Potature, tagli e piegature per direzionare e contenerne la crescita. In tanti considerano l’arte di coltivare piante in miniatura, come un’autentica violenza inflitta alla natura. Perché costringere un susino a cresce poco più di due spanne da terra? Noi occidentali, quando non restiamo ammaliati da questo portento, proviamo stizza e rifiuto. Prende a metafora la tecnica del bonsai Federico Tosi nella sua ultima mostra ospitata fino al 31 luglio alla galleria Monica De Cardenas. Come titolo della mostra, l’artista sceglie una sorta di motto: Bonsai Riot. Manipolando terracotta, resine e pigmenti, Tosi ricrea dei bonsai ribelli: delle piccole creature la cui energia esonda dal vaso, rompendolo, per cercare una ‘forma’ di conquistata libertà. L’effetto è quello di tanti animaletti dai colori psichedelici che sembrano cercare più che la libertà, un possibile equilibrio. Girando attorno a queste delicate sculture, l’impressione è quella che possano cadere, in modo rovinoso, da un momento all’altro, ecco allora che Tosi, in modo sapienza, ha orchestrato la materia modellabile per far si che tutto resti, incredibilmente, in piedi.
Ma non solo, nel protendere rami e radici verso l’insperato ignoto, questi piccoli alberi sembrano seccarsi, perdere vigore e colore naturali, le foglie diventano azzurre o spariscono dai rami nodosi. I pochi fiori rimasti sembrano guastarsi alla vista, così gli sparuti melograni lì lì per cadere sul pavimento.
Tosi, con queste cagionevoli piantine, sembra ricordarci che in realtà la “libertà è una forma di disciplina” (“Depressione Caspica”, 1990, CCCP Fedeli alla Linea – Citazione dal testo inmostra di Giovanna Manzotti); il non dovere scegliere una cosa rispetto ad una altra è una forma di libertà; l’essere consapevolmente liberi di stare costretti dentro ad un piccolo vaso piatto, è anche una forma di libertà.
Per tornare ai bonsai e alla loro presunta costrizione, in realtà l’antica pratica giapponese di modellare la natura è, strano per noi comprenderlo, un inno elevatissimo alla bellezza della natura stessa; è l’espressione delle forze naturali e dei segni che inevitabilmente il tempo lascia nel suo eterno fluire. Ecco dunque che il bonsai incarna il simbolo della grandiosa vetustà delle piante e quindi della capacità dell’uomo di riconoscere e apprezzare simili valori.
Frainteso il senso di una tecnica così religiosamente rigorosa e altera, non resta che apprezzare l’abilità sculturea che Tosi rivela nel modellare le piante, in dialogo con la serie di acquerelli “Expensive Dogs Lost in the Jungle” che, non senza ironia, mostrano dei cani sperduti in rigogliose e, al tempo stesso, minacciose piante. Fronde e arbusti, quasi fossero motivati da chissà quale famelico istinto, sembrano voler ingoiare queste povere creature, avvezze a starsene stese su morbidi cuscini e divani. Ecco che l’animale addomesticato per eccellenza, il cane da passeggio e compagnia (es. Volpini di Pomerania e altri cani di razza), libero da guinzagli e costrizioni, è paralizzato dentro ad una selva oscura e sinistra. L’abilità pittorica con cui l’artista rappresenta il paesaggio ostile e lussureggiante, è probabilmente il frutto della suggestione: Tosi ha compiuto di recente un viaggio nell’arcipelago malese, luogo ideale per immergersi in esperienze dove la natura è sicuramente bellissima.
I bonsai peduncolati e i cani costosi nella giungla, dialogo con un altra serie di opere: una gamma eterogenea di dita umane, che l’artista motiva come un: «straordinario punto d’azione personale e di interrelazione sociale ma anche perfetta sintesi di tutte le azioni che abbiamo eseguito».
Mozzate dal resto della mano, questi piccoli totem in miniatura, realizzati in resina a grandezza naturale, sono installati su delle mensole d’acciaio in posizione eretta e, sostenuti da una piccola calamita, possono essere spostati a piacimento, tanto da comporre degli scenari a piacimento. Pedine o piccoli soldatini arruolati per un ideale campo di battaglia, distinti per nodosità, colore e cura delle unghie, questi innocui squadroni rappresentano per l’artista dei ‘dissidenti’: «Ho immaginato le dita come incastrate nel nostro corpo, schiave delle nostre volontà. Ho pensato così di liberarle. Quello che ne è derivato è una narrazione sull’amore e sulla pace, sull’uguaglianza e sulla pacifica combinazione di etnie e generi».
“Assomiglia all’ingenuità la saggezza”
Depressione Caspica, 1990, CCCP Fedeli alla Linea