Una novità interessante dell’appena conclusa edizione 2019 di Arte Fiera è la proposta – interna alla sezione principale – del focus “Fotografia e immagini in movimento” a cura di Fantom, che ha fornito una panoramica di 18 gallerie selezionate che lavorano sulla fotografia e il video: Galleria Bianconi, Cardelli & Fontana, Doppelgaenger, Gallleriapiù, KmØ, La Città Projects, Matèria, Mazzoleni, MC2gallery, Metronom, Michela Rizzo, P420, Alberto Peola, Podbielski Contemporary, Traffic Gallery, Viasaterna, Vistamare / Vistamare Studio, Z2O Sara Zanin Gallery.
L’obiettivo della sezione è stato, da una parte restituire uno “sguardo trasversale” su cosa sta succedendo oggi alla pratica fotografica come mezzo espressivo ad alto tasso di contemporaneità (se così di può dire) e, dall’altro, mostrare la complessità, la varietà delle tecniche, dei soggetti, delle riflessioni su cui la fotografia indaga e insiste oggi. Anche su indicazione del neo direttore di Arte Fiera Simone Menegoi gli stand sono organizzati per monografie, solo show, dialoghi tra due o massimo tre artisti in modo da creare uno spazio pulito, asciutto e leggibile, per poter approfondire e far sostare lo sguardo.
Senza pretesa di esaurire le letture possibili, sono soprattutto tre le tendenze evidenti in questa sezione: l’approfondimento su un solo artista per galleria, per circoscrivere e sottolineare il valore di un maestro, un pioniere o valorizzare una ricerca peculiare su e con il mezzo fotografico; il dialogo o lo scontro tra artisti (diversi per generazione e/o approccio); infine, la proposta fatta da alcune voci fuori dal coro, vale a dire la presenza di gallerie che tentano di lavorare sull’emergente, sulle potenzialità del digitale, del tecnologico e sull’immagine in movimento nel senso vero del termine, presentando cioè opere video (cosa non facile in un ambiente come quello fieristico) ma anche nel senso metaforico (progetti fotografici che si ribellano all’idea di stabilità, immobilità e datità dell’immagine, interpretando questa forma di “movimento”).
Stimolante e coerente in quest’ultimo senso è l’accostamento delle opere di Kenta Cobayashi, Taisuke Koyama e Mark Dorf, nello stand di Metronom, così come la scelta dei lavori di Francesco Jodice, Antonio Rovaldi e Alessandro Sambini esposti da Michela Rizzo Gallery.
La galleria Metronom di Marcella Menni presenta Kenta Cobayashi (Giappone, 1992), Taisuke Koyama (Giappone, 1978) e Mark Dorf (Usa, 1988) che, con risultati estetici molto diversi, sono accostati nel comune approccio tecnologico-digitale alla produzione dell’immagine, sempre alterata e modificata. Mi spiega la gallerista che lo stand ruota attorno alla proposta di lavorare su linguaggi realmente contemporanei e osare con opere che negano le potenzialità di rappresentazione mimetica della fotografia.
“Ho scelto artisti che potessero dialogare in maniera convincente anche se non necessariamente allineata. Cobayashi e Koyama lavorano anche con il video, ho deciso di inserirli anche se i video dal punto di vista commerciale sono più rischiosi e difficili da allestire…Ho pensato comunque di raccogliere la sfida del taglio proposto. In Cobayashi gli schermi sono quasi come delle finestre mentre il progetto di Koyama è un’app, un video che si autogenera e genera contenuti, montato sempre in verticale in monitor che sono a volte appoggiati a terra, quasi fossero sculture.”
La ricerca di Taisuke Koyama ha una forte impronta concettuale e indaga la percezione del colore e della luce con la fotografia. Nel video in mostra, ad esempio, parte da un pixel preso da una serie di lavori precedenti che poi viene ingrandito, fino a che il software non riesce più ad elaborare il colore reale ed è così costretto a riempire, compensando, le zone dell’immagine che non lo sostengono; l’app creata dall’artista elabora il passaggio da un colore all’altro generando dei monocromi in un fluire costante, “si ha un’immagine continuamente rigenerata, un lavoro a metà tra installazione e immagine in movimento, una sorta di dissolvenza che è potenziata dalla retroilluminazione dando profondità e impressione materica alla texture.” Accanto al video, le fotografie della serie Light Field che partono dalla volontà di fare fotografia astratta: si tratta di pura luce, fotografie create da due scanner sovrapposti con un foglio trasparente in mezzo che riflette la luce e fa in modo che entrambe le macchine raccolgano il segnale e lo convertano in onde luminose. Le fotografie esposte sono selezioni di queste texture luminose ingrandite e stampate.
Kenta Cobayashi, invece, nella serie #smudge lavora su immagini reali concepite come “testi o ipertesti”, attraverso un processo meticoloso apparentemente improvvisato: le immagini possono creare dei link ed è per questo che una porzione di immagine viene utilizzata dall’artista per creare altro contenuto o per metterlo in collegamento con altri elementi. Ne risulta una fotografia in cui la forma e il colore vengono distorti e manipolati ma non si tratta di un gioco fine a se stesso: è piuttosto uno studio su come un certo sviluppo tecnologico ci consenta oggi di vedere cose che normalmente non si potrebbero vedere.
C’è infine l’americano Mark Dorf che nella serie Landscape lavora sulle potenzialità del digitale per dimostrare l’assenza di confine tra naturale e artificiale nel paesaggio: “sebbene continuiamo a pensare che urbano e costruito siano separati da naturale, in realtà queste due categorie sono mescolate, fuse e sovrapposte.” Questi Landscape sono fotografie scattate all’orto botanico di New York successivamente manipolate, porzionate, sovrapposte con inserti di cornici e sezioni quasi architettoniche nello spazio dell’immagine. Il riferimento al materiale si trova poi nel montaggio: un multistrato volutamente lasciato visibile che dà l’mpressione di essere naturale, un legno, anche se legno non è. L’artista a volte “crea un cortocircuito tra l’immagine e la parte fotografata di un legno che presenta un tipico segno di pulitura di photoshop”. Dov’è l’artificiale e dov’è il naturale in questi paesaggi? Dove il vero e dove il falso? Dorf ci interroga sulla natura dell’immagine e sulla solidità di ciò che in essa crediamo di vedere.
Anche Michela Rizzo propone un terzetto, puntando sulla fotografia italiana. Antonio Rovaldi (Parma, 1975) espone Recostruction Of a Distance, Walking around the edges of a book: il progetto “meta-fotografico” del fotografo/walker è stato sviluppato nei quartieri di New York per raccontare i confini della città in una riflessione e in una pratica dell’esplorare e del muoversi nello spazio, per conoscerlo.
Con lui, Francesco Jodice (Napoli, 1967) e il lavoro Nuova Terraferma: una serie di fotografie in bianco e nero realizzate a Genova dal 2013 durante le opere di ampliamento e modificazione di Calata Bettolo, all’interno del porto, quando una serie di esplosioni sottomarine e di dragaggi, hanno portato alla sistemazione di materiale prelevato dal fondo del mare: queste nuove terre emerse assomigliano a un paesaggio lunare “perché è così che mi sono sentito: come Armstrong e Aldrin, un membro dell’equipaggio dell’Apollo 11.”
Infine, il progetto del più giovane Alessandro Sambini (Rovigo, 1982) che ha spessore performativo e antropologico: si intitola 1624 e corrisponde al minuto di gioco 16:24 dell’amichevole Francia-Germania disputata il 13 novembre 2015 nello stadio di Parigi, giorno dell’attacco al Bataclan. Una partita epocale quando all’interno dello stadio viene udito il boato di un’esplosione per un altro attentato, le autorità decidono di far proseguire la partita come se niente fosse. “L’esplosione risuona come un Gong che determina la fine della “normale” partita di calcio e l’inizio di uno spettacolo surreale.” L’artista crea così il copione della partita e diversi lavori che studiano le azioni di gioco: dal dribbling, ai passaggi, ai tiri, alle parate. Azioni che verranno messe in scena e interpretate da attori assoldati per ricreare l’evento e seguiti da fotografi sportivi che lo immortaleranno.
Matèria, giovane galleria romana con sede a San Lorenzo, guidata da Niccolò Fano, presenta una monografica di Mario Cresci (Chiavari, 1942) con l’idea di esaltare il valore e la complessità di un pioniere della fotografia sperimentale, “forse il più grande che abbiamo in Italia”, con opere che sono in mostra quasi in esclusiva ed una selezione di vintage. Ci sono le fondamentali ”tavole” della serie Misurazioni, che rappresentano uno dei progetti più importanti di Mario, iniziato negli anni Settanta nel sud Italia, nato tra Tricarico e Matera: un lavoro complesso di antropologia culturale, un progetto che compie una “mappatura del territorio, dagli oggetti ai gesti della cultura contadina…”. Ci sono anche lavori molto diversi, come Spostare la luce, che esalta visualmente il potere di alterazione del mezzo fotografico. Ancora: uno scatto tratto da Viaggio in Italia, una selezione di libri fotografici, una serie di rayogrammi con inserti pittorici (quasi calligrafici), a dimostrare l’imprendibilità di questo artista. “Mario” aggiunge il gallerista “ha aperto agli artisti più giovani della galleria la strada della sperimentazione fotografica, ponendo il mezzo al centro del dialogo sull’arte contemporanea in Italia”.
Una monografica da segnalare proposta da Cardelli e Fontana è anche quella dedicata a Luca Lupi (Pontedera, 1970), essenziale ed equilibrata, con una serie di Landscapes dall’orizzonte bassissimo e dai cieli che saturano l’immagine: l’artista offre uno studio molto composto sui luoghi e il paesaggio urbano.
Luca Lupi è stato anche il protagonista di una personale nella sede della galleria a Sarzana. Qui il testo del curatore Pietro Gaglianò Sullo sguardo, sui nomi e sulle cose
La Città Projects propone una doppia personale di Vincenzo Castella (Napoli, 1952) e Lynn Davis (Usa, 1944) in uno stand che è anche un’anticipazione del progetto espositivo in programma a Venezia durante la 58° Biennale d’Arte nello spazio del GAD Giudecca Art District. Vincenzo Castella lavora sul contrasto tra natura rinchiusa e natura libera, tra i soggetti vegetali cresciuti in cattività nelle serre di Zurigo e i paesaggi finlandesi incontaminati: appropriato al tema “immagini in movimento” il video The Plots are homeless che è un montaggio di 6 minuti tratto da negativi originali e visibile su un ledwall di 3,50 x 2 metri. Con lui, esposti grandi lavori in bianco e nero di Lynn Davis dedicati agli iceberg e ai ghiacciai della Groenlandia: “questa serie di fotografie è particolarmente importante nella carriera artistica di Lynn Davis la quale, dopo il suo primo viaggio in Groenlandia, nel 1986, prese la decisione di abbandonare la fotografia della figura umana, con cui esordì a New York assieme al caro amico Robert Mapplethorpe, spostando l’obiettivo verso i paesaggi monumentali e le icone culturali/architettoniche per le quali è rinomata internazionalmente.”
In conclusione, uno sguardo sulla fotografia al femminile proposto da alcune gallerie. Vistamare con un piccolo stand dedicato a Linda Fregni Nagler e il noto lavoro con la fotografia giapponese a partire dal suo archivio di soggetti della cosiddetta ‘Scuola di Yokohama’ (1868-1912). Il titolo della serie presentata Hana to Yama (Fiori e montagna) si riferisce ai venditori ambulanti di fiori e alle vedute del Fujiyama. L’artista ri-fotografa gli originali, li stampa in camera oscura e li colora a mano, dopo un lungo processo di ricerca e messa a punto di materiali e pigmenti.
C’è anche la romana Z20 Sara Zanin Gallery con Mariella Bettineschi (Brescia, 1948) e Beatrice Pediconi (Roma, 1972) in un interessante confronto che nasce da una scommessa: “artiste che in qualche modo si collocano agli antipodi, nel plurisecolare conflitto tra figurazione e astrazione, ma che rivelano a veder bene più affinità di quel che sembra: da una parte Mariella, che è un’artista storicizzata ed affermata a livello internazionale nonché seguita da un archivio, ma che esordisce come pittrice; dall’altra Beatrice, che parte da una pratica pittorica sciogliendo pigmenti in acqua e poi scattando in analogico. Abbiamo inteso la suggestione di immagini in movimento della sezione interpretando la pratica di queste artiste come un lavoro che non è fotografia pura ma contaminazione.”
Sono artiste che interagiscono e creano differenti modi di intendere l’immagine: la prima, affondando nella storia dell’arte e nel passato reintepretandone gli sguardi, i volti, le architetture, lavorando con la pittura digitale e ricercando continuamente nuove forme: Francesca Pasini scrive che “la sua passione riguarda l’influenza del tempo. Metabolizza il dialogo con maestri amati come Burri nelle tavole incatramate mentre nei monocromi appare una dedica a Fontana, ai suoi Teatrini. Ma oltre al libero contatto con chi l’ha preceduta si è lasciata attraversare da esperienze di manualità, dal ricamo su varie superfici, compresa la carta, per approdare all’installazione, alla fotografia, alla manipolazione delle immagini…” Nel secondo caso, con Beatrice, i colori disciolti in acqua creano bolle, macchie e forme pronte per scoppiare, dissolversi o cambiare morfologia, esibite in due giganti polaroid astratte.
La galleria bolognese P420 porta in fiera Alessandra Spranzi ma anche la relazione tra due artisti di generazioni diverse sul senso e il valore delle cose: Alessandra e Richard Wentworth, che con lei divide lo spazio, sono accomunati da una fotografia che racconta la realtà, ma più che altro da uno sguardo affettivo, materico, scultoreo e divergente sulle cose, sulle loro possibili combinazioni e tensioni di forza. L’artista Alessandra Spranzi (Milano, 1962) invita l’amico fotografo Richard Wentworth (Usa, 1947) nello spazio. Alessandra raccoglie oggetti del quotidiano, fotografie trovate, immagini passate che hanno sapore di famiglia per creare composizioni sgranate e polverose o al contrario cristalline e nitidissime (potremmo pensare alla bellezza silenziosa e nascosta degli oggetti di Morandi) mentre Richard espone un work in progress “al grezzo” sul materiale della vita quotidiana che lo attrae.
“Ho invitato Richard Wentworth a dividere con me i 32 metri quadrati dello stand alla fiera di Bologna per continuare a passarci immagini, pensieri, parole. Come facciamo da anni, a ritmo irregolare. Qualche giorno fa ho ricevuto le 9 fotografie di Richard Wentworth. Ai nostri lavori aggiungo questo breve testo. Le fotografie di Richard Wentworth sono installate con dei lunghi chiodi: si sente un rumore e un sapore di ferro. Qualcosa di duro, nelle orecchie, sotto i denti, davanti agli occhi, con la ruggine che aspetta. Ma le immagini di Richard Wentworth non hanno questo sapore, non fanno questo rumore. C’è una gentilezza e generosità nello sguardo. Nei miei lavori, le cose sono appoggiate, disperse, o trattenute, sul tavolo. C’è una gentilezza e una generosità in un tavolo.”
Meritatissimo il secondo premio ex aequo a Mushroom from the forest #1, 2011 di Takashi Homma – Galleria Viasaterna e a The Google Trilogy – 1. Report a problem, 2012 di Emilio Vavarella – Galleriapiù.