Testo di Matteo Carli —
Mentre si susseguono gli interventi degli esponenti di Fondazione Pistoia Musei, mediati dalla co-curatrice Monica Preti e incentrati sul fruttuoso rapporto decennale tra Daniel Buren e la città di Pistoia, l’artista francese osserva il soffitto ligneo della sala grande di Palazzo Buontalenti, dove si sta tenendo la conferenza stampa di presentazione della sua mostra Fare, disfare, rifare. Il palazzo che ospita la mostra è antico, un esempio d’architettura fiorentina di fine Cinquecento: le travi, che compongono le geometrie quadrangolari adornanti il soffitto, sembrano di uno spessore vicino agli 8,7 cm, la larghezza esatta delle strisce popolanti l’opera di Buren da decenni.
La mostra attualmente in corso nel palazzo pistoiese, e nei luoghi pubblici cittadini che per l’occasione ospitano interventi in situ di Buren, è realizzata con il sostegno di Fondazione Caript e in collaborazione con Galleria Continua. L’esposizione rappresenta l’ultimo capitolo di un rapporto iniziato nei primi anni di questo millennio:: Muri Fontane a tre colori per un esagono a Villa La Magia, l’intervento nel Padiglione di Emodialisi dell’ospedale pistoiese e La Cabane Éclatée aux Quatre Salles, realizzata alla Fattoria di Celle su invito di Giuliano Gori, hanno già avviato e consolidato un dialogo fruttuoso tra Buren e la città.L’artista si sente accolto a Pistoia, e ciò ha certamente giocato un ruolo importante nella decisione di realizzare proprio qui un progetto ambizioso come Fare, disfare, rifare: l’esposizione, curata dallo stesso Buren assieme a Monica Preti, ripercorre l’intera carriera dell’artista francese ma vuole andare oltre la semplice retrospettiva. Lo spiega con efficacia Preti, nel suo intervento alla conferenza d’apertura:
«Fare, disfare, rifare si configura come una reinterpretazione dinamica di sessant’anni di ricerca, in cui la dimensione temporale si intreccia con quella geografica (…). Buren ci invita a ripensare il concetto di opera d’arte non come un oggetto statico, ma come un processo, un’azione che si rinnova costantemente. Ci troviamo di fronte ad un paradosso: come si può ripercorrere la carriera di un artista che ha sempre concepito le sue opere come inseparabili dal contesto in cui sono nate? Buren risponde a questa sfida con un approccio radicale: anziché raccogliere opere preesistenti, le ricrea, le trasforma, le rifà, sapendo che rifarle significa inevitabilmente anche dis-farle».
Dopo le prime sale in cui sono esposti i lavori pittorici dei primissimi anni (1965-1966), infatti, lo sforzo creativo dell’artista si è concentrato sul rifare, trasformandole e adattandole ai nuovi spazi, opere passate la cui forma originale è andata perduta nel tempo. In questi termini, esempio eccellente è la riformulazione di Découpé / Étiré, collocata nella corte interna del palazzo: l’originale gioco prospettico di portici, realizzato per la galleria torinese di Antonio Tucci Russo, è rivisitato nel nuovo contenitore, plasmato su di esso. Buren nega così la natura intoccabile dell’opera giunta al termine, mette in discussione l’assolutezza della forma finita, sacrifica senza remore l’unicità sull’altare del continuum creativo e della volontà di rimanere nel presente. Una via suggerita dalla natura stessa della sua opera, da sempre conversante con l’ambiente circostante e viva solo nell’interazione umana, composta da una geometria votata all’attraversamento, all’incontro, allo scambio e mai alla staticità, all’esclusione, al rifiuto. Ripensate e riproposte in nuove forme, dialoganti con luoghi anche molto diversi da quelli che le ospitavano in origine, le creazioni di Buren non sembrano invecchiate affatto anzi, forse la poetica che le unisce, oggi acquista ancora più forza.



Estratti della conversazione pubblica durante la conferenza stampa —
Monica Preti: «Daniel Buren inventa sempre i titoli delle sue opere e delle sue mostre; spesso si tratta di titoli parlanti, che danno un senso ai suoi interventi. Mi chiedevo se Daniel volesse dirci qualcosa di più su come arriva a questi titoli»
Daniel Buren: «Cerco sempre, quando mi accingo a preparare un’esposizione, a trovare un titolo giusto, calzante, rispondente alla mostra e a ciò che soltanto nell’atto di preparare l’esposizione comincio a capire. Con questo intendo dire che i miei titoli non sono mai preparati in anticipo ma che sorgono nella mia mente durante l’allestimento delle mostre, che si tratti di spazi contenuti o più vasti. In questo caso ci sono state decine di possibilità ma vince sempre quello che funziona meglio nella traduzione in lingua. Curioso il fatto che, una volta esaminate tutte le possibilità, una volta trovato il titolo, mi accorgo che questo, pensato per una specifica esposizione, in realtà si sarebbe potuto applicare a qualsiasi altra. Mi è successo molto spesso di aver cercato un titolo estremamente esatto per poi rendermi conto che in realtà poteva andare bene per qualsiasi altra tra le mie mostre»
Monica Preti: «Un titolo inizialmente scelto e poi scartato, per l’impossibilità di tradurlo in italiano, era “disgiocare, rigiocare”: è interessante questo tema del giocare e del disgiocare. Le regole del gioco non si possono eliminare ma si possono torcere per così dire»
Daniel Buren: «Il titolo di tre parole Fare, disfare, rifare in fin dei conti restituisce tutte le possibilità ma l’idea del gioco è abbastanza essenziale in ciò che faccio. Gioco per me significa anche mettere assieme cose che a priori non dovrebbero stare assieme. Giocare significa per me accettare qualche rischio e assumere un atteggiamento leggero che consente di fare un passo di lato e ripartire. Nel caso di questa mostra, si è trattato di rimettere in gioco una serie di opere che non esistevano più ma che avevo realizzato in Italia, in spazi simili rispetto a quelli originali ma in luoghi diversi. La nostra volontà era quindi quella di fare (o rifare), di riproporre nel modo più esatto possibile le stesse opere in un luogo diverso e vedere cosasi poteva rigiocaredi queste opere, per tornare al titolo scartato. Dunque, un gioco come tentativo di adattare qualcosa in un altro luogo cambiandogli contesto e quindi rigiocandolo; non si tratta di un mero adattamento ma di una trasformazionedell’opera e del luogo che la ospita. L’opera, ad esempio, che si trova nel cortile del palazzo, nasce negli anni Ottanta ed aveva in origine quasi lo stesso disegno, però era realizzata in maniera più semplice e povera, con alcune tavole legate fra di loro da cerniere. La disposizione che vedete adesso è la medesima ma il luogo non è più interno ma esterno, e non è quadrato, il che ha reso un po’ più complicato l’allestimento. C’è quindi un aumento di tridimensionalità rispetto all’originale e quattro branche che si aggiungono, ciascuna di un colore diverso, che si riflettono in modo speculare tramite gli spazi ricoperti da specchi. Vedete allora adattamento e trasformazione, e la trasformazione è vicendevole, tanto che lo spazio stesso è cambiato. L’idea di per sé è la stessa con questo volume che si stiracchia verso i quattro angoli ma l’effetto è completamente diverso a causa della forma diversa del cortile. Risultato? La forma è completamente altra e nuova; un gioco che non avevo mai fatto prima»
«È stato detto che alcune opere non ci sono più, cosa s’intende?»
Daniel Buren: «La ragione principale è che, in genere, se una mia opera sopravvive è perché viene acquistata da un luogo pubblico oppure da un collezionista privato che s’impegna a trasportarla. Tutti i pezzi che si trovano in questa esposizione non sono stati acquistati e sono andati distrutti, non esistono più com’erano in origine. Non è una catastrofe, succede all’80 % delle mie opere. È la prima volta che mi lancio in questo gioco, di riallestire in un altro luogo, non più quello iniziale, delle opere il cui originale è andato perduto»
«A proposito di gioco, come si racconta la tua arte ai bambini?»
Daniel Buren: «È una cosa che mi è sempre interessata. C’è una statistica che ho potuto osservare negli anni: ogni volta che c’è una mia installazione, coloro che la capiscono subito e la fanno capire agli altri sono i bambini. I bambini sanno guardare e il loro sguardo li rende capaci di utilizzare immediatamente ciò che vedono. Gli adulti, invece, hanno spesso difficoltà a capire, vedere e utilizzare. I bambini sono quasi immediatamente ricettivi e quasi immediatamente si mettono a giocare: dentro alle mie opere, fra le mie opere, con le mie opere. Anche se nulla indica che siano installazioni fatte per giocarci, si accorgono subito di questa possibilità. Un esempio: la mia opera al Palais Royal di Parigi. Quando abbiamo terminato la preparazione e sono stati ammessi i visitatori, i primi a capirci qualcosa sono stati i bambini. Ci vanno e ci inventano dei giochi, si prendono il piacere, in modo del tutto naturale, di adattare la mia opera ai loro giochi. Anche se l’opera non è fatta per giocarci ma per guardarla, pensarci sopra, interrogarsi, i bambini capiscono subito, vanno e giocano tra di loro. Siamo nel cuore di Parigi, un luogo pubblico frequentato da migliaia di visitatori; eppure, questa dinamica si ripete sempre da 40 anni. Non lo so spiegare e non voglio farne una teoria però mi accorgo che lo sguardo dei bambini è differente. Succede anche nei musei, se c’è un’opera di Buren i bambini si mettono a correre! Vedono la mia opera e ci fanno qualche cosa, un gesto che diventa esso stesso parte dell’opera. Per rispondere alla sua domanda, dunque, basta lasciarli giocare, non c’è niente da spiegare ai bambini».




Intervista a Daniel Buren di Matteo Carli
Matteo Carli: Una battuta per iniziare. Ho visto che durante la conferenza guardava il soffitto e le travi…cercava gli 8,7 cm?
Daniel Buren: [ndr. ride]
Matteo Carli: Penso che la sua sia un’opera costruita su di una geometria dello scambio, dell’incontro; un’arte che suggerisce il contatto con l’altro. In questa riflessione su sessant’anni del suo lavoro, pensa che in questa società sempre più individualista il suo lavoro abbia acquisito nel tempo dei significati diversi?
Daniel Buren: In un senso molto personale sono quasi sicuro che alla maggior parte dei visitatori succeda che la medesima opera, vista a 30 anni di distanza, dia un effetto differente e che la loro visione sia cambiata. Non importa se in senso positivo o negativo. L’opera cambia con me e per chi la osserva e la contempla; penso che per ciascuno di noi interessato al visivo, la conoscenza delle cose viste in seguito faccia sì che con il tempo la percezione di un’opera sia totalmente differente. È un fattore che vale anche e soprattutto per le opere fisse: le persone che entrano al MADRE di Napoli oggi, alla terza o quarta volta che vedono lo stesso oggetto tridimensionale, non vedono più la stessa cosa perché la persona è cambiata, cambiata da tutto ciò che ha visto nel corso del tempo. Non è l’oggetto fisico che è cambiato, immutabile, ma è la percezione dell’individuo che lo osserva a modificarsi.
Matteo Carli: La seconda domanda riguarda invece proprio il rapporto con la Toscana di cui si è parlato anche durante la conferenza. Avendo lavorato moltissimo in questa regione, pensa che questi luoghi l’abbiano influenzata in qualche modo nella creazione delle sue opere sul territorio? Crede di conseguenza che ci sia qualcosa che accomuna i suoi lavori in Toscana?
Daniel Buren: «Costruisco le mie opere partendo sempre dal luogo e per questo in esse ci sono sempre le caratteristiche di un territorio. Questo ovviamente non significa che io mi sia mai lanciato in una ricerca approfondita sul territorio toscano. Se c’è questa risonanza, significa che in qualche maniera sono riuscito a mettermi in sintonia con il luogo. Non significa neanche che mi sono adattato alla Toscana: questa ha delle particolarità e io cerco sempre di coglierle, in ogni luogo in cui vado, d’incorporare il luogo in cui opero e di trasformarlo con il mio lavoro. È quindi senz’altro possibile che ci siano delle caratteristiche di questa regione che si inseriscono in ciò che faccio e se sono entrato in sintonia con un posto, le sue caratteristiche si riflettono nel mio lavoro. Questo non significa che io abbia deciso a priori di assorbire il paesaggio toscano ma che esso si è riflesso automaticamente nelle mie opere.
DANIEL BUREN. Fare, Disfare, Rifare. Lavori in situ e situati
1968-2025, allestita a Palazzo Buontalenti dall’8 marzo al 27 luglio 2025
Cover: Photo-souvenir: Da un riquadro all’altro 5 immagini / frammenti di un modello ritrasmissione simultanea, scala 1:1, video in situ, 1974 / 2025, collezione Centre Pompidou. Particolare. Courtesy Fondazione Pistoia Musei, foto OKNOstudio, Ela Bialkowska © DB – SIAE Roma


