Il titolo non è solo pericoloso, ma presenta anche delle insidie. Pochi giorni fa si è inaugurata la mostra ‘ Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea’ al Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze. La mostra raccoglie otto opere di Bacon, tra cui tre dipinti incompiuti trovati nel suo studio, e le opere di cinque artisti contemporanei: Nathalie Djurberg, Adrian Ghenie, Arcangelo Sassolino, Chiharu Shiota e Annegret Soltau.
Le due curatrici, Franziska Nori (direttore della CCC Strozzina) e Barbara Dawson (direttore della Dublin City Gallery The Hugh Lane, Dublino; dal 1998 cura e preserva lo studio londinese di Bacon), hanno accompagnato un folto gruppo di giornalisti tra le tante sale della mostra, raccontandogli aspetti peculiari e le affinità tra Bacone e le opere contemporanee dei 5 artisti selezionati.
Un’appassionata Dawson ha espresso con calibrate frasi l’importanza di Francis Bacon, non solo per la storia dell’arte del ‘900, ma anche per molti artisti contemporanei. Quello che più mi interessava scoprire di questa mostra, infatti, è proprio l’abissale profondità che le curatrici hanno colto negli artisti selezionati tra le ultime generazioni. Come scrive nell’approfondito saggio Dawson, i ‘ritratti impietosi della figura umana’, il senso di isolamento e profondo annichilimento della speranza salvifica, le sue figure deformate, contorte, attorcigliate tanto da assumere uno splendore contemporaneo, sono pochi – ma forse i più importanti – aspetti che rendono insidioso il tema della mostra stessa. Pittore assoluto, estremo, inimitabile, considero Bacon tra gli artisti più ‘intoccabili’ della storia dell’arte, non solo del XX secolo, ma anche oltre il contemporaneo e la modernità (come periodi artisti). Le due curatrici, sicuramente consapevoli dell’altezza e imponenza del pittore, hanno raccolto l’ardua sfida e, con un percorso a tappe (o ‘a onde’ come spiega Franziska Nori), sono riuscite – a mio parere – a esaltare, per ogni giovane artista invitato, almeno un aspetto dei tanti che compongo la magistrale figura del pittore irlandese.
La prima domanda che il visitatore si pone è: Cosa avranno il comune questi artisti, quasi tutti delle ultime generazioni (Annegret Soltau è del 1946)? La Nori rispondere facendo notare che gli aspetti che li accomunano sono molteplici: un’attitudine di ricerca simile o paragonabile nell’intensità quasi ossessiva al lavoro di Bacon; l’importanza data al luogo dello studio in quanto spazio fisico in cui operano quotidianamente (come d’altronde lo era per Bacon, che nel suo studio londinese accumulava, danneggiava, accatastava i materiali più disparati, calpestandoli e lasciando che libri, fotografie, ritagli, appunti, cataloghi, documenti, si guastassero con il tempo); altro aspetto comune, l’irragionevolezza dell’esistenza o, ancora, la centralità del corpo nella sua continua verificabilità, nella sua bassezza, nella sua capacità di condensare – potenziato – il concetto di dolore (sopra ogni cosa).
L’ ‘altezza’ o profondità di Bacon – per me – non trasuda ‘immensamente’ nelle opere degli artisti che, brillantemente, gli sono stati affiancati. Semmai, vedere come dolore, tragedia, dramma, malessere, violenza ecc, viene tradotto dalle nuove generazione, altro non fa che esaltare l’unicità di un artista assoluto (e intoccabile) come Bacon.
Detto questo, la mostra colpisce nel centro quando, tra i suoi obbiettivi, c’è proprio l’intenzione di confermare ancora una volta quanto le sue tele siano dei classici senza tempo e senza data, dunque sempre ‘contemporanei’. Vedere – come piace a me – da molto molto vicino le sue pennellate rarefatte, le sue abrasioni, i grumi di colore, la tela lasciata nuda, notare dei minuscoli granelli di sporcizia, gli impasti da cui emergono dei volti magnificamente contorti, sgraziati ma bellissimi…come raccontare un quadro di Bacon se non tacendo (eh sì, torniamo sempre al ‘fare silenzio’). Lui, che svuotava invece di aggiungere, che torniva i volume come levigasse della materia scivolosa, corrosa, precaria (non è forse questo la carne?)… Da qui lo stupore nel vedere alcune sue opere incompiute. In mostra ce ne sono tre di altissima qualità. Pensando (banalmente) al fascino del non-finito (vi ricorda qualcuno?), anche queste opere alla Strozzina, rivelano dettagli affascinanti e significativi sul metodo che l’artista aveva per costruire o decostruire i corpi e lo spazio attorno. Emozionante l’ultima opera che Bacon eseguì: un autoritratto appena accennato, ritrovato nel suo studio, ancora sul cavalletto, al momento della morte avvenuta nel 1992. Vedere quest’opera, esposta per la prima volta in Italia, vale ovviamente l’intera visita. Ma di motivi per vedere le opere esposte, ce ne sono tanti.
Ottima la selezione delle opere esposte di Nathalie Djurberg (il pubblico che giunge da Milano, ricorderà le opere esposte anni fa alla Fondazione Prada per la sua personale), che con abilità maneggia la plastilina per muovere e corrodere i corpi dei suoi malsani e ossessivi personaggi in storie dove violenza, sesso, paure, schifezze, vermi, ecc. si fondono per raccontare l’umana corruzione, vulnerabilità e solitudine.
Sotto una luce da ‘macelleria’ si mostrano i bei dipinti di Adrian Ghenie, dove personale e collettivo, storia e individualità, si confondono per dar vita a scene spesso in interni borghesi dove personaggi (liquefatti dunque irriconoscibili) si auto distruggono tra striature di colore, campiture informali, gocciolamenti, cancellature. I cattivi della terra si incontrano (e si nascondono dietro o dentro il pennello dell’artista) nelle tele di Ghenie: tra i materiali che raccoglie, fotografie di Hitler e della compagna Eva Broun nella residenza estiva di Berghof o del padre della bomba atomica J. Robert Oppenheimer. Altri appunti visivi dell’artista, le scene comiche del cinema muto dove si vedono persone che cadono per aver calpestato una bucia di banana o si puliscono il volto dopo aver preso una torna in faccia.
E’ un particolare modo di trattare il linguaggio fotografico quello che si coglie nell’opera di Annegret Soltau. L’artista espone una serie di fotografie dove, nella metà degli anni ’70, riprende il suo volto stretto da un sottile filo nero. A queste immagini, l’artista sottopone una manomissione, cucendo sopra il filo fotografo un gioco grafico con del filo vero. I “ritratti fotografici cuciti” raccontano di carne incisa e sottoposta a controllate e consapevoli deformazioni. Dagli esili fili ‘cattivi’ di Soltau, a quelli più spessi e intricati di Chiharu Shiota. L’artista giapponese costruisce una sorta di grande baco da seta dove i visitatori posso accedere come se entrassero dentro ad una grotta. Per giorni l’artista e molti assistenti hanno tessuto, intrecciato, legato, dei lunghi fili tanto da creare una rete inestricabile. Performativo a posteriori (immagino ore e ore di danze silenziose composte da gesti ripetiti e ossessivi) la grande opera site specific racconta della memoria del vivere quotidiano attraverso, appunto, la poetica trascrizione dei gesti che, in queso caso, lasciano una traccia nello spazio. I fili avvolgono o imprigionano delle vecchie porte in disuso che l’artista ha trovato negli scantinati di Palazzo Strozzi.
Chiude il percorso espositivo la grande installazione ‘muscolosa’ di Arcangelo Sassolino. L’artista vicentino ‘ingegnere’, ha installato un grande pistone in mezzo ad un lungo corridoio da cui partono delle funi che corrono tra due travi poste a contrasto con le spesse mura dei due ingressi del corridoio. Il sistema meccanico di tiraggio delle fune entra in funzione con una tempista imprevedibile (pochi minuti o decine). L’inevitabile sensazione che ho provato, mentre camminavo nel corridoio è stata quella di un lieve tensione e preoccupazione. Ma, subito dopo ho pensato, sono in un museo.. non mi accadrà nulla di particolarmente pericoloso. Quest’opera ‘scricchiolava’ – in più di un senso – dentro al calibrato e coerente percorso della mostra.
Avendo poco tempo, sono ritornata al punto motivazionale che ha scatenato tutto: i dolorosi e brutali ritratti del mio amatissimo Francis Bacon.