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Fabrizio Vatieri — Dominare spiritualmente il progresso | Nowhere Gallery, Milano

[nemus_slider id=”71256″] — Testo di Giulia Gelmini Scavando nei sostrati della storia accumulatasi nel tempo, Fabrizio Vatieri, abile archeologo della contemporaneità, porta alla luce il reperto-lavoro. Una ricerca raccontata attraverso tre passaggi, che corrispondono a tre elementi prodotti in occasione di questo nuovo lavoro: un libro, un’installazione e una performance, presentati il 16 novembre alla Nowhere […]

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Testo di Giulia Gelmini

Scavando nei sostrati della storia accumulatasi nel tempo, Fabrizio Vatieri, abile archeologo della contemporaneità, porta alla luce il reperto-lavoro. Una ricerca raccontata attraverso tre passaggi, che corrispondono a tre elementi prodotti in occasione di questo nuovo lavoro: un libro, un’installazione e una performance, presentati il 16 novembre alla Nowhere Gallery di Milano.

I tre capitoli della narrazione svelano una profonda relazione tra Fabrizio Vatieri e la metodologia di ricerca propria di un’intera equipe teatrale, di cui vengono messe in luce tre fasi di lavoro: la scrittura, la progettazione scenografica e la messa in scena.
Dalla lettura “Dominare spiritualmente il progresso: idee e riflessioni per i giovani d’oggi”, libro del 1964 curato da Giovanni Cavina, edito dalla Federazione Nazionale Cavalieri del lavoro nasce la pubblicazione del libro Dominare spiritualmente il progresso; una commistione di riflessioni sul significato del lavoro e sul suo ruolo nella vita dell’uomo scaturite da diverse letture, unite a fotografie di uffici, rappresentazioni simboliche del concetto ormai perduto di luogo di lavoro. Il progresso tecnologico, la nascita continua di nuove professioni e il distacco dall’auraticità di un ufficio austero, hanno portato al depotenziamento del mondo lavorativo.

Un’installazione che assume i tratti di un fondale scenografico abita lo spazio di Nowhere Gallery, un palcoscenico su via del Caravaggio 14 che, in occasione della serata inaugurale, ha aperto il sipario allo spettacolo scritto da Vatieri. Nello spazio della galleria gli oggetti di scena sono un telo sul quale vi è stampata una fotografia di un vecchio ufficio ormai disabitato, uno schermo – utilizzato il giorno seguente all’inaugurazione che documenta la performance svolta in quell’occasione – e i vestiti-reperto di una danza ripetuta più volte durante l’opening.
La performance svolta da Francesco Marilungo è una danza sui passi di una coreografia il cui protagonista è un agente immobiliare. Gesti scanditi dalle note del ritornello di “Il Monolocale” cantato da Lucio Battisti hanno animato la vetrina della galleria che, come una cornice, ha accentuato ancor più la composizione scenica della performance.

A seguire, un’indagine a quattro voci, con Fabrizio Vatieri, Orio Vergani, fondatore di Nowhere Gallery e Federica Torgano, che analizza le tematiche della produzione artistica, del ruolo dell’arte, del mercato e del lavoro che ha caratterizzato questa complessa messa in scena.

Fabrizio Vatieri, Dominare spiritualmente il progresso, Installation view, Nowhere Gallery, 2017
Fabrizio Vatieri, Dominare spiritualmente il progresso, Installation view, Nowhere Gallery, 2017

Giulia Gelmini: Nel tuo ultimo progetto, Dominare spiritualmente il progresso, hai toccato la delicata tematica del lavoro e della ritualità insita nei gesti quotidiani di un contesto lavorativo. Quando hai deciso di affrontare questo soggetto, quali figure della sfera delle diverse professioni sono state il tuo primo riferimento?

Fabrizio Vatieri: Dominare spiritualmente il progresso è innanzitutto una riflessione sulla distanza tra la dimensione lavorativa, sociale dell’individuo e la sua interiorità intima, spirituale. In realtà quando ho iniziato a ragionare su questo tema non ho pensato a figure professionali in particolare, l’opera riflette in generale sul lavoro come reperto archeologico.

GG: La pratica artistica in sé ha una libertà difficilmente riscontrabile in altre professioni e questo rende possibile il distacco dalla ripetizione. L’artista è una figura che sceglie a chi rivolgersi, di cosa parlare e in che momento. Quasi un creatore del lavoro. Non a caso, quando definiamo un’opera d’arte spesso utilizziamo il termine “lavoro”. In qualche modo pensi che l’artista possa essere in grado di dominare spiritualmente il progresso? Qual è il suo ruolo all’interno del grande sistema lavorativo contemporaneo?

FV: Non credo si possa individuare un ruolo ben preciso dell’artista nel grande sistema lavorativo contemporaneo, piuttosto credo possano esistere diversi livelli di fruizione di un’opera d’arte, dunque l’artista sceglie di volta in volta in che modo e a chi rivolgersi con le sue opere; è una questione di responsabilità, una scelta politica, e un gioco di ruoli che spesso si confondono. Faccio riferimento immediatamente a quella che è stata la riflessione che mi ha spinto a lavorare a Dominare spiritualmente il progresso e alla mia figura di fotografo professionista che lavora per l’architettura, per altri artisti, per le gallerie, le case per le agenzie immobiliari e altri settori. Spesso il lavoro di fotografo professionista sfiora anche solo visivamente i temi della mia ricerca e questo è uno dei concetti che sta alla base del progetto. Credo che questo concetto possa essere applicato ad una scala più ampia, un concetto che si tira dietro il grande tema della sopravvivenza economica, ma anche quello della committenza, pubblica o privata che sia.

GG: Penso all’ufficio come a un luogo in cui le identità si plasmano. Parte del nostro tempo viene trascorso all’interno di luoghi di lavoro che influenzano le nostre scelte, modellano le abitudini e abituano a determinati rituali. Ci vestiremo in un determinato modo a seconda del tipo di lavoro che svolgiamo, mangeremo fuori orario la sera perché tutti i colleghi rimangono in ufficio fino a tardi, faremo una pausa tutti i giorni a metà mattina perché abbiamo uno sconto al bar della nostra ditta. Cosa credi che succeda oggi quando per certe professioni, non esiste il luogo di lavoro fisso? Un fotografo come te che viaggia per lavoro, un art-advisor che viaggia per il mondo per scoprire nuovi talenti o un giornalista freelance sono forse esclusi da questa ripetitività? Possono ritenersi svincolati da questo loop alienante?

FV: Dal mio punto di vista ritengo la questione della ripetitività come sempre relativa e personale per qualsiasi professione. Nel mio caso al numero di ore e giorni in cui sono via per lavoro, corrispondono spesso in egual misura ore e giorni in cui sono in studio, che sia per l’elaborazione del materiale prodotto, la post-produzione o la ricerca per un nuovo progetto. Quello che a differenza succede negli uffici, che sono dei luoghi statici e chiusi in cui due o più persone si vedono ogni giorno al di fuori dell’ambiente domestico, è sostanzialmente una sorta di duplicato dell’ambiente domestico stesso. Nelle mie fotografie presenti nel libro Dominare spiritualmente il progresso, l’ambiente ufficio è completamente svuotato da qualsiasi oggetto personale o traccia di una quotidianità, ma è incredibile notare come certi elementi di arredo e architettonici rimandino immediatamente a quella tipologia di spazio. Ho scelto di fotografare uno spazio così vuoto, perché riguardo a quello che dicevi sull’identità plasmata e sulle abitudini rituali, il concetto di lavoro oggi non ha quasi più quella potenza che poteva avere in un luogo come quello che ho fotografato o come quello descritto nei testi che ho inserito nel mio libro, così come ha perso potenza il concetto di tempo libero. Le foto di archivio presenti nel mio libro sono state scattate durante un pranzo tra colleghi a metà degli anni ‘60, un momento in cui si era lontani dal lavoro, ma allo stesso tempo lo si celebrava.

Fabrizio Vatieri, Dominare spiritualmente il progresso, performance still da video, 2017
Fabrizio Vatieri, Dominare spiritualmente il progresso, performance still da video, 2017

GG: I testi presenti nella pubblicazione Dominare spiritualmente il progresso sono tratti da un testo divulgativo riguardante il boom economico che l’Italia stava vivendo negli anni ’60. Come hai trovato questo testo? E da cosa è partita la ricerca? C’è un momento particolare che ha fatto crescere in te l’urgenza di parlare di questa tematica?

FV: Il libro di cui parli e da cui il mio lavoro prende in prestito il titolo, è una raccolta di saggi e atti di conferenze, edito dalla Federazione Nazionale Cavalieri del lavoro nel 1964. L’ho trovato frugando nello scaffale di un ex cavaliere del lavoro, che verosimilmente aveva ricevuto in abbonamento quella ed altre pubblicazioni negli anni ‘60, e sono stato immediatamente attratto dal titolo. Ho trovato il libro in un momento cruciale della mia professione, un momento in cui riflettevo sulla distanza tra la dimensione professionale legata ai servizi e quella legata alla ricerca artistica, rispettivamente estremi di un elastico e che come tali si allontanano e si avvicinano a seconda delle contingenze. I testi del libro mi sembravano avere lo stesso comportamento elastico che esiste tra il contesto culturale in cui sono stati prodotti e la contemporaneità.

GG: In occasione della tua mostra personale da Nowhere Gallery c’è stata una performance in cui un attore, vestendo i panni di un agente immobiliare, ha danzato seguendo i movimenti compiuti da un agente immobiliare durante un sopralluogo in un’abitazione. Portando all’estrema enfasi questi gesti, la danza ha fatto emergere dei caratteri estetici di quel lavoro. Mi piacerebbe ragionare con te sulla possibile scrittura di un’estetica del lavoro, differente per ogni tipologia di professione, ma accumunata da una ritualità che involontariamente viene compiuta dai lavoratori, che seguendo questo ragionamento potremmo chiamare performer.

FV: Negli ultimi anni come ti anticipavo mi è capitato di fotografare appartamenti per conto di agenzie immobiliari. Nella maggior parte dei casi gli agenti immobiliari che mi accompagnavano si muovevano nello spazio indicandomi come fotografare, facendo spesso riferimento alla tecnica fotografica, agli strumenti che utilizzavo, passando da un angolo all’altro di una stanza. Osservando questi movimenti nel tempo ho riconosciuto come suggerivi anche tu dei caratteri estetici, che in qualche modo a livello simbolico entravano nel merito del mio lavoro fino a sfiorare la metamorfosi. Mi spiego, la coreografia della mia performance include 3 tipologie di movimenti, quella in cui il performer passa da un angolo all’altro della stanza indicando con due braccia lo spazio da fotografare, poi c’è la parte in cui unisce per poi allontanare indici e pollici delle due mani e disegna questo grandangolo impossibile girando su sé stesso, e poi la parte in cui si “trasforma” in un treppiede e si abbassa a terra col pugno verso l’alto. Dunque ricollegandomi al discorso che affrontavo prima anche la performance guarda ironicamente alla perdita di potenza del lavoro in questo caso del fotografo, soprattutto attraverso la posizione metamorfica del treppiede. La musica che accompagna la performance, è ispirata alla linea di sintetizzatore presente nel ritornello del pezzo “Il Monolocale” di Battisti-Mogol, ma che ho re-immaginato e composto insieme con il maestro Alfredo Maddaluno e la Real Estate Orchestra pensando ai requiem, come ad accompagnare una marcia al boom economico e al lavoro stesso che ha perso la sua potenza e diventa un reperto archeologico.

GG: Dominare spiritualmente il progresso sembra una sfida davvero complessa. Credi ci siano dei modi per riuscirci? O il nostro destino è accettare il fallimento?

FV: Questo progetto celebra il fallimento piuttosto che accettarlo passivamente, come scritto nel testo di presentazione della mostra: “…un’ode all’individuo, un requiem ai suoi sogni e ai suoi fallimenti”

Fotografia del libro Dominare spiritualmente il progresso, 2017
Fotografia del libro Dominare spiritualmente il progresso, 2017

Federica Torgano: Osservando il lavoro di Nowhere Gallery sembrerebbe esserci un orientamento molto specifico: potrebbe raccontarci come è nata la galleria, quali fossero i vostri obiettivi iniziali, se e come questi si siano evoluti nel tempo?

Orio Vergani: Nowhere nasce come esperimento nel 2001, senza fissa dimora lavoravo in agilità, ma in questo modo non mi era possibile partecipare alle fiere, cosa che all’epoca avrei voluto fare. Così decisi di aprire una sede fissa, proprio quando fare i nomadi stava invece diventando di moda, appesantendo notevolmente l’attività. L’obbiettivo è sempre stato quello di fare bene, non sempre è stato possibile e sono stati proprio gli errori a tracciare lo sviluppo di un’ideale modus operandi.

FT: Nowhere Gallery si distingue per la sua stretta collaborazione con gli artisti emergenti. Cosa implica oggi lavorare con un artista emergente? In che modo e misura le azioni volte alla costruzione del valore attorno all’opera dell’artista si differenziano da quelle messe in atto quando si lavora con una personalità affermata nel mondo dell’arte?

OV: Lavorare con un artista emergente significa partire dal grado zero: se il lavoro è buono non si deve fare altro che aiutare il giovane artista a migliorarlo mettendogli a disposizione il proprio bagaglio d’esperienza. Quando un’opera d’arte di un’artista emergente ha valore? Quando si vende? Io credo di no. Quando un’opera è buona ha valore in tutti i casi. Un’opera di valore assolve al suo compito, ovvero quello di essere viva, rifrangendo il mondo esterno attraverso una stratificazione di significati. L’artista affermato e i suoi collaboratori guarderanno invece al valore già costruito in precedenza, orientando quindi le proprie azioni al mantenimento di questa norma. La commercializzazione dell’opera d’arte è tutta un’altra faccenda, talvolta completamente slegata dal reale valore dell’opera.    

FT: Nella pubblicazione Dominare spiritualmente il progresso leggiamo: “In una società così conformata, il rapporto più stabile e significativo è quello che si attua con il lavoro”. Come è nata la collaborazione con Fabrizio Vatieri e che rapporto lega il gallerista all’artista?

OV: Io e Fabrizio abbiamo amici e passioni comuni, tra cui la musica e soprattutto le sfogliatelle. Questa vicinanza ha favorito l’effettiva realizzazione dell’idea di collaborare, nata un giorno nel corso di una semplice chiacchierata. Tendo sempre a creare legami di amicizia con le persone con cui lavoro, mi sarebbe impossibile fare altrimenti.

Fabrizio Vatieri, senza titolo (dalla serie Dominare spiritualmente il progresso), 2017
Fabrizio Vatieri, senza titolo (dalla serie Dominare spiritualmente il progresso), 2017

FT: Lavorare con artisti emergenti significa anche trattare arte proveniente direttamente dagli studi degli artisti, ancora vergine del confronto con lo spettatore e il mercato. Spesso viene percepita come difficile da accogliere e recepire da parte del pubblico. Inoltre oggi l’arte contemporanea viene facilmente accusata per la sua autoreferenzialità permettendole un dialogo solo con il pubblico specialista, e forse ogni tanto neanche con quello. In questo contesto, quale responsabilità sente di avere come gallerista nei confronti del suo pubblico?

OV: Nella vita non c’è nulla di bello che sia anche facile. Nel nostro panorama contemporaneo, piuttosto desolante, l’unica soluzione è quella di riuscire ad accendere delle passioni. Non possiamo pretendere di capire se non accompagniamo questo tentativo con uno sforzo, seppur minimo. Una buona pratica di cui mi sto servendo in galleria è quella di ridurre i comunicati stampa al minimo, una mostra deve sapersi spiegare da sola tramite il titolo e delle didascalie accurate delle opere esposte. Sarà poi compito del visitatore trovare un senso più ampio e personale a ciò che ha visto. Tornando a quello che dicevo prima, credo che sia fuori dall’opera stessa, nel mondo e nel contesto che la circonda, che l’appassionato potrà trovare le risposte che cerca.

FT: Parlando di libertà nel lavoro artistico, una libertà idealmente intrinseca all’arte e difficilmente riscontrabile in altre professioni. Crede sia così anche oggi nonostante le pressioni esercitate dal sistema dell’arte contemporanea?

OV: Si, auguro a chiunque faccia arte di essere libero quanto più possibile all’interno della propria gabbia.

FT: “Dominare spiritualmente il progresso: questo deve essere oggi il nostro compito più urgente e la nostra maggiore preoccupazione.” Questa affermazione mi ha fatto pensare alla preoccupazione costante per l’innovazione nella produzione artistica, come se ci stessimo muovendo all’interno di un campo scientifico in cui l’obiettivo è l’avanzamento della ricerca e il superamento delle scoperte precedenti. Secondo lei come può un’artista oggi dominare spiritualmente il progresso, ma soprattutto, deve?

OV: Da qualche decade l’artista è libero di sperimentare senza limiti, ogni media è concesso, ogni atto è permesso. Direi che questo basta per comprendere appieno la forza innovativa di alcuni talenti. È proprio così che ci costringono a valutare la realtà multiforme in cui viviamo. Solo dominando spiritualmente le tecniche e i media scelti l’artista è veramente tale. Credo infatti che siano i mezzi stessi, in una certa misura, ad essere il cosiddetto progresso. Trovandoci oggi alla fine del percorso fatto fin qui dalla storia dell’arte, gli artisti capaci di coltivare il proprio talento sono gli unici a poter mettere in relazione tra loro le cose e a guidare il nostro spirito critico.

FT: In merito alla possibilità della scrittura di un’estetica del lavoro, data dall’enfasi posta sulla ripetitività di gesti tipici della professione, crede si possa inserire in questo ragionamento anche il lavoro del gallerista e quello dell’artista? In particolare il suo e quello di Fabrizio?

OV: L’arte non è un lavoro, non dimentichiamolo, nasce ancora grazie a un surplus e quando questo surplus sarà garantito dalle macchine forse non sarà più l’arte che conosciamo oggi. Mi parrebbe irrispettoso nei confronti di chi è stato costretto a una totale integrazione con la macchina, avere l’arroganza di parlare di una ripetitività gestuale nel mio fare o in quello degli artisti. Forse potremmo parlare di una ritualità in merito ai codici e ai gesti dell’artista, ma direi che siamo già in un altro campo. Fabrizio è riuscito proprio in questo: ha ritualizzato e sacralizzato gesti mondani, alienanti a causa della loro ripetitività, restituendo poesia al mondo del lavoro e a coloro che ne fanno parte.

Fabrizio Vatieri, Dominare spiritualmente il progresso, Installation view, Nowhere Gallery, 2017
Fabrizio Vatieri, Dominare spiritualmente il progresso, Installation view, Nowhere Gallery, 2017
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