica che sento molto vicina anche al mio modo di lavorare. In fondo credo che proprio questa tensione tra polarità sia il cuore stesso della scultura

Elena: Ti riferisci anche alla tecnica? Al lavorare con i calchi, al passaggio tra positivo e negativo…?

Gianluca: Sì, certo, c’è anche quell’aspetto concreto, tecnico-processuale… ma non è solo quello. C’è un livello più sottile, quasi simbolico, che per me è davvero centrale. È una delle cose che più mi affascina dello “stare” dentro la scultura, del pensarla e del farla. Ti ritrovi sempre a confrontarti con una doppiezza, con una coesistenza di opposti. Mi piace pensare – e lo penso fin dall’inizio della mia pratica – che in questi passaggi tra un lato e l’altro, tra pieni e vuoti, si nascondano significati più profondi. E questo è esattamente ciò che mi ha colpito di quelle due opere di Gianni: quella tensione tra i due elementi, che crea uno spazio sia fisico che mentale da attraversare. Sono due polarità, tra ciò che si vede e ciò che rimane invisibile.
E anche i titoli, così evocativi, fanno parte di questa costruzione poetica. Accompagnano il lavoro, ma lasciano sempre uno spazio aperto, in cui lo spettatore può ritrovarsi, sentirsi parte di qualcosa di più grande di sé. Mi sembra che siano tutti elementi che, in generale, identificano molto il lavoro di Gianni

Gianni: Sì, non è mai l’oggetto in sé, la foglia di marmo verde è esposta sotto una luce intensa sia essa naturale che artificiale. Quel verde Guatemala del marmo quasi chiama di essere realizzato in foglia, come se in origine quel verde fosse foglia o foresta. E ho fatto una foglia – non realistica ma stilizzata per suggerirla. Quando la foglia è vista di notte o nell’ombra, quando è buio, la stessa sostanza della foglia cambia ed è quella realizzata in marmo nero Marquina. Le due foglie si richiamano in modo speculare nello spazio come due possibilità parallele connesse nella memoria di chi le fruisce.  Ma accanto alla dimensione scultorea e mentale c’è in realtà una dimensione percettiva quasi pittorica. Sotto l’ombra le cose appaiono più buie e la foglia in marmo nero Marquina incarna il buio.  

Elena: Che per altro mi sembra un tema ricorrente nel tuo lavoro quello tra oggetto e sfondo. Stavo pensando anche a quel lavoro in marmo bianco e nero Via dalla luce mia, questa parte del masso che quando è messa in ombra corrisponde totalmente allo sfondo e quindi si tinge di nero come l’ombra che l’attraversa

Gianni: Questo lavoro si muove nella scoperta di quella percezione. Gioca su quel limite, quel momento in cui scopri una cosa quotidiana come se fosse per la prima volta, perché l’ombra è quotidiana.

Elena: Questo mi riporta ad una cosa di cui parlavamo, ovvero secondo me entrambi avete questo rapporto di attrazione verso un materiale, il fatto che un materiale abbia un richiamo per le sue componenti estetiche. Quindi mi sembra che l’idea sia, provando a semplificare: decidi di fare una cosa, decidi che quella cosa abbia quell’effetto lì perché deve innescare nel fruitore quel tipo di sensazione tattile, che poi quella resa lì te la dia l’allumino o l’acciaio, o te la dia una lega mixata, l’importante è trovare quel materiale che arrivi a esprimere quella cosa che avevi in mente e che innesca quella sensazione 

Gianni: La questione è diversa – io non decido, non c’è questa decisione a priori. Nel mio caso non è così, anche perché esistono tanti materiali che potrei scegliere a priori. La domanda è perché qualcuno inizia a fare qualcosa con un determinato materiale. In quel momento non è nemmeno più un materiale ma diventa idea. La sensazione che un pezzo di alabastro bianco possa sembrare nebbia o ghiaccio…ecco l’artista è quello che fa caso a queste sensazioni intuitive, viene perseguitato e dà forma a queste intuizioni. Quando uso il verde Guatemala è per dare quella sensazione che quel materiale mi ha dato, ovvero di un bosco nordico, di una foglia, e collabora a richiamare nella memoria l’esperienza della prima neve, quando si posa sugli alberi e piega i rami per il suo peso. La parte del cilindro in cui c’è lo zucchero a velo è come se fosse deformata a forma di ovale, come se quel peso irrisorio della nevicata di zucchero l’avesse deformata, invece nella parte in cui non c’è rimane circolare. Sono immagini molto sensibili. Da questo poi nasce un pensiero mentale, perché evoca una memoria naturale. E’ l’evocazione che è importante

Giulio: Vuoi invece adesso indicare tu un’opera? Siamo nel luogo giusto direi…
Gianni: Questa, Terra-lampo, che ha delle lumache sul tetto, che però sembrano anche delle gocce d’acqua, delle gocce di pioggia. E’ organizzato in modo che la lumaca non è solo una lumaca sul tetto. Ma anche il tetto, in questa forma di costruzione rudimentale sembra una tomba. Quello che mi intriga è l’ambivalenza, che è presente anche nella lingua italiana, in cui il tempo meteorologico [rappresentato dal lampo e dalla pioggia] e il tempo – quello che scorre – [rappresentato qui dalla tomba] si chiamano nello stesso modo.

Gianluca Brando, Terra-lampo, 2023, gesso rinforzato, sabbia, bronzo e ottone a cera persa di gusci di lumaca, bagno galvanico in oro, 118x90x95 cm
Gianluca Brando, Terra-lampo, 2023 (dettaglio)

Giulio: Qual è il valore che date all’immagine? Perché entrambi nel vostro lavoro fate un uso ricorrente di alcune immagini – come per Gianni la sfera e la foglia mentre per Gianluca la tegola e la lumaca

Gianluca: Rispondo e mi ricollego anche a quello che si diceva prima sulla materia e sulla forma. Se penso al mio modo di lavorare, direi che parto sempre da una forma-immagine preesistente, qualcosa che esiste già, che fa parte di una mia esperienza concreta. Poi arriva il momento della scelta delle soluzioni formali, quelle che per me risultano più efficaci. In altre parole, parto da qualcosa di “reale”, di tangibile, e da lì inizia il processo. Per esempio, l’immagine di ammassi di tegole lasciate negli angoli di giardini incolti, è un’immagine-simbolo, ma anche un’esperienza, che definirei tipicamente meridionale. La tegola è un simbolo dell’abitare, della casa: rappresenta l’essenza stessa del tetto, è l’elemento minimo che costituisce il riparo. Sono affascinato da questa forma, così semplice (minimalista ante litteram), ma al tempo stesso così potente, arcaica e contemporanea. Una forma in cui ritorna il tema delle polarità. La tegola infatti è sia concava che convessa; è una forma che si può ribaltare, ed è proprio questa sua ambivalenza che la rende vitale. Infatti la elaboro spesso anche come forma contenitrice, come una sorta di vasca d’acqua nera che riflette lo spazio circostante, o il cielo
Pensare che la tegola sia una forma che, nei millenni, praticamente non è cambiata, invita a fare diverse riflessioni… In Terra-Lampo, come giustamente diceva Gianni, c’è una dualità: da un lato la struttura di un tetto, quindi uno spazio vitale, dall’altro quella di un tumulo, quindi uno spazio destinato ad accogliere il corpo senza vita. E le superfici sono tutte di sabbia, come sinonimo di aridità. Se c’è qualcosa che ci distingue dagli altri esseri viventi è proprio la capacità di costruire oggetti distaccati dal nostro corpo. In questo senso la casa è l’emblema del costruire, un impulso tale da proiettarci rapidamente in scenari inabitabili, inospitali – aridi appunto. Nel regno animale invece, i molluschi dotati di conchiglia sono veramente l’antitesi di tutto questo, nella lumaca, infatti, corpo e casa sono un tutt’uno inseparabile, perfettamente equilibrato. Se ci pensiamo bene è davvero qualcosa di sorprendente. Le lumache sono un condensato perfetto di ciò che dimentichiamo, del tempo, del microcosmo, della preziosità della natura intorno a noi…Ovviamente tutte queste riflessioni si sviluppano nel tempo, all’inizio c’è un’immagine che ti rapisce, qualcosa che ti attrae e che diventa intuizione per un lavoro, come quella volta in cui, in una sera piovosa, ho visto le lumache salire sui muri della mia casa natale. Poi arrivano riflessioni e scoperte teoriche o letterarie, per esempio nelle Cosmicomiche, Calvino ha dedicato tanto spazio alla “costruzione della conchiglia”: sono pagine davvero belle. 

Gianluca Brando, Onda, 2024, ceramica smaltata, acqua, tegole dismesse, 240 x 33 x 280 cm

Gianni: A me interessa condensare delle immagini prime, per rendere possibile un’esperienza anche sentimentale in chi guarda. Le immagini prime sono immagini già persistenti nell’essere umano e il lavoro visibile evoca e inizia l’immaginazione della parte invisibile delle immagini prime in noi, la maggior parte del mio lavoro è invisibile rispetto alla parte visibile; per esempio  Un polpo e un calamaro che si allontanano per incontrarsi dall’altra parte del globo, trascendono lo spazio architettonico circostante per il loro viaggio immaginari attorno al globo terrestre ma il loro percorso ha bisogno di essere performato nell’immaginazione di chi guarda. Nelle forme che faccio cerco di isolare il peso sensibile di un’esperienza e non credo che questo si possa fare in modo fotografico, ovvero documentando una nevicata per esempio, ma isolando quello che io ritengo l’essenza di quell’esperienza. Nella fruizione si potrebbe non cogliere l’immagine del bosco in Prima neve, però molto in quel lavoro indica evocativamente in quella direzione, c’è una libertà di fruizione in cui lo spazio dell’incertezza è naturalmente incluso, non vi è una garanzia assoluta per una sensazione e per una immaginazione, lo spazio dell’incerto uno spazio che include e lo spazio in cui l’immagine potrebbe fallire ma è questo che lo rende vitale. Il fruitore è chiamato a performare l’immagine come immaginazione nella propria memoria. Io trovo sempre meno disponibilità e forse capacità di coltivare qualcosa nella mente, continuarla nella mente. In Forme-forze di una bottiglia di Boccioni (1913), se non continui le linee di forza nello spazio, non si riesce ad entrare nell’opera e percepire il senso, è una opera che deve esser performata da chi guarda per essere esperita.

Gianni Caravaggio, Prima neve, 2021 guatemalan green marble, icing sugar, 110 x 21 x 21 cm
Gianni Caravaggio, Un polpo e un calamaro che si allontanano per incontrarsi dall’altra parte del globo, 2013-2018 white bronze, 8,9 x 52,1 x 11 cm / 7 x 38 x 15,2 cm

Elena: E cosa ne pensi di come è mutato il modo di narrare dei musei? Perché credo che adesso la tendenza sia quella di semplificare le narrazioni, ridurle a qualcosa di molto descrittivo per avvicinarsi ai diversi pubblici, ed è un proposito positivo, ma che lascia forse poco spazio all’immaginazione. Però togliere questa profondità forse è qualcosa che si scambia per riuscire davvero ad avere un impatto

Gianni: Il problema oggi nella domanda “Che cosa sia il pubblico?”  è che si sia creata una sorta di generalizzazione di aspettative come succede in una indagine di mercato per fare si che si vada incontro a quello che il pubblico sappia già. Dall’altro canto però ci si può chiedere, qual sia il compito dell’arte? Se l’arte illustra ciò che per il pubblico è di facile accesso nel senso di familiare accesso il ruolo dell’arte è rilegato a un compito intrattenente, e senza sostanza vitale in termini esistenziali. Questa cosa di semplificare per il pubblico è una problematica diffusa sia nel mondo della cultura e nell’arte in particolare e non ha un riscontro con la realtà in cui noi affrontiamo una vera relazione con le cose. E allora sì, sarebbe giusto tirare in ballo Heidegger perché, quando usa la parola Ereignis, che significa “evento” in tedesco, ed è costituito dalla parola “eigen” che in italiano significa “quello che ci appartiene”, sta spiegando qualcosa di esistenzialmente estremamente profondo, perché parla di qualcosa che ci appartiene ma non lo spercepiamo (più). A mio parere è questo il pensiero base che si dovrebbe avere considerando il pubblico, sennò l’arte e fare l’artista viene ridotto a fare il pagliaccio, è ricalcare e provocare degli stereotipi. La stessa “arte politica” in questo senso in realtà è solo didascalia della cronaca. E sempre citando dei filosofi, Hannah Arendt, ci spiega in modo illuminante che il totalitarismo è dietro l’angolo quando le persone non riflettono più, quando non si è più capace di pensare, quando non si è più capace di immaginare. Il “Quadrato nero su sfondo bianco” di Malevič (1915) è stato censuato non perché ci fosse scritto “Stalin merda!”, ma perché se quell’opera la guardi bene il quadrato ha un lato un po’ più alto e non capisci se questa percezione sia un errore o intenzionale rispetto alla dichiarazione nel titolo dell’opera: si crea dunque uno stato di tensione dialettica. Quindi è stato censurato perché si è capito che poteva innescare riflessioni imprevedibili in qui lo fruiva.

Elena: Io penso che nella generazione di Gianni si abbia un modo di fare arte che interroga ancora la potenzialità del linguaggio e non muova da codici già consolidati, come se si cercasse ancora l’essenza e la radice del gesto artistico. Che è un punto un po’ distante da quello che c’è oggi mi sembra, che mira piuttosto a decostruire dei codici senza però chiedersi come crearli da zero. Questo discorso è uscito per esempio nella scorsa intervista con Marcello Maloberti, quando lui parla della parola, di cui non ne fa un uso comunicativo o informativo o esplicativo. E’ più performativo. Forse dietro c’è una radice più concettuale

Gianni: Ma che tipologia di concettuale con esattezza? Per esempio Mettere al mondo il mondo è quella frase che è bellina sì, ma in realtà quando vedi l’arazzo di Boetti questa frase deve esser performata per conquistarla e quindi assume senso profondo in questa fruizione performata. Dall’altro conto le frasi di Marcello mi ricordano quelle di Lawrence Weiner, perché quelle frasi non hanno un referente concreto in quanto sostituiscono un oggetto concreto; cioè non è la proposizione In advanced of a broken arm e vedi una pala di neve, in quel lavoro di Duchamp quella preposizione cambia totalmente la percezione dell’oggetto, la previsione di una mano rotta oppure la eviti se spali la neve, chissà… Lawrence Weiner al contrario toglie l’oggetto e lo sostituisce con una frase e non vuole che la frase venga limitato da un oggetto, come quando dice What stands on a table stands on a table che è un’opera in cui ognuno può immaginarsi il suo tavolo con le proprie cose appoggiate sul tavolo nel proprio soggiorno. Quando Manzoni fa La Base del mondo (1961), e tu ti immagini il mondo su quella base lì te incluso, devi attivare la parte immaginativa dell’opera simile a quella che intendeva Duchamp. La Base del Mondo è concettuale ma che non è quella anglosassone, quella progettuale e riduttiva. Finché queste cose un po’ più sottili non vengono discusse la riflessione sull’arte rimane un po’ giornalistica. 

Elena: Io però continuo a vedere un discorso strettamente generazionale, mi spiego, gli artisti della tua generazione Gianni utilizzano delle immagini molto evocative – ovviamente in questa dicotomia semplifichiamo un discorso estremamente più ampio – mentre mi sembra più proprio di questa generazione utilizzare delle immagini già in qualche modo codificate. Ma anche gli artisti della tua generazione che fanno arte oggi si scontrano e decidono di proporre un discorso già codificato come Luca Bertolo che alla Triennale presenta tutta la sua schiera di personaggi e tutti sanno chi sono. Tu, Gianni rispetto ai tuoi studenti vedi questo discorso? Poi non voglio ritornare alla retorica che sia nell’epoca di maggior consumo di immagini, attraverso i social, attraverso internet però ecco, come vedi questo momento? 

Gianni: Innanzitutto non so se i miei studenti sono rappresentativi rispetto al contesto oppure se reagiscono già a quello che gli propongo, ovvero a certi discorsi che facciamo in aula. Per cui io chiedo che cos’è l’immagine? Immagine si dice che sia ciò che vediamo nei media, immagine d’affissione, pubblicitaria e così via, però siamo sicuri che quello sia davvero “immagine”? Se torniamo alla radice della parola, essa si declina dal verbo immaginare. Credo che ciò sia il problema che si è posto Baudrillard che in una delle sue ultime conversazioni in una sua conferenza in una università in Germania ha risposto ad una sua studentessa che aveva chiesto cosa ne sarebbe stato dell’immagine in una epoca di bombardamento delle immagini (Baudrillard stesso aveva parlato dell’effetto Xerox) egli ha risposto una cosa molto puntuale: se noi non riusciamo ad iniziare le immagini, queste immagini sono perse per noi. Vediamo quindi che il problema di natura ontologica, se riesco ad iniziare una immagine nella mia immaginazione allora sono salvo. E se riesco a iniziarle esco da uno stato di automa passivo che caratterizza il consumismo anche dell’intrattenimento che è una forma più sottile dell’alienazione. Dall’altro canto la tendenza generale dei critici dalla mia generazione in poi, tranne qualche rara eccezione, sia quella di una generazione di critici giornalisti, attenta più alla forma divulgativa che alla di riflessione filosofica. In generale per vari motivi di convenienza più che alto di natura economica la tendenza è ancora avvicinare l’arte al grande pubblico e quindi le riflessioni analiticamente minimamente complessi sono tuttora considerate piuttosto controproducenti.  

Elena: Però la questione della critica è complessa, io penso che uno dei motivi per cui sia anche sparita è che ci si è reso conto che è controproducente, perché piuttosto che parlarne male ha senso non parlarne. C’è sempre uno spazio che deve essere lasciato all’indeterminatezza, alla possibilità che non ci sia stata una comprensione del lavoro anche da parte del critico

Giulio: No però il discorso è che ci siano dei critici intelligenti che si assumano la responsabilità la distinzione, nell’intelligenza di apertura, non in modo sterile come un giudice televisivo, tu sì tu no. Ma forse manca questo di questa assunzione di responsabilità della critica, questa assenza di fuoco incrociato, di non andare a fuoco perché non si vuole parlare male e quindi piuttosto il silenzio. E in questa cappa di silenzio tutto si omologa, la critica è anche uno strumento educativo. Sento tanti colleghi che si lamentano di questa assenza di contraddittorio, di questa polemos

Gianluca: È un discorso complesso quello sulla critica, però tornando al rapporto con il pubblico, secondo me le immagini e i materiali che usa Gianni hanno una capacità molto forte di giocare sulla sensibilità. Per esempio, tu usi spesso lo zucchero a velo, e c’è una dolcezza che attrae e “sensibilizza”. Non è un materiale casuale, è un modo per affezionare lo spettatore. Questa è una qualità che colpisce anche i non addetti ai lavori, credo. Al di là dell’oggetto in sé, c’è una forma che ti attrae, e questo per me è un aspetto molto importante anche nel mio lavoro. La scultura, infatti, ha questa capacità sensoriale di essere sia visiva che tattile. Non è solo un’immagine, è un “corpo alieno” con cui fai esperienza nello spazio reale.

Giulio: Sì, bello non l’avevo mai visto così, questa adozione simbolica, al là di una narrazione preponderante. Anche nel tuo lavoro c’è questo aspetto in modo rilevante, la scelta di immagini molto vicine. C’è una narrazione che però sfugge da questo apparato simbolico, in quell’oggetto può vedere ma anche no, giochi in questa sospensione 

Gianni: E’ molto bella questa cosa dello sfuggire, ti sfugge ma comunque lo insegui. E questa è una cosa molto rara perché di solito si tende di fermare, fermare un tema, una narrazione. Ma non è quella l’unica funzione della narrazione.

Giulio: Va bene, vi ringraziamo, penso che l’ultima domanda su cui potremmo soffermarci invece è quali luoghi ad alta intensità ci sono a Milano 

Gianluca: Io sono approdato a Milano dopo diverse esperienze… non sono venuto per l’Accademia che invece ho frequentato prima a Roma e poi a Venezia che,  “Porta d’Oriente”, mi ha condotto a Taiwan. Vivere a Taipei è stata un’esperienza fortissima, forse quella che, prima di tutte, mi ha spinto a superare certi limiti. La cultura asiatica, nonostante gli appiattimenti della globalizzazione, rimane profondamente diversa dalla nostra. Per me all’inizio è stato un vero shock culturale. Poi, col tempo, mi sono ambientato, ho cominciato a conoscere i rudimenti della lingua, e alla fine mi sono sentito più vicino a quel mondo. A pensarci adesso, quel periodo era davvero delicato: avevo appena finito l’Accademia e mi sono ritrovato catapultato in una realtà completamente sconosciuta, senza mentori o figure di riferimento che mi aiutassero a compiere i primi passi nel mondo dell’arte (tra l’atro la scena dell’arte taiwanese è ben diversa da quella italiana). Anche il lavoro di quel periodo credo rappresentasse quegli stati d’animo: era un lavoro in sottrazione, in assenza. Il lavoro più importante che ho realizzato in quel contesto è stata una grande installazione in gesso che si poteva calpestare. Un sottile pavimento di gesso che si rompeva sotto i passi degli spettatori. Ad ogni passo, una crepa, una rottura, come simbolo di trasformazione. Pian piano, tutto diventava maceria. È una soluzione che sto rielaborando nuovamente, ma in una versione un po’ diversa. Dopo questo periodo a Taiwan, sono tornato in Italia e, presto, da sud sono nuovamente ripartito per il nord: Torino e poi Milano, dove sono venuto per alcune residenze. Il 2018 è stato un anno ricco e formativo da questo punto di vista. Ho avuto la possibilità di lavorare in contesti molto diversi, come Cripta747 a Torino, dove ho trovato un ambiente internazionale e stimolante, Officine Saffi, in cui ho iniziato a sperimentare con la ceramica smaltata, e poi Viafarini, dove si sono create sinergie e amicizie che, in modi diversi, continuano ancora oggi. Milano mi ha colpito da subito, soprattutto per la sua vivacità, una vivacità in cui continuo a credere, perché, nonostante tutto, è un luogo di passaggio e di scambio che mi piace approcciare con la mia indipendenza.

Gianni: Io vedo Milano un po’ troppo cara per un giovane artista, dall’ altro canto però c’è la fortuna di avere tre Accademie con professori importanti che producono un certo livello di discorso. Con Andrian Paci per esempio per anni abbiamo disposto dei dialoghi agli opening delle mostre dei nostri studenti alla Fondazione Pini, in cui nel cortile ognuno si sedeva su un cuscino per terra e si parlava della mostra. E’ una modalità che a me ricorda quella usanza dalla Casa degli Artisti degli anni ’90, in cui durante l’inaugurazione di una mostra ad un certo punto ci si ritrovava in uno spazio al primo piano (tipo alle otto e mezza) e si discuteva delle opere in mostra fino a tardi.

Giulio: Certo, c’è una funzione radicale della parola in questo contesto. E’ un momento importante quello dell’inaugurazione perché è il primo incontro con l’opera. Come dire, hai solo una occasione per fare una buona prima impressione. Ed è importante rendere collettiva questa esperienza, fruire con altri e discutere di ciò che si ha di fronte. Riordiamoci che all’estero c’è questa cosa che si fa il discorso alle inaugurazioni, che qui sembra rimasta viva sfortunatamente solo nelle province…

Cover: Gianni Caravaggio, Fasi lunari che deviano lo spazio, 2016 – ATPdiary

Studio di Gianni Caravaggio
Studio di Gianluca Brando, Niguarda, Milano. Foto Dropstudio